Un borghese grande grande
Il disastro dei partiti, il (già poco) comune senso del pudore, il Concilio e i suoi imminenti disastri. Ecco l’inedito Guareschi polemista. In attesa che lo pubblichino.
di Alessandro Gnocchi
A ridosso delle elezioni del 1963, in una lettera al figlio, Giovannino Guareschi diceva “Coi disegni del ‘Borghese’ hanno fatto volantini e manifesti. Mi fa piacere. Significa che non sono proprio finito”. Se c’è uno stato d’animo al fondo della raccolta degli articoli scritti per il “Borghese” di Mario Tedeschi tra il 1963 e il 1968 preparata dai figli Alberto e Carlotta, lo si percepisce in quella stupita constatazione di non essere “proprio finito”. Lo si respira, quasi lo si tocca nelle pagine, di cui alcune inedite, in attesa di essere pubblicate da Rizzoli ormai da tempo. Carlotta, che è morta il 25 ottobre, conosceva bene il Guareschi che ci sta dentro, sofferente e irrequieto per il degradare dei tempi, e ne aveva una tenerezza immagonita. Ma quel Guareschi è ancora troppo inedito e si stenta a riconoscergli il valore di intelligenze critica che le pagine del “Borghese” esibiscono invece in tutta la sua profondità. Se si vuole trovare un paragone che ne regga il calibro, non si deve evocare Pier Paolo Pasolini, come si è fatto, ma Leonardo Sciascia. Pasolini era una sorta di Guareschi al contrario, girato a testa in giù, mentre Sciascia ne era il riscontro speculare, dalla fustigazione dei costumi fino alle considerazioni sulla religione.
Il paragone con Pasolini è stato indotto dal fatto che Guareschi firmò con lui “La rabbia”, un film diviso in due tempi in cui ciascuno degli autori rispondeva alla domanda “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura?”. Allora, molti lettori guareschiani si mostrarono stupiti e lo scrittore emiliano ne spiegò le ragioni sul settimanale di Tedeschi il 21 febbraio 1963. Nell’articolo “P.P.P. Eccetera” diceva al lettore perplesso: “dovrei ringraziare P.P.P. d’avermi concesso la possibilità di fare un po’ di polemica anticonformista attraverso lo schermo. Questa mia affermazione ti stupirà perché tu ragioni secondo una logica che non funziona più. Per te, infatti, le cose dovrebbero andare così: P.P.P. mette sul piatto sinistro della bilancia il suo primo tempo facendola pendere pericolosamente a sinistra. Poi arrivo io, metto il mio secondo tempo sul piatto di destra e ristabilisco l’equilibrio. Ecco l’errore, amico: non sono io a ristabilire l’equilibrio, è P.P.P. L’equilibratore è P.P.P., mentre io non sono che lo squilibrato squilibratore. Quale produttore, quale finanziatore privato, quale banca, oggi, s’impegnerebbe in un film non-conformista? E quale commissione di censura permetterebbe la proiezione di un film non-conformista?”.
In effetti lo squilibrio di Guareschi era così scandalosamente lungimirante che fu più comodo per tutti ignorarlo. In politica, previde la trasformazione del Partito Comunista in un movimento radicale di massa e smascherò il disegno secolarizzante della Democrazia Cristiana. Per quanto riguarda il costume, alla sua morte, nel 1968, aveva già detto tutto sulla contestazione che stava per nascere. E lo stesso fece circa la crisi della Chiesa.
Nel 1966, intervenne sul caso della “Zanzara”, il giornale studentesco del liceo “Parini” di Milano che aveva pubblicato un’inchiesta sulla sessualità suscitando uno scandalo tale arrivare fino in tribunale. Dopo l’assoluzione degli autori, il 21 aprile, nell’articolo “La Disfida di Milano”, lo scrittore commentava: “bisogna pur parlare del grande sconfitto della Disfida di Milano: il Pudore. Non temo di essere accusato di conformismo dicendo che il Pudore è la più grande conquista dell’umanità. Il Pudore, infatti, è quella particolare faccenda che soprattutto distingue gli uomini dalle bestie. (…) Il Pudore è nato come l’unica, valida difesa della personalità e della dignità umana. Grazie al Pudore, l’amore ha cessato di essere un semplice rapporto animale ed è diventato qualcosa di estremamente importante: la molla della vita e del progresso. L’Arte, la Poesia, la Letteratura sono nate e hanno prosperato perché esisteva il Pudore”.
E poi arrivava al cuore del problema indicando nella cosiddetta liberazione sessuale la via maestra verso la decostruzione dell’uomo: “Questa gioventù spudorata ha vinto la Disfida di Milano. Cosa tremendamente grave, perché quando un individuo, con l’autorizzazione della Legge, rinuncia alla propria intimità, al segreto dei suoi pensieri, alla sua dignità e si denuda in pubblico spiritualmente (denudarsi materialmente è ancora minor cosa) costui rinuncia praticamente alla propria personalità”. Non si trattava del verboso ma innocuo argomentare del bigotto, era il grido di chi aveva capito dove avrebbe sarebbe giunta la deriva intrapresa: “Le ragazzine del Parini sanno benissimo come nascono i figli. Vogliono istruzioni sul come fare l’amore senza avere figli”.
Quel Pudore scritto con la “P” maiuscola, ormai, poteva godