È Timothy Dolan, arcivescovo di New York, uno dei tredici cardinali della lettera al papa. Esempio vivente di quella "parresia", cioè di quella schiettezza di parola e di pensiero, tanto voluta da Francesco
di Sandro Magister
ROMA, 19 ottobre 2015 – Nella burrasca scatenata dalla pubblicazione della lettera dei tredici cardinali al papa, le autorità vaticane che gestiscono la comunicazione – da Santa Marta più che dal Palazzo Apostolico – hanno di fatto fomentato gli attacchi non tanto contro il responsabile della pubblicazione, ma molto più contro i padri sinodali che hanno firmato la lettera.
Eppure si tratta di personalità di prima grandezza, di arcivescovi di diocesi importanti quali New York, Toronto, Houston, Utrecht, Bologna, Durban, Nairobi, Caracas. Per non dire di tre colonne della curia romana vecchia e nuova come George Pell, Gerhard Müller e Robert Sarah, in passato anche loro vescovi di diocesi quali Sydney, Ratisbona e Konakry.
È stata tale l'aggressione mediatica contro questa altissima e corale rappresentanza della gerarchia mondiale – accusata di "cospirare" contro il papa fin da prima della pubblicazione della lettera – da obbligare di aggiungere alle questioni sollevate nella lettera una questione irrisolta in più: riguardante la gestione della comunicazione di ciò che accade nel sinodo.
Basta vedere come padre Thomas Rosica, il comunicatore ufficiale del sinodo per i media anglofoni, ha subito fatto circolare accompagnato da una sua entusiastica approvazione l'attacco più virulento ed autorevole ai tredici firmatari della lettera, fatto dall'arcivescovo di Washington Donald Wuerl, cardinale prediletto da Bergoglio, in un'intervista del 18 ottobre ad "America", la rivista dei gesuiti "liberal" di New York:
> Cardinal Wuerl Calls Out Pope’s Opponents
Sta di fatto che, a dispetto di queste reazioni, la lettera dei tredici cardinali ha ottenuto dei risultati. E li ha ottenuti soprattutto dopo la sua pubblicazione, che ha consentito a un più largo numero di padri sinodali di conoscerla e di riconoscersi in essa, e quindi di esercitare una pressione più massiccia su chi governa il sinodo, per ottenere risposte più soddisfacenti di quelle fin lì date.
Ne ha dato atto Pell, il cardinale che la mattina del 5 ottobre consegnò la lettera al papa, in un colloquio del 16 ottobre col vaticanista John Allen, così riferito su "Crux":
"Tra le altre cose, Pell ha detto che il cardinale italiano Lorenzo Baldisseri, segretario del sinodo, ha dichiarato nell'aula sinodale che il voto sul documento finale sarà fatto 'paragrafo per paragrafo', fornendo un senso chiaro di quali siano le posizioni dei vescovi sui singoli punti.
"Inoltre, ha detto che i membri della commissione per l'elaborazione del documento finale hanno promesso solennemente che saranno fedeli al contenuto delle discussioni del sinodo, invece di usare il testo per promuovere i loro punti di vista".
La composizione di questa commissione, non eletta ma tutta nominata da papa Francesco, continua ad essere giudicata insoddisfacente da molti padri sinodali, memori degli inganni patiti nel sinodo del 2014, ma è evidente che i membri della commissione si sentono oggi molto più controllati nel loro lavoro, proprio grazie al grido d'allarme sollevato dalla lettera dei tredici cardinali.
Quanto alla pubblicazione o no del documento finale del sinodo – decisione che spetta al papa – Pell ha detto di credere che sarà reso pubblico, tra le altre cose perché "destinato a scappar fuori in ogni caso".
"Tutto ciò che vogliamo – ha aggiunto – è che qualsiasi cosa il sinodo dica, sia essa buona, cattiva o indifferente, sia resa pubblica".
