ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 27 ottobre 2015

Sisinonododo

Il Sinodo fallito: tutti sconfitti, a cominciare dalla morale cattolica



(Roberto de Mattei) All’indomani del XIV Sinodo sulla famiglia, tutti sembrano aver vinto. Ha vinto Papa Francesco, perché è riuscito a trovare un testo di compromesso tra le opposte posizioni; hanno vinto i progressisti perché il testo approvato ammette alla Eucarestia i divorziati risposati; hanno vinto i conservatori, perché il documento non contiene un riferimento esplicito alla comunione ai divorziati e rifiuta il “matrimonio omosessuale” e la teoria del gender.
Per capire meglio come sono andate in realtà le cose, bisogna partire dalla sera del 22 ottobre, quando è stata consegnata ai Padri sinodali la relazione finale elaborata da una commissione ad hoc sulla base degli emendamenti (modi) alla Instrumentum laboris, proposti dai gruppi di lavoro divisi per lingua (circuli minores).

Con grande sorpresa dei Padri sinodali il testo loro consegnato giovedì sera era solo in lingua italiana, con assoluto divieto di comunicarlo non solo alla stampa, ma anche ai 51 uditori e agli altri partecipanti all’assemblea. Il testo non teneva alcun conto dei 1355 emendamenti proposti nel corso delle tre settimane precedenti e riproponeva sostanzialmente l’impianto dell’Instrumentum laboris, compresi i paragrafi che avevano suscitato in aula le più forti critiche: quelli sull’omosessualità e sui divorziati risposati. La discussione era fissata per la mattina seguente, con la possibilità di preparare nuovi emendamenti solo in nottata, su di un testo presentato in una lingua padroneggiata solo da una parte dei Padri.
Ma la mattina del 23 ottobre, papa Francesco, che ha sempre seguito con attenzione i lavori, si è trovato di fronte a un inatteso rifiuto del documento redatto dalla commissione. Ben 51 Padri sinodali intervenivano nel dibattito, la maggior parte dei quali contrari al testo avallato dal Santo Padre. Tra questi i cardinali Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi; Joseph Edward Kurtz, Presidente della Conferenza Episcopale americana; Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale italiana; Jorge Liberato Urosa Savino, Arcivescovo di Caracas; Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna; e i vescovi Zbigņevs Gadecki, Presidente della Conferenza Episcopale polacca; Henryk Hoser, Arcivescovo-Vescovo di Warszawa-Praga; Ignace Stankevics, Arcivescovo di Riga; Tadeusz Kondrusiewicz, Arcivescovo di Minsk-Mohilev; Stanisław Bessi Dogbo, Vescovo di Katiola (Costa d’Avorio); Hlib Borys Sviatoslav Lonchyna, Vescovo di Holy Family of London degli Ucraini Bizantini, e tanti altri, tutti esprimendo, con toni diversi, il loro disaccordo dal testo.
Il documento non poteva essere certo ripresentato il giorno successivo in aula, con il rischio di venire messo in minoranza e di produrre una forte spaccatura. La soluzione di compromesso veniva trovata seguendo la via tracciata dai teologi del “Gemanicus”, il circolo che includeva il cardinale Kasper, icona del progressismo, e il cardinale Müller, prefetto della Congregazione della Fede. La commissione tra venerdì pomeriggio e sabato mattina rielaborava un nuovo testo, che veniva letto in aula la mattina di sabato 24 e poi votato, nel pomeriggio, ottenendo per ognuno dei 94 paragrafi la maggioranza qualificata dei due terzi, che sui 265 padri sinodali presenti era pari a 177 voti
Nel briefing di sabato il cardinale Schönborn ne aveva anticipato la conclusione per quanto riguarda il punto più discusso, quello sui divorziati risposati: «Se ne parla, se ne parla con grande attenzione, ma la parola chiave è “discernimento”, e vi invito tutti a pensare che non c’è un bianco o nero, un semplice sì o no, è da discernere, e questa è proprio la parola di san Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio: l’obbligo di esercitare un discernimento perché le situazioni sono diverse e l’esigenza di questo discernimento il Papa Francesco, buon gesuita, l’ha imparata da giovane: il discernimento è cercare di capire quale è la situazione di tale coppia o tale persona».
Discernimento e integrazione è il titolo dei numeri 84, 85 e 86. Il paragrafo più controverso, il n. 85, che fonda l’apertura verso i divorziati risposati e la possibilità per loro di accostarsi ai sacramenti – pur senza menzionare esplicitamente la comunione – è stato approvato con 178 voti a favore, 80 contrari e 7 astenuti. Un solo voto in più rispetto al quorum dei due terzi.
L’immagine di papa Francesco non esce rafforzata, ma appannata e indebolita al termine dell’assemblea dei vescovi. Il documento che egli aveva avallato è stato infatti apertamente respinto dalla maggioranza dei Padri sinodali, il 23 mattina, che è stata la sua “giornata nera”. Il discorso conclusivo di papa Bergoglio non ha espresso alcun entusiasmo per la Relatio finale, ma una reiterata riprovazione contro i Padri sinodali che avevano difeso le posizioni tradizionali. Perciò, ha detto tra l’altro il Papa la sera di sabato, «concludere questo Sinodo significa anche aver spogliato i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite. (…) Significa aver cercato di aprire gli orizzonti per superare ogni ermeneutica cospirativa o chiusura di prospettive, per difendere e per diffondere la libertà dei figli di Dio, per trasmettere la bellezza della Novità cristiana, qualche volta coperta dalla ruggine di un linguaggio arcaico o semplicemente non comprensibile». Parole dure, che esprimono amarezza e insoddisfazione: non certo quelle di un vincitore.
Sono stati sconfitti anche i progressisti, perché non solo ogni riferimento positivo all’omosessualità è stato rimosso, ma anche l’apertura ai divorziati risposati è molto meno esplicita di quanto essi avessero voluto. Ma i conservatori non possono cantare vittoria. Se 80 Padri sinodali, un terzo dell’assemblea, hanno votato contro il paragrafo 86, vuol dire che esso era insoddisfacente. Il fatto che per un voto questo paragrafo sia passato non cancella il veleno che esso contiene.
Secondo la Relatio finale, la partecipazione alla vita ecclesiale dei divorziati risposati può esprimersi in “diversi servizi”: occorre perciò «discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa» (n. 84); «il percorso di accompagnamento e discernimento orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (n. 86).
Ma che cosa significa essere “membra vive” della Chiesa, se non trovarsi in stato di grazia e ricevere la Santa Comunione? E la “più piena partecipazione alla vita della Chiesa” non include, per un laico, la partecipazione al sacramento dell’Eucarestia? Si dice che le forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale, possono essere superate, “caso per caso”, seguendo una “via discretionis”. Può essere superata l’esclusione dalla comunione sacramentale? Il testo non lo afferma, ma non lo esclude. La porta non è spalancata, ma socchiusa, e dunque non si può negare che essa sia aperta.
