Urge un nuovo Sillabo sulla famiglia, per superare la separazione tra dottrina e pastorale di Guido Vignelli
La illusione: l’ortoprassi come surrogato dell’ortodossia
Fino a ieri, nella pubblicistica laicista si leggeva un’autocritica che suonava pressappoco così: “Noi laici riusciamo a imporre le nostre posizioni in campo etico, ma non sappiamo giustificarle razionalmente; la Chiesa cattolica invece, sebbene non riesca a imporre le sue posizioni etiche, sa giustificarle in maniera convincente”.
In effetti, il lungo pontificato di Giovanni Paolo II si è impegnato nel giustificare le posizioni ecclesiali in campo etico, soprattutto bioetico; lo testimoniano documenti come Donum vitae, Veritatis splendor edEvangelium vitae, ma anche l’attività degl’istituti pontifici in difesa dei “valori non negoziabili”, almeno quelli morali.
La Santa Sede ha difeso famiglia, vita umana, educazione e giustizia sociale, pur non riuscendo a salvarle dalle offensive laiciste e secolariste, anche a causa di gravi e ripetute omissioni e cedimenti, specialmente nel campo politico.
Fino a ieri, di conseguenza, molti ambienti cattolici potevano mettere in rilievo questo impegno ecclesiale nel campo morale, ad esempio sull’aborto, anche per controbilanciare le (e consolarsi delle) gravi cadute nel campo propriamente religioso, ad esempio in quello “ecumenico”. Secondo loro, la “modernità” non permette più di porre Dio e i suoi diritti a fondamento di tutto; pertanto bisogna ripiegare nel porre l’Uomo e le sue esigenze a fondamento, se non della dottrina, almeno del “discorso” e della prassi. “In fin dei conti – essi dicevano – quello che importa è la pastorale, la difesa pratica della morale; se la gente non comprende più le questioni teologiche, può esservi ricondotta partendo dalle esigenze etiche”; del resto – essi insistevano –primum vivere, deinde philosophari: se si riesce a salvare i valori morali, in futuro si potrà allevare una generazione capace di riscoprire anche i valori propriamente religiosi.
Insomma, questa strategia tendeva a far prevalere la pastorale morale delle esigenze umane sulla dottrina teologica dei diritti divini, affinché la prima sopravvivesse alla crisi della seconda, nella speranza che una ortoprassi sana potesse curare una ortodossia malata, magari surrogandola momentaneamente. Lo confermerebbe il fatto che nella Chiesa stessa abbiamo movimenti che, pur essendo censurabili nel campo dogmatico, sono irreprensibili in quello morale.
“Fino a ieri”, dicevamo; infatti oggi questa speranza si sta rivelando illusoria e fallimentare, né poteva essere diversamente. Cerchiamo di capirne il perché.
Il problema: la coerenza tra fede e vita
E’ evidente che la solidità di un edificio dipende da quella delle sue fondamenta. In una sua famosa parabola, il nostro Salvatore ci ammonisce che una casa, se è fondata sulla roccia, resta salda e duratura, ma se invece è fondata sulla sabbia, rischia di andare in rovina (Mt. 7, 24-27). In tutte le cose umane, comprese quelle religiose, vige il principio per cui la prassi dipende dalla teoria, la morale dal dogma, la pastorale dalla dottrina. Se si pretende di fare il rovescio, è come pretendere di fondare sulla sabbia, anzi sulle sabbie mobili: il suo sprofondamento è certo e rapido.
Quando teoria, dottrina e perfino dogma vengono messi tra parentesi, sminuiti, relativizzati o dimenticati in nome delle “esigenze dei tempi”, allora prassi, pastorale e perfino morale restano infondate, mutano secondo il tempo e lo spazio, diventano deboli, generiche, sentimentali, deboli, poco efficaci. Senza convinta ortodossia, nessuna residua ortoprassi può durare a lungo; al massimo, per un certo tempo, abitudine e convenienza possono surrogare la convinzione dell’ideale, ma non possono sostituirla. Quello tra pensiero e azione, tra fede e vita, è un rapporto che, se è incoerente, può diventare un circolo vizioso che costringe la pastorale debole a cedere alla ideologia forte.
