ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 13 ottobre 2015

8° girone, 6^ bolgia

CATECHESI ORIZZONTALE
La banalità ciarliera come stemma del pontificato di Bergoglio

Mentre in precedenti interventi ci siano soffermati, spesso e per la maggior parte, sulla teologia personale e rivoluzionaria di Papa Bergoglio, in questo vorremmo dire la nostra su quella tensione al pettegolezzo e alla ciarla che, da sempre, sin da quando esordì con quel laicista e dissacrante “buona sera”, egli ha dimostrato di prediligere ravvisandovi, nel tirarla come una comare di condominio, chissà quale valenza pedagogica o, addirittura, quale capacità evocativa di sani insegnamenti, non rendendosi conto, invece, di immiserire l’altissimo ministero nelle pieghe di un comportamento banale, raso terra e parolaio.

Meraviglia, perciò, per quanto diremo, che proprio lui si sia lanciato, in Santa Marta, nell’invettiva magisteriale contro i “cristiani da salotto” e contro i “cristiani chiacchieroni”. Testualmente: “Le chiacchiere sono distruttive nella Chiesa” (23 maggio 2013). Ma si sa: nella storia si entra o per imprese belle o, come sembra in quest’epoca ipermediatica, con messaggi a ripetizione, immagini plastificate e pettegolezzi da rotocalco. E Papa Bergoglio, che ha conquistato le copertine delle più diffuse, più  note, non diremo autorevoli, riviste mondialiste, ha scelto la seconda strada, larga, facile da percorrere e assai transitata.

Vediamo, allora, alcune fra le tante circostanze in cui Papa Bergoglio s’è comportato come un cristiano da salotto e, per di più, come un chiacchierone con esiti da battibecco, come vedremo in un recente caso.


1) Aula delle udienze ‘Paolo VI’, 8/5/2013: davanti a 1900 suore, donne consacrate che hanno rinunciato alla famiglia in qualità di madri biologiche, - eunuche per il regno dei cieli (Mt. 19, 12) - il Papa coglie una delle sue sciatte ed inopportune figure retoriche con l’esortarle ad essere “madri e non zitelle”. Un termine da comari, un casareccio modo di evidenziare la maternità spirituale di costoro, che ne esce banalizzata e depressa da quel ricorso lessicale volutamente spregiativo ma che, al contrario, derivato da un toscano “cita - citella” - fanciulla, piccola, verginella - esalta il voto di castità che le consacrate hanno fatto loro come impegno di vita e di testimonianza.
Noi non pretendiamo che Papa Bergoglio si rifaccia all’etimologìa, che di questo vernacolo forse non conosce, ma pretendiamo che non ridicolizzi, con battute popolane, uno stile di vita che, proprio per fare di queste suore delle “zitelle” di Cristo, le pone al di sopra di pettegolezzi.

Se poi diciamo che, presso il Santuario della S. S. Trinità, a Vallepietra, la prima domenica di plenilunio, successiva alla Pentecoste, si svolge la lauda sacra del “Pianto delle zitelle” (1700) viene naturale un moto di risentimento, e di fastidio, per il vocabolo in oggetto che, nel contesto allocutivo dell’udienza, ha soltanto ridicolizzato la vocazione.

[Nota: L’esortazione papale ad essere “più madri che zitelle” ha avuto più che concreta risposta. A Rieti – 17/1/2014 – una suora salvadoregna, trovatasi incinta “a sua insaputa”, ha partorito, diventando madre, nel locale ospedale; a Macerata – 23/1/2015 – una suora di clausura, boliviana, ha dato alla luce un bambino. Entrambe hanno dimostrato di non essere zitelle]. 