La Relatio non afferma il diritto dei divorziati risposati a ricevere la comunione (e dunque il diritto all’adulterio), ma nega di fatto alla Chiesa il diritto di definire pubblicamente adulterio la condizione dei divorziati risposati, lasciando la responsabilità della valutazione alla coscienza dei pastori e degli stessi divorziati risposati. Per riprendere il linguaggio della Dignitatis Humanae, non si tratta di un diritto “affermativo” all’adulterio, ma di un diritto “negativo” di non essere impediti ad esercitarlo, ovvero di un diritto alla “immunità da ogni coercizione in materia morale”. Come nella Dignitatis Humanae viene cancellata la distinzione fondamentale tra il “foro interno”, che riguarda la salvezza eterna dei singoli fedeli, e il “foro esterno” relativo al bene pubblico della comunità dei fedeli. La comunione infatti non è un atto solo individuale, ma un atto pubblico compiuto di fronte alla comunità dei fedeli. La Chiesa, senza entrare nel foro interno, ha sempre proibito la comunione dei divorziati risposati perché si tratta di peccato pubblico, commesso in  foro esterno. La legge morale viene assorbita dalla coscienza che diviene un nuovo luogo, non solo teologico e morale, ma canonico. La Relatio finalis si integra bene, sotto questo aspetto, con i due motu proprio di Papa Francesco, di cui lo storico della scuola di Bologna ha sottolineato il significato sul Corriere della Sera del 23 ottobre: “Restituendo ai vescovi il giudizio sulla nullità Bergoglio non ha cambiato lo status dei divorziati, ma ha fatto un silenzioso, enorme atto di riforma del papato”.
L’attribuzione al vescovo diocesano della facoltà, come giudice unico, di istruire discrezionalmente un processo breve e arrivare alla sentenza è analoga alla attribuzione al vescovo del discernimento sulla condizione morale dei divorziati risposati. Se il vescovo locale riterrà che il percorso di crescita spirituale e di approfondimento di una persona che vive in una nuova unione è compiuto, questa potrà ricevere la comunione. Il discorso di papa Francesco del 17 ottobre al Sinodo indica nella “decentralizzazione” la proiezione ecclesiologica della morale “caso per caso”. Il Papa ha affermato che “al di là delle questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo, per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”.
La morale dell’inculturazione, che è quella del “caso per caso” relativizza e dissolve la legge morale che, per definizione è assoluta e universale. Non vi è né buona intenzione, né circostanza attenuante che possono trasformare un atto buono in cattivo o viceversa. La morale cattolica non ammette eccezioni: o è assoluta e universale, oppure non è una legge morale.  Non hanno torto, dunque, quei giornali che hanno presentato la Relatio finale con questo titolo: “Cade il divieto assoluto di comunione ai divorziati risposati”.
La conclusione è che ci troviamo di fronte ad un documento ambiguo e contraddittorio che permette a tutti di cantare vittoria; anche se nessuno ha vinto. Tutti sono stati sconfitti, a cominciare dalla morale cattolica che esce profondamente umiliata dal Sinodo sulla famiglia conclusosi il 24 ottobre.(Roberto de Mattei)
http://www.corrispondenzaromana.it/il-sinodo-fallito-tutti-sconfitti-a-cominciare-dalla-morale-cattolica/