In una sua famosa pagina, Paul Bourget affermò giustamente che, “se non si vive come si pensa, si finisce col pensare come si è vissuto”; ma è vero anche l’inverso: se cioè non si è certi e convinti di quella verità che si continua a vivere per abitudine o convenienza, si finisce col vivere al rovescio di come si è creduto. Per un certo tempo, si può anche “vivere come se Dio esistesse”, “agire come se si credesse”, “non poter non dirsi cristiani”; ma poi, alla lunga, questa lacerante contraddizione tra teoria e prassi non regge e l’unità umana deve ricomporsi in un senso o nell’altro; spesso, ahinoi, lo fa adeguando il meglio al peggio.
Ciò è imposto, se non altro, da una vitale esigenza di unità psicologica: infatti l’uomo ha bisogno della coerenza tra il pensare e il vivere, tra il credere e l’agire, tra la fede e le opere; per quanto possa sembrare strano, perfino lo scettico e contraddittorio uomo contemporaneo ha bisogno di un minimo di convinzione e di coerenza per sopravvivere. Se questo vale per gl’individui, vale molto di più per le società; se è vero che una società rigorosa nel credere ma debole nell’agire diventerà debole anche nel credere, è vero anche l’inverso: una società rigorosa nell’agire ma debole nel credere diventerà dapprima debole anche nell’agire e infine fallimentare in entrambi i campi.
Insomma, come sempre, bonum ex integra causa, malum ex aliquo defectu; la vita cristiana esige la coerenza tra teoria e pratica, non può essere divisa in due parti giustapposte, o addirittura contrapposte, che procedono separatamente. Lo stesso papa Francesco ammonisce a “trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, non idee o valori slegati; dove sta la tua sintesi, là sta il tuo cuore” (Evangelii gaudium, § 143).
La delusione: la vecchia pastorale si adegua alla nuova dottrina
Oggi, nella bufera di un dibattito pre-sinodale che, pur pretendendosi limitato alla pastorale, in realtà coinvolge la dottrina, sta accadendo proprio quello che bisognava temere: ossia il graduale adeguamento dei una vecchia pastorale debole a una nuova ideologia forte, quella del permissivismo mascherato da carità e misericordia. Basta constatare ciò che hanno pubblicamente affermato numerosi e autorevoli ecclesiastici, alcuni dei quali posti alla guida del prossimo Sinodo.
Secondo loro, per meglio realizzare il ben noto “spirito del Concilio”, la Chiesa deve adeguarsi alle “esigenze della modernità” non solo nell’astratto campo delle affermazioni teologiche, ma anche nel concreto campo delle scelte pastorali che riguardano la vita quotidiana. Di conseguenza, la tradizionale pastorale su matrimonio, famiglia, sessualità e procreazione – sebbene recentemente confermata da papi come Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – dev’essere adeguata alle “esigenze dei tempi”, per renderla più accettabile alla mentalità e applicabile ai costumi della società libertaria. Anzi, non si tratta solo di ammettere il mero fatto dell’attuale situazione permissiva, ma anche di accettare il diritto dell’ “uomo moderno” a gestire liberamente e autonomamente la propria vita, anche quella sessuale: free choice!
Come hanno giustamente ammonito alcuni commentatori, si pretende di adeguare la vecchia pastorale a una nuova dottrina, anzi a una nuova “religione della prassi”, che subordina dogmi, leggi, riti e sacramenti alle esigenze della coscienza, dell’affettività e della spontaneità; si pretende quindi d’imporre una pastorale permissiva in nome di nuova ideologia implicita, mirante a realizzare esigenze mondane che possono essere quelle della società o della “persona” o, più recentemente, della “natura” intesa in senso ecologista. In ogni caso, qui il fatto usa la forza dell’inganno, della seduzione e della violenza per imporsi sul diritto; del resto, da quando il Cristianesimo è diventato pacifista, rinunciando a usare la “forza del diritto”, esso ha cominciato a soccombere al “diritto della forza” (o meglio della violenza).
E così la prassi ecclesiale, ben lungi dal preservare implicitamente la dottrina, va anch’essa adeguandosi alle “esigenze dei tempi” in nome d’indiscutibili “esigenze pastorali”, imponendo implicitamente una nuova dottrina che non ha più nulla di evangelico. Il rovesciamento del percorso non potrebbe essere più netto, lo smacco più completo, la delusione più cocente.