Della lettera dei tredici cardinali, Pell è stato il promotore. E l'arcivescovo di New York Timothy Dolan è stato quello che più entusiasticamente gli si è associato.
Nel conclave del 2013 i cardinali nordamericani, tra i quali appunto Dolan, sono stati tra quelli che hanno votato Jorge Mario Bergoglio.
Dolan non è certamente classificabile come un "liberal", ma nemmeno come un rigido conservatore. È espressione di una Chiesa intransigente nella dottrina e non cedevole alle sirene mondane nella cura pastorale, ma per altri aspetti molto "aperta" e "moderna".
Non è un caso che egli sia tra i protagonisti di questo sinodo.
Eccone qui di seguito un brillante ritratto, pubblicato il 17 ottobre sul quotidiano d'opinione italiano "Il Foglio" e scritto dal suo corrispondente negli Stati Uniti.
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GUARDA COME GIOCA DOLAN
di Mattia Ferraresi
A New York il cardinale Timothy Dolan ha intrattenuto calorosamente Francesco nel suo modo informale e televisivo, correndo perfino il rischio di rubare, anche soltanto per un attimo, la scena al pontefice che gioca fuori casa. Il suo “thanks for stopping by, come back soon!” con tanto di gesto dell’okay, ricambiato dai pollici alzati di un sorridente Francesco, è diventato un meme, faccenda normale per un cardinale ad altissima capacità di penetrazione mediatica.
A Roma, invece, lo precipitano nel ruolo di cospiratore, obliquo ed eterodiretto firmatario di lettere preoccupate per le procedure del sinodo, fatto che diventa di sostanza più che di forme, se queste tendono a favorire certi esiti piuttosto che altri. Dentro l’aula del Sinodo dice senz’ombra di ambiguità che quando si parla di matrimonio e famiglia, “il nostro dovere è seguire Gesù nel richiamare e ripristinare ciò che il Padre intendeva ‘al principio’”, mentre il “realismo pastorale e la compassione” vengono dopo, molto dopo. Quando Dolan si è trovato in mezzo alla “tempesta in un bicchier d’acqua”, come l’ha definita lui, della famosa lettera, ha affrontato la controversia con il suo stile solito, che prescrive di andare sempre avanti, mai indietro, di parlare apertamente senza perdersi nelle smentite sui dettagli, che danno segnali di arroccamento difensivo e incapacità di dialogo.
Alla Radio Sirius XM ha raccontato il retroscena della lettera, che poi retroscena proprio non è. Ha spiegato che da una conversazione con il cardinale George Pell sono emerse le preoccupazioni messe nero su bianco, e che i tredici cardinali hanno firmato e fatto avere al papa: “Pell, nel suo buon modo accorto, ha detto: ‘Dico bene se sintetizzo così alcune delle preoccupazioni?’. E alcuni di noi, io incluso, abbiamo detto: ‘Ci sembra buono, se manderà una lettera al papa può contare su di noi’, e infatti l’ho firmata”.
Al sito Crux ha ribadito il concetto: “Ho detto: eccoci qua, Padre. Ci ha detto di essere onesti e lo siamo stati. Lui ha risposto a queste preoccupazioni. Sono grato che abbia prestato attenzione”.
E ancora: “Mi sembra che per Francesco, e quelli che lo conoscono meglio me lo confermano, questo sia parte della spiritualità ignaziana: la confusione, il caos, le domande sono una cosa buona”, mentre le cose “prevedibili e molto strutturate” a volte possono essere “un ostacolo al lavoro della grazia”.
C’è chi ha letto in queste parole l’ammissione che il porporato americano abbia firmato la lettera dietro pressione dello stesso Pell, accodandosi all’ispiratore australiano e diventando l’ignaro firmatario di una lettera in bianco. Cosa che suggerisce, nemmeno troppo velatamente, che Dolan non è “his own man”, come si dice in America, ma in questo caso in qualche modo la vittima di più alte manovre. Vittima di un complotto incastonato dentro a un altro complotto: l’ermeneutica cospirativa è un mestiere faticoso.