Card. Burke: La relazione finale manca di chiarezza sull’indissolubilità del matrimonio


card. burkeIl cardinale Raymond Leo Burke, patrono dei Cavalieri di Malta, ed ex Prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica, consegna al National Catholic Register alcuni sue considerazioni sulla relazione finale del Sinodo. Per i lettori dell’Osservatorio Sinodo 2015 della Nuova Bussola quotidiana proponiamo di seguito una nostra traduzione dell’intervento del cardinale. (riportiamo anche il testo integrale dei paragrafi n°84, 85 e 86 della Relatio finale)
L’intero documento richiede uno studio attento, per capire esattamente quale suggerimento si stia offrendo al Santo Padre, in accordo con la natura del Sinodo, “nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi, nell’osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica” (can. 342). La sezione intitolata “Discernimento e integrazione” (paragrafi 84-86), è comunque di immediata preoccupazione, a motivo della mancanza di chiarezza in una importante questione di fede: l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, che la fede e la ragione insegnano a tutti gli uomini.
Prima di tutto, il termine “integrazione”, è un termine mondano, teologicamente ambiguo. Non vedo come possa essere “la chiave dell’accompagnamento pastorale di coloro che vivono in unioni matrimoniali irregolari”. La chiave interpretativa della loro cura pastorale dev’essere la comunione fondata sulla verità del matrimonio in Cristo, che dev’essere onorato e messo in pratica, anche se uno dei due coniugi è stato abbandonato attraverso il peccato dell’altro. La grazia del Sacramento del Matrimonio rafforza il coniuge abbandonato per vivere fedelmente il vincolo matrimoniale, continuando a cercare la salvezza del coniuge che ha abbandonato l’unione matrimoniale. Ho conosciuto dalla mia infanzia e continuo ad incontrare fedeli cattolici il cui matrimonio è stato in qualche modo interrotto, ma che, credendo nella grazia del Sacramento, continuano a vivere nella fedeltà al loro matrimonio. Essi guardano alla Chiesa per un accompagnamento che li aiuti a restare fedeli alla verità della Chiesa nella loro vita.
In secondo luogo, la citazione dal n. 84 di Familiaris Consortio è fuorviante. All’epoca del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia del 1980, come nel corso della storia della Chiesa, ci sono sempre state pressioni per accettare il divorzio, a causa delle situazioni dolorose di coloro che vivono in situazioni irregolari, cioè di coloro la cui vita non è in accordo con la verità di Cristo sul matrimonio, verità che egli ha proclamato nei Vangeli (Mt 19, 3-12; Mc 10, 2-12). Mentre nel n. 84 il Papa San Giovanni Paolo II riconosce le differente situazioni di coloro che vivono in unioni irregolari e spinge i pastori e l’intera comunità ad aiutarli come veri fratelli e sorelle in Cristo in virtù del Battesimo, così conclude: “la Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati”. Quindi spiega la ragione di questa prassi: “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”. Il Papa fa notare correttamente che una prassi differente indurrebbe i fedeli “in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio”.
In terzo luogo, la citazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1735) sull’imputabilità dev’essere interpretato nel senso della libertà che “rende l’uomo responsabile dei suoi atti, nella misura in cui sono volontari” (CCC, n. 1734). L’esclusione dai Sacramenti di coloro che vivono in situazioni irregolari non costituisce un giudizio circa la loro responsabilità per la rottura del vincolo matrimoniale, al quale sono legati. E’ piuttosto il riconoscimento oggettivo di questo legame. La Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 24 giugno 2000, che pure viene citato, è in totale accordo con l’insegnamento e la prassi costanti della Chiesa a riguardo, citando il n. 84 di Familiaris Consortio. Questa Dichiarazione chiarifica la finalità del colloquio con un sacerdote in foro interno, che è, secondo le parole del Papa San Giovanni Paolo II, “una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio” (Familiaris Consortio, n. 84). La disciplina della Chiesa provvede ad una continua assistenza pastorale per coloro che vivono in unioni irregolari e che “per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione” così che possano vivere in piena continenza, nella fedeltà alla verità di Cristo (Familiaris Consortio, n. 84).
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Discernimento e integrazione
84. I battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Quest’integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti. Per la comunità cristiana, prendersi cura di queste persone non è un indebolimento della propria fede e della testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale: anzi, la Chiesa esprime proprio in questa cura la sua carità.
85. San Giovanni Paolo II ha offerto un criterio complessivo, che rimane la base per la valutazione di queste situazioni: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido» (FC, 84). È quindi compito dei presbiteri accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno.
Inoltre, non si può negare che in alcune circostanze «l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate» (CCC, 1735) a causa di diversi condizionamenti. Di conseguenza, il giudizio su una situazione oggettiva non deve portare ad un giudizio sulla «imputabilità soggettiva» (Pontificio Consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000, 2a). In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. Perciò, pur sostenendo una norma generale, è necessario riconoscere che la responsabilità rispetto a determinate azioni o decisioni non è la medesima in tutti i casi. Il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi.
86. Il percorso di accompagnamento e discernimento orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. FC, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa.

Pubblicato il
  in sinodo2015.
Il Foglio
L'unica certezza riguardo l' accostamento dei divorziati risposati alla comunione, magna quaestio del Sinodo chiuso solennemente domenica in San Pietro, è che alla fine deciderà il Papa, come era chiaro fin dall' inizio del percorso biennale sinodale e come diversi padri avevano anticipato la scorsa settimana dinanzi all'impasse dovuta all'accalorato confronto su sacramenti e famiglia andato in scena nell'Aula nuova. A due giorni dalla pubblicazione del documento finale, ancora si dibatte su quale sia la linea emersa. 