La soluzione: ricuperare la sana dottrina per una pastorale vincente
Stando così le cose, bisogna almeno che il fallimento di questa illusione ci sia di lezione per evitare di ricadere in tale grave errore.
Poiché il problema è causato dalla pretesa di separare l’ortodossia dall’ortoprassi, per far prevalere l’una sull’altra, la soluzione può venire solo dal riunirle, ma in modo non egualitario bensì gerarchico: ossia bisogna far sì che l’ortodossia torni a fondare l’ortoprassi e questa a preparare la vittoria di quella, in nome di una precedenza non temporale ma razionale. Se “la fede senza le opere è morta” (Gc. 2,17), le opere senza la fede sono sterili e talvolta controproducenti; viceversa, se la fede ispira le opere e se ne nutre, queste diventano fruttuose e vincenti.
Ciò significa che c’è bisogno non tanto di una ripresa pastorale, quanto di una rievangelizzazione della famiglia basata su una teologia e morale tradizionale che riaffermi i diritti di Dio su quelli dell’Uomo. In questo senso, in un convegno romano organizzato dall’agenzia Bussola Quotidiana lo scorso 30 settembre, il card. Carlo Caffarra ha proposto che il Sinodo produca un sintetico catechismo sulla famiglia; da parte sua il vescovo Athanasius Schneider ha proposto che Francesco I promulghi una sorta di dictatus papae. Se fossero dottrinalmente chiare e disciplinarmente vincolanti, queste iniziative potrebbero diventare un valido strumento di risanamento.
Ma ormai, anche in questo campo, c’è bisogno di ribadire non tanto ciò che è vero, buono e giusto, quanto ciò che è falso, cattivo e ingiusto, condannando solennemente e definitivamente proprio quelle “esigenze dei tempi” promosse da una certa filosofia e teologia morale eretica o eretizzante, diffusa da quelli che padre Cornelio Fabro bollava come “pornoteologi”. Insomma, c’è bisogno di un nuovo Syllabus che, perlomeno, definisca ciò che un cristiano non può affermare, insegnare e tantomeno fare a danno della santità matrimoniale e famigliare. I fedeli hanno il diritto di sapere ciò che è immorale e ingiusto in questo campo, hanno il diritto che sia proibito e punito il dirlo, scriverlo e farlo, se non nella società civile, almeno all’interno della Chiesa.
Nel 1978, a conclusione di un autorevole convegno teologico, padre Luigi Villa pubblicò presso l’editore Solfanelli un volumetto, intitolato Urge nuovo Sillabo, nel quale propose d’individuare, raccogliere e condannare le principali “interpretazioni” del Concilio Vaticano II che, come già allora si diceva, rompono con la Scrittura, la Tradizione e il Magistero. All’inizio, questa proposta fu appoggiata da alcuni noti cardinali, ma poi non ebbe seguito, in omaggio alla pretesa secondo cui “non si può escludere nulla e nessuno” e “tutto si aggiusta col tempo”. Di conseguenza, da allora ad oggi la situazione è molto peggiorata ed è giunta a corrompere anche quella morale e teologia del matrimonio e della famiglia che si proclamava irrinunciabile e irriformabile.
Tuttavia, non tutto è perduto. Il dibattito che si è svolto tra il primo e il secondo Sinodo sta facendo capire ciò che è in gioco, ossia la credibilità della Chiesa che un tempo si definiva “militante”, o meglio della Gerarchia ecclesiastica. Bisogna sperare, pregare e agire affinché lo scontro fra le fazioni sinodali emerso un anno fa – scontro che finalmente è risalito alle divergenze dottrinali che fondano quelle pastorali – non si assopisca in un compromesso che non risolverebbe nulla, ma spinga i prelati rimasti cattolici a combattere per la buona causa e a far valere la sana dottrina; la vera pastorale verrà poi di conseguenza. Oggi bisogna che la Chiesa si pronunci solennemente, sia in positivo, proclamando Sancta Mater Ecclesia tenet ac docet…,sia in negativo, ammonendo Quicumque dixerit…, anatema sit.
Solo così si porranno le premesse per risolvere, assieme alla crisi della famiglia, anche quella della
Chiesa militante, evitando quella sua recente irrilevanza che ne favorisce il crescente isolamento e ne prepara la futura persecuzione.