2) “Diamoci del tu” 
è l’esordio con cui Papa Bergoglio inizia la telefonata – 22/8/2013 – con uno studente diciottenne di Padova, tale Stefano Cabizza. Eh sì! Perché al di là della differenza di età e, soprattutto, al di là  dell’immensurata distanza delle rispettive personalità, al pontefice piace dirsi “uno dei tanti”, come se la sua sacra investitura di Vicarius Christialtro non sia che una carabattola di cui non tener conto. «Diamoci del tu perché, sai - continua affabile e confidenziale – gli Apostoli mica chiamavano Gesù “sua eccellenza”, capisci?».

Noi, con lettera personale – che non sappiamo se recapitata o meno – gli abbiamo fatto notare che, certamente, gli Apostoli non lo chiamavano con sì fatto, mondano e cerimonioso titolo, ma Gli si rivolgevano con termini quali: Figlio di DioMaestroSanto di DioRabbi,Figlio di DavideCristo. Ben altro che la scialba ed effimera onoranza dell’eccellenza come, stoltamente, Papa Bergoglio infila nel discorso con lo studente, a rinforzare e astutamente giustificare quella cameratesca e disinvolta aria con cui conduce la telefonata, il cui scopo è soltanto, tramite una untuosa “captatio benevolentiae”,  diffondere ai media – eppure la telefonata è personale, privata ed estemporanea, dicono i. . . giornali! – un’immagine di sé costruita su una inesistente paritetica dignità  tra un Papa e un giovane diciottenne studente.
Un perfetto gesto democratico che sa tanto del “citoyen” – cittadino – 1789, tutto “égalité”, alla faccia della “gerarchìa” che, in senso stretto e lato sta a significare “primato sacro”, quale è quello che si configura nel Papato.

Con tutti i problemi che affliggono la Chiesa – scristianizzazione, abbandoni vocazionali, apostasìe, pedofilìa e omosessualità clericale, relativismo etico, banalità liturgica, avventura dissacratoria del dogma e dell’Eucaristìa – il Pontefice non trova altro da fare che alzare il telefono e ciarlare del più e del meno – più del meno che del più – con un giovane il cui merito è quello di avergli indirizzato una lettera.
A ben vedere, questo “diamoci del tu” fa il paio con quel mondano, antiestetico e profano “buona sera” con cui, ad elezione papale avvenuta, Bergoglio si presentò alla Cattolicità non come Vicario di Cristo, Successore di San Pietro e vescovo di Roma, ma come presidente di una società filantropica, del tipo Rotary o Lions che tanto sanno, sono e puzzano di Massonerìa.


3) 6 novembre 2013, udienza generale In Piazza san Pietro. Una giovane sposa, al momento del saluto, estrae un naso rosso da clown, voluminoso come un pomodoro, e se lo mette sul viso, poi “conoscendo la simpatìa del Papa”- scrive il cronista - gliene allunga uno. “E Francesco, senza esitare, indossa il naso da pagliaccio, scoppiando a ridere insieme agli sposi”.
Un papa, dicono le cronache, aperto, comunicativo ed anche simpatico.
Diciamo subito che questa del naso da clown non è nuova perché in altra occasione fu usato, in Vaticano, per destare ilarità e fu quando Joaquin Navarro Vals, medico-giornalista, portavoce della Sala Stampa Vaticana, se lo mise per strappare un sorriso a GP II già immobilizzato dal morbo di Parkinson.
Come si può vedere, e sapere, tale espediente è ricorrente nella sede di Pietro.
Ma ciò che desta sensi di compatimento e di avvilita delusione è quel tipo di catechesi circense con cui Papa Bergoglio arreda e correda il sacramento del matrimonio quasi riconducendolo a vera pagliacciata. Che, poi, altro non è, oggi, per via di quella oscenità dissacrante che caratterizza l’officio del sacramento stesso divenuto spettacolo di spose discinte e scostumate attorniate da un codazzo di urlatori e battimani, con evoluzioni di  cappellini e salve di fischi, mentre il celebrante partecipa beato e beota.