Cardinali di solido orientamento conservatore giurano d'aver approvato senza battere ciglio il trittico di paragrafi centrati sul discernimento, cuore della proposta concepita da Christoph Schönborn. Se letti bene e senza "precomprensioni o passioni", dicono dal fronte opposto a quello novatore, quelle frasi non fanno altro che riproporre (approfondendolo) l'insegnamento precedente, che è quello messo nero su bianco da Giovanni Paolo II con la Familiaris consortio del 1981. Il punto, semmai, è farlo capire ai sacerdoti, s'aggiunge, che in molti casi già confessano, assolvono e consentono ai divorziati risposati di accostarsi al sacramento. Anche tra i padri d'orientamento più aperturista non tutti la vedono allo stesso modo: Walter Kasper sostiene che ora si potrà concedere la comunione ai divorziati risposati, mentre il cardinale arcivescovo di Washington, Donald Wuerl (primo referente negli Stati Uniti di Francesco e favorevole a un aggiornamento della pastorale, scontrandosi sui giornali con il connazionale Charles Chaput), ha tagliato corto sottolineando che "non c'è alcuna nuova raccomandazione" sul tema dell'eucarestia. Poi c'è mons. Bruno Forte che dice che la comunione si potrà dare "in alcuni casi, ma soltanto in alcuni casi" e il cardinale Vincent Nichols che spiega che "nessuno intraprenderà il percorso (penitenziale, ndr) con l'obiettivo unico di fare la comunione ma, allo stesso tempo, nessuno sarà accompagnato lungo questa strada secondo il principio che non potranno farlo". E' questo il punto centrale, che ha diviso anche i media. Se per la stampa italiana il Sinodo ha aperto porte e portoni a tutti in base al principio che la chiesa non può condannare nessuno e che la misericordia vince sempre, basta andare fuori dai confini per leggere che quello approvato è un "testo che rende possibile ogni interpretazione" (New York Times), che "il Papa ha fallito nel conquistare il sostegno dei vescovi circa l'approccio a divorziati e omosessuali" (Wall Street Journal). Padre Thomas Reese, l'ex direttore di "America", la rivista liberal dei gesuiti d'oltroceano, ha scritto che la parola "comunione non è stata menzionata nel testo perché questa era l' unica strada per far sì che i paragrafi potessero ottenere la maggioranza dei due terzi. Come al Vaticano II, il Sinodo ha ottenuto il consenso attraverso l'ambiguità e questo significa che i padri hanno lasciato il Papa libero di fare ciò che egli riterrà essere la cosa migliore". Ecco perché il Figaro scrive che il vero vincitore della partita è Francesco, che ora - per dirla con il Preposito gesuita padre Adolfo Nicolás - "ha le mani libere" per andare anche oltre la prudente relazione finale che l'assemblea ha approvato. Un testo che rimane lontano dall'originaria "proposta Kasper" sostenuta dalla conferenza episcopale tedesca, che fino all'ultima settimana di lavoro in Aula ha spinto per una apertura più netta e generalizzata riguardo le persone che si trovano in una situazione "irregolare", capendo però che mai avrebbe potuto ottenere su quelle basi i due terzi di "placet" richiesti. Da qui il compromesso studiato da Schonborn, che lo stesso cardinale George Pell, l'ideatore della celebre lettera di protesta inviata al Pontefice il primo giorno del Sinodo, ha definito accettabile.

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/10/vaticano-relatio-ambigua-e-come-al.html
Synod members disagree on report's opening to Communion for remarried 
 CNS 

(Robert Duncan and Cindy Wooden) Australian Cardinal George Pell said the final report of the Synod of Bishops on the family did not create an opening for the divorced and civilly remarried to receive Communion. Other synod members took a different view and acknowledged that the paragraph in question was being read differently. (...)


Il Sinodo spiegato ai miei figli


di Maria Elisabetta Gandolfi
In questi ultimi giorni i miei figli mi hanno vista più spesso al PC per seguire gli streaming delle conferenze stampa che fisicamente "presente" o più spesso sentita su whatsapp mentre ero in treno o a Roma. Di tanto in tanto provavo a fare qualche resoconto e domenica scorsa uno di loro mi ha chiesto a bruciapelo: perché questo Sinodo era tanto importante? Tre settimane per dire che cosa?
Raccolgo la sfida, tentando di non "cadere nella facile ripetizione di ciò che è indiscutibile o già detto", o di usare "un linguaggio arcaico o semplicemente non comprensibile" (dal discorso conclusivo di papa Francesco da cui traggo i virgolettati). In 9 punti.