– di Guido Vignelli
«RIMANETE ASSOLUTAMENTE FERMI SULLA DOTTRINA». LA RACCOMANDAZIONE DI RATZINGER PER IL SINODO
«Halten Sie sich unbedingt an die Lehre!», rimanete assolutamente fermi sulla dottrina. Questa la raccomandazione che il Papa emerito, Benedetto XVI, ha dato privatamente dopo la scorso Sinodo a un prelato tedesco che gli chiedeva come comportarsi di fronte al terremoto in corso. A riportarlo è Edward Pentin, vaticanista per il settimanale statunitense National Catholic Register, forse il migliore cronista finora delle vicende sinodali, a cui ha dedicato anche uno scottante libro, pubblicato dalla principale editrice cattolica negli Usa, la Ignatius Press, dal titolo The Rigging of a Vatican Synod? An Investigation of Alleged Manipulation at the Extraordinary Synod on the Family, ovvero «Un Sinodo Vaticano truccato? Inchiesta sulle presunte manipolazioni al Sinodo straordinario sulla famiglia».
Pre-Sinodo, Costanza Miriano: "Sì al catechismo, il matrimonio cristiano non è quello borghese"
01 ottobre 2015, Marco Guerra
“Usciamo dalla logica degli schieramenti, la Chiesa non metterà in discussione la dottrina”. Parlando con IntelligoNews, la scrittrice e giornalista, Costanza Miriano, mette a fuoco le diverse sensibilità che animeranno il prossimo Sinodo che si aprirà domenica 4 ottobre. Ma proprio perché il “matrimonio cristiano resterà sempre indissolubile” – spiega l’autrice di diversi best-seller – bisogna dire alle coppie che sposarsi non coincide con i bisogni della società contemporanea.
Dopo il viaggio del Papa e con l’approssimarsi del Sinodo dei vescovi e del Giubileo della misericordia c’è molto fermento sia nel clero che tra i fedeli. Come sta arrivando la Chiesa a questi appuntamenti?
“Io voglio resistere alla tentazione di entrare nelle logiche degli schieramenti, che in parte ci sono, lo intuisco anche io che c’è una dialettica che non si può negare. Credo che ci sia stato un allungo in avanti e si è organizzata una risposta, una difesa di alcune posizioni. Ma da fedele, io non voglio entrare in questa logica. Ho molto amici turbati, è inutile negarlo c’è tanta gene turbata nel vedere il momento particolare che vive la Chiesa – anche se poi monsignor Negri nel suo ultimo libro ha mostrato che tutta la storia della Chiesa è fatta di queste tensioni dinamiche e dialettiche, e anche di momenti molto più gravi dove sembrava che la barca sarebbe affondata -; ecco io chiedo a questi miei amici se veramente può metterli in dubbio un’uscita di un cardinale o anche del Papa, il quale tra l’altro viene spesso tirato per la giacchetta dai giornali. Io non penso sinceramente che possa succedere. Se uno vive veramente in buona fede il suo essere cristiano non penso che ci sia qualcosa di non chiaro nella dottrina nella Chiesa, qualcosa che sia stato messo in discussione”.
Quindi non crede che la dialettica dei padri sinodali può aver insinuato qualche perplessità sulle questioni dottrinali…
“Chi vive in condizioni complicate – come dice lo status di Facebook – sa benissimo qual è la verità e se è alla ricerca di misericordia. E non penso proprio che la verità sia stata messa in discussione dai padri sinodali. Nei giorni scorsi mi sono costretta a leggere l’enciclica sull’ambiente, questo per dire che a me sembra evidente che tutto rientra nel tentativo di questo pontificato di uscire, di andare fuori e parlare la lingua degli altri e quindi cercare di raggiungere gli altri su un territorio che possono sentire più familiare. Lui parla della difesa dell’ambiente senza chiamarla “cura del creato” ma “la cura della casa comune” perché una parola che tutti posso accogliere, anche gli atei”.
Quindi c’è chi mette l’accento sulla misericordia, chi su altri temi, ma alla fine si troverà una sintesi per una pastorale comune…
“Non credo che ci saranno veri cambiamenti sulla dottrina, qualcosa che metterà in discussione l’indissolubilità del matrimonio. Anche la questione del Motu proprio non mette in discussione nulla..”