Ci mancava quest’appendice comica ed irritante di un Vicario di Cristo che si mette a scimmiottare il pagliaccio per rendersi plebeo accetto a tipi plebei. Una catechesi orizzontale e raso terra che, per certo, avrà incrementato l’onda di simpatìa che il popolo suole provare per chi vive e condivide le stesse banalità.

Indiziario del tutto è quella nota con cui il cronista spiega il perché del gesto della sposina, e cioè quel “conoscendo la simpatìa del Papa”, espressione che allude non soltanto alla sua capacità attrattiva, epidermica peraltro, ma anche ai suoi gusti che, con la sceneggiata messa in atto nella piazza dell’Apostolo Pietro, non appaiono per niente sublimi e raffinati, e men che meno santi. Un intermezzo da farsa che tanto avrebbe fatto sganasciare dal ridere – come del resto lo ha fatto – gli spettatori di un qualche teatrino da periferìa.

E questo sarebbe il nuovo corso pastorale.


4) Il 27 settembre scorso, viaggio Cuba/USA, durante una delle tante allocuzioni tenute nei varî interventi, ha replicato, sulla stessa lunghezza d’onda concettuale e retorica, l’esortazione  rivolta alle suore, quelle zitelle di cui dicemmo sopra. Parlando alle famiglie di Philadelphia ha tenuto a precisare, ed era ovvio, che non tutto è pace, armonia e sentimento perché, talora, “nelle famiglie volano i piatti, per non parlare delle suocere”.
La suocera: uno stereotipato modello umano che, al pari della zitella, fa parte di una calcificata letteratura barzellettiera e su cui si esercitano l’umorismo e la battutaccia. Eppure la suocera è, nel tempo stesso e per lo più dei casi, una “nonna”, figura che il Pontefice, nelle udienze generali del 28/9/2014 e dell’11/3/2015 concesse agli anziani, ha indicato e magnificato come uno dei più alti valori familiari, lei nonna/lui nonno, che “trasmette l’esperienza di vita, la storia della famiglia, la saggezza”.

Il sommo pastore, la guida della Katholika, non può e non deve prodursi in simili e banali esternazioni; il suo linguaggio deve intonarsi alla pedagogìa, alla catechesi, al messaggio evangelico e non ridursi, come troppo spesso gli càpita, ad espressioni colorite e stradaiole che suscitano il riso e l’applauso ma che non lascian traccia e ricordo di sé, “qual fummo in aere ed in acqua la schiuma” (Inf. XXIV, 51).
Questi luoghi comuni sviliscono e banalizzano anche i pensieri più nobili e i discorsi più serî. Ma al Pontefice piace così.


5) Papa Bergoglio, Vescovo romano  - Ignazio Marino, Sindaco romano.
Un romanzo, una farsa meglio, il cui titolo non potrebbe essere che “Ci eravamo tanto amati”  perché l’epilogo della loro relazione istituzionale e personale descrive una clamorosa, chiacchierata e rissosa rottura, quadro indegno per entrambi ma, soprattutto, per Papa Bergoglio in quanto Papa.

Scena I^: Città del Vaticano, sala delle udienze, 19/9/2014. Il Papa riceve una delegazione di chirurghi e tra questi figura anche il sindaco romano, il dottor Ignazio Marino. Il personaggio è notissimo per aver sostenuto l’assassinio di Eluana Englaro, per condurre battaglie pro divorzio, unioni omosessuali, eugenetica, per un vago atesimo liberale e per il vezzo di giostrare sulle note-spesa  e relativi rimborsi. S’è, nel frattempo, fatto crescere una barba sale-pepe davanti alla quale il Pontefice domanda: “Ma che sei diventato un francescano?”. Le cronache dicono che ci fu, in quel momento – e te pareva! - una gaia e collettiva risata.
Fu l’inizio di un rapporto istituzionale fitto, cordiale, amabile, che andava al di là del personaggio e delle sue obituarie idee. Fatto salvo l’errante, come insegna S. Agostino e ribadisce Giovanni XXIII, avremmo apprezzato la condanna o una tirata d’orecchie, da parte del Papa, per quelle idee giacobine ed anticristiane. Ma l’alone mortifero che circondava, e circonda, il personaggio Marino non disturbava allora il Vescovo di Roma e la Curia.

Scena 2^: Aereo – alta quota – 28/9/2015. Nella conferenza stampa, di ritorno dal viaggio a Cuba e negli USA, Papa Bergoglio, ad una precisa domanda risponde: “Marino a Philadelphia? Non l’ho invitato io e nemmeno gli organizzatori. Chiaro?”. Che cosa era successo perché il Pontefice uscisse con questa dichiarazione? Era accaduto che il sindaco romano aveva millantato un invito personale del Papa nell’incontro con le famiglie in quella città. Un piccolo sotterfugio mediatico per accreditarsi una familiarità che, stando alla prima udienza, quella della “barba francescana”, pareva essere stata suggellata in eterno. Una cosuccia di carattere infantile su cui il Pontefice avrebbe dovuto passar sopra, divenuta, invece, argomento di rissa e di battibecco con grande sbraco di quella diplomazia vaticana ritenuta, da secoli, la più accorta e sottile.

Sentire un Papa che, con certa acredine precisa che lui, sia chiaro!, non ha mai invitato il dottor Marino il quale risponde lamentando proprio questa scivolata e caduta di stile, la chiacchiera cioè, si ha l’impressione viva di assistere a un alterco che la nostra maggior musa definì “bassa voglia” (Inf. XXX, 148).
Una bazza per la stampa mondiale che s’è trovato argomento per inzupparci il pane, e una figura meschinella più per il Pontefice calatosi in una disputa ridicola che per il sindaco romano. Sarebbe stata saggia decisione non rispondere alla domanda del giornalista il quale, detto tra noi, conosceva l’interlocutore e la sua voglia di parlare a braccio, cosa che spesso porta e deraglia in direzioni opposte alle intenzioni prime. Eterogenesi dei fini, diremmo con Augusto del Noce.

Scena 3^: Roma, Campidoglio, Vaticano. Il giorno 8 ottobre, 2015, Marino, pressato dalle critiche per le sue spese personali fatte gravare sul bilancio del Comune, annuncia le dimissioni. Ѐ quel suo antico vizio di far passare svaghi, pranzi e cene di stretta competenza personale come spese di rappresentanza e, come tali, iscritte a carico dell’ente comunale. Roba non di sola sua esclusiva furbizia, intendiamoci, perché le cronache odierne ci parlano di un Matteo Renzi, attuale primo ministro imposto dall’alto e fuori schema democratico, il quale nei tempi in cui “sindacava” la città del fiore, Firenze, pare che praticasse, stando a testimonianze precise, la stessa strategìa di Marino, quella cioè di andare per trattorie e ristoranti a spese del Comune. Ma il Governo di questo Renzi gli dà pollice verso. Come dire: il bue dice cornuto all’asino.

Il Vaticano, che “non mosse collo né piegò sua costa” (Inf. X, 75) davanti alle aberranti e anticristiane idee del Marino, ripetiamo: aborto, eutanasia, eugenetica, divorzio, patrocinio delle unioni omosessuali, cosucce da poco per gli orbi ed ipocriti delle sacra stanze, il Vaticano dicevamo, davanti invece a degli scontrini fasulli, s’erge e punta il dito – lui, che lo scandalo IOR è ancora lì come l’ombra di Banquo! –  accusando Marino di aver ridotto in macerie la città di Roma.
Sicché, alla baruffa tra compari, un tempo amiconi – Papa e sindaco – si aggiunge la farsa di una Gerarchìa che passa sopra i valori così detti “non negoziabili” ma si strappa le vesti per delle gherminelle contabili.
Già, dimenticavamo: c’è di mezzo il Giubileo della. . . Misericordia
Roba da inferno dantiano: 8° girone, 6^ bolgia degli ipocriti.

di L. P. 

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