1) La Chiesa di papa Francesco ama gli uomini e le donne d'oggi, con i loro pregi (la loro ricerca di libertà e credibilità) e con i loro difetti (l'individualismo e la mancanza di progettualità in cui spesso si arenano le relazioni tra le persone); e così anche le famiglie. Nella Chiesa ci sono però anche i nostalgici, coloro cioè che volgono lo sguardo al passato, immaginandolo come un paradiso perduto e pensando di spingere le lancette dell'orologio indietro a suon di battaglie e di slogan.

2) Il Sinodo non si è scandalizzato sul fatto che c'era disaccordo ma ha lavorato intensamente per arrivare a una convergenza, un'arte che occorre saper esercitare con pazienza (e saggezza): il che significa da un lato che è meglio un buon accordo generale che una sconfitta su alcuni aspetti specifici; e dall'altro che occorre tempo. Ma oggi siamo tutti un po' insofferenti.

3) Costruire il consenso significa far incontrare le persone prima delle loro idee e far sì che ciascuno ci metta la faccia: a questo hanno mirato i lavori di gruppo durati tre lunghe settimane. L'ascolto delle ragioni dell'altro - se in buona fede - fa compiere sempre un passo avanti da cui non si arretra. Le lettere (legittime) girate dentro il Sinodo e sulla stampa un po' meno. I tentativi "cospirativi" per nulla. Questo significa vivere la sinodalità cui pensava Paolo VI dopo il concilio Vaticano II.

4) Perciò è apprezzabile il lavoro del Sinodo anche laddove non ha detto una sorta di sì alla eucaristia per tutti come se fosse un diritto da rivendicare a suon di maggioranze (che forse qualche padre sinodale pensava di poter governare) ma ha messo in chiaro che "il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne e anatemi, ma di proclamare la misericordiadi Dio". Il papa durante l'anno della misericordia chiarirà meglio come; ma già sin d'ora ha ribadito in lungo e in largo che non si può "giudicare con superiorità e superficialità i casi difficili e le famiglie ferite".

5) Mi sarei aspettata una parola di più sull'omosessualità, ma il coming outdi mons. Charamsa ha chiuso la discussione. Avrei visto bene il tema inserito in quello ben più ampio della sessualità che in teoria non fa problema ma nei fatti crea ancora molti imbarazzi nella vita e nel sentire della Chiesa (il mondo, intanto, è altrove). Il tema - filosofico - della differenza necessita d'essere meglio compreso.

6) Il Sinodo non ha detto molto sul tema del "gender" (se non limitandosi a un condivisibile rifiuto di tutto ciò che è ideologico) ma è scivolato su una questione di "genere", quando ha deciso di non dare il voto alle tre 3 superiore religiose, elette al pari dei colleghi uomini. Una decisione clericale che ci si poteva risparmiare.

7) E' stata ribadita l'importanza delle Chiese locali. Esse sono governate non solo dal principio per il quale dove una cosa può essere decisa dal livello inferiore, il maggiore cede il passo; ma anche dall'altro per il quale esse sono Chiesa al pari di quella "di Roma". Al Sinodo si è visto che "quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo, per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato". Il Vangelo cioè non si applica con formulette astratte, ma trasformando "pacificamente e gradualmente le varie culture".

8) I laici - cioè tutti i battezzati - vengono ancora una volta incoraggiati a portare la propria testimonianza. E' vero che nella Chiesa non hanno una loro "rappresentanza" (le associazioni e i movimenti sono una forma ma non completa) e il Sinodo è fatto "di vescovi" (cosa che si potrebbe anche discutere). Ma il lievito messo nella pasta non aspetta il comando del cuoco per agire.

9) Ultimo. Il consenso si costruisce anche sui testi. Con l'interpretazione e la rivisitazione di idee espresse tramite parole. E' faticoso leggere, confrontare, cercare le fonti e le fonti delle fonti. Nell'ubriacatura delle tante parole spese attorno al Sinodo occorre fare lo sforzo di leggere, leggere e ancora leggere. Tra l'altro il documento finale di questa assemblea è uno tra i meglio riusciti di questo genere di assemblea.

http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/il-sinodo-spiegato-ai-miei-figli.html

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