Ma infatti, riguardo all’annullamento del matrimonio, il Papa ha chiesto maggiore celerità delle cause non di concederlo con più facilità. Come al solito c’è stata un strumentalizzazione di certa stampa…
“Tutti dicono gli annullamenti ma sono nullità, ovvero riconoscere qualcosa che non c’è mai stato. E poi ognuno di noi conosce la propria situazione…se c’è stato un sacramento o no. Dovremmo uscire da questa logica, io quando pecco lo so benissimo, ho l’angelo custode che me lo dice, non è che penso che perché il Papa ha detto così allora non pecco più se faccio una determinata cosa. E anche tutte queste parole sui ponti e i muri…se parlassimo meno sarebbe meglio”.
Ad ogni modo c’è stata una piccola resistenza organizzata dinanzi a qualche fuga in avanti di troppo…Insomma si sono voluti riaffermare alcuni principi della dottrina?
“Beh si, considerato che era stato posto l’accento più su alcuni temi che su altri. La Chiesa ha sempre cercato di tenere insieme tutto e quindi c’è stata una sottolineatura da parte di una certa Chiesa, che corrisponde appunto al cardinal Kasper e alle Chiese tedesca e austriaca. A quel punto le Chiese africana e americana hanno fatto sentire la loro voce. Ma credo che questo lo volesse il Papa…insomma che uscisse fuori tutto questo”.
Certo alla vigilia del Sinodo dello scorso ottobre il pontefice esortò tutti a parlare liberamente. Quindi poi le posizioni si sono ricomposte?
“No, non è che le posizioni si sono ricomposte, non credo che Kasper abbia cambiato idea. Questo lo vedremo al Sinodo”.
Quindi si riproporranno alcuni schieramenti in cui era divisa la platea dei padri sinodali?
“Credo di si, ma dare sfogo a questa dialettica potrebbe essere una mossa diciamo molto ‘gesuitica’ per far venire fuori le istanze più progressiste, in modo poi da ribadire invece i principi fermi, dicendo “vi abbiamo ascoltato a tutti ma questo non si può fare”. È un stile gesuita. Che questa sia la pastorale migliore non lo so ma per fortuna lo spirito santo fa quello che fa quando sceglie i Papi, ed è Francesco che guida la Chiesa, quindi ci dovremmo preoccupare di meno”.
Ieri al convegno internazionale “Permanere nella verità di Cristo”, a cui hanno presenziato anche i cardinali Caffarra e Burke, è stata espressa la necessità che venga promosso un catechismo del matrimonio. Si trova d'accordo?
“Assolutamente, al cento per cento, perché il grande equivoco della cultura contemporanea è stato sovrapporre il matrimonio borghese al quello cristiano. Un tempo il matrimonio borghese era accettabile perché corrispondeva alla nostra cultura per dei motivi semplicemente tecnici; non c’era contraccezione, non c’era l’accesso al controllo delle nascite, quindi la relazione sessuale doveva essere all’interno del matrimonio. La liberta affettiva, sentimentale e sessuale di oggi non è più congrua all’idea del matrimonio cristiano indissolubile e quindi dobbiamo ribadire in ogni sede quello che Gesù ha detto ai discepoli, ovvero se le cose stanno così non conviene che vi sposiate! Cioè il matrimonio cristiano è un’altra cosa, non è il coronamento di un trasporto, di uno slancio di un sentimento. Il matrimonio cristiano rispetto alla società di oggi non è naturale, sposarsi oggi non è naturale, e quindi tu sai che stai entrando in un cammino di conversione e anche di gioie e di croci che è vivere secondo il battesimo. Non è nemmeno un vocazione monastica o al sacerdozio…è tutta un’altra cosa”.
Insomma la chiesa ha il dovere di indicare anche gli aspetti più impegnativi del matrimonio cristiano…
“Nel modo di produrre e di consumare siamo portati e immersi in una cultura del soddisfacimento dei bisogni immediati e delle emozioni. È tutta la nostra cultura contemporanea che fonda su questo, anche il modo di studiare a scuola: ora si punta ad interessare i bambini. Quindi oggi il matrimonio non ha senso se tu non ti riconduci continuamente alla radice del motivo per cui lo fai. Quindi sono d’accordo col fatto della necessità del catechismo. Deve esserci proprio un catecumenato come per i sacerdoti”.
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