Per Dolan, piuttosto, si tratta di un elementare esercizio di "parresia", faccenda consueta per il cardinale che è stato definito il modello di “conservatore aperto al mondo”, teologo saldo e senza impeti novatori ma che non si mette sulla difensiva nemmeno quando parla con il New York Times di abusi sessuali del clero. Lo stesso che assieme ai suoi colleghi americani era stato ripreso dalla Santa Sede per un atteggiamento un po’ troppo loquace durante l'ultimo conclave, e ai fedeli della sua diocesi prima di partire non aveva chiesto, francescanamente, di pregare per lui, ma di mandargli del burro di arachidi se non fosse rientrato entro tre settimane.
Quello che si è presentato a Roma per il sinodo non è il "doppelgänger" del dialogante e spigliato pastore newyorchese, non è l’anima rigida, curiale, in un corpo abituato ai riflettori, agli appuntamenti di gala, ai dialoghi pubblici con personalità lontane dalla sensibilità della Chiesa.
Se c’è una cosa che il viaggio di Francesco in America ha mostrato, con potenza di gesti e di parole, è l’irriducibilità del cristianesimo a una questione fra conservatori e progressisti, fra repubblicani e democratici, e nella sua parabola pastorale Dolan già da tempo incarna il tentativo di superare uno schema politico diffuso in Occidente, ma che in America ha assunto una particolare rigidità.
Non ha offerto misericordia a buon mercato quando si è trattato di dare battaglia. Sulle restrizioni dettate dall’"Obamacare" ai cristiani nello spazio pubblico è arrivato fino a suggerire la via della disobbedienza civile; ha dato a Barack Obama lezioni di diritto costituzionale definendo “anti americana” la sua posizione restrittiva sulla libertà religiosa; da capo della conferenza episcopale ha contrattaccato senza equivoci il “secolarismo riduttivo” di cui parlava Benedetto XVI.
Ha scritto di recente che i cattolici sono la “nuova minoranza”. Allo stesso tempo non ha mai chiuso, e anzi ha allargato gli spazi di dialogo ed evangelizzazione, come dimostra, da ultimo, l’investimento notevole per la resurrezione del moribondo Archbishop Fulton J. Sheen Center for Art and Culture, spazio di incontro nel cuore di Manhattan per “esprimere la bellezza e la profondità del cattolicesimo”.
Il pastore con il bernoccolo per la comunicazione e un vasto apparato digitale gioca nello stesso campo di Francesco. Esibisce uno stile marcatamente nordamericano, inevitabilmente diverso da quello latinoamericano e periferico di Francesco. Ma nella volontà caritatevole di aprirsi e dialogare, senza arroccamenti e barriere difensive, si riconosce un canone condiviso.
Alla vigilia del sinodo condivideva con altri cardinali e vescovi alcuni dubbi sulle procedure, e le ha espresse: niente di più dolaniano. Il papa ha irritualmente preso la parola in assemblea per rispondere: niente di più bergogliano.
Nelle interviste e nell’intervento in aula Dolan ha chiarito in modo esplicito non soltanto che i cambiamenti dottrinari non sono sul tavolo, ma non dovrebbero esserlo nemmeno quelli pastorali che rischiano, per affermazione di una prassi, di svuotare nel tempo la dottrina. Il suo endorsement appassionato alla “saggezza che toglie il respiro” della Chiesa africana, che non è “più fatta di matricole”, è un’affermazione chiara per chi vuole intendere, ma non fa di lui la macchietta di un conservatore.
Non esiste un conciliante Dolan newyorchese e un ferreo Dolan romano, esiste un solo cardinale, abituato a parlare con "parresia" al mondo e alla Chiesa.
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Il quotidiano su cui è uscito l'articolo:
> Il Foglio
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351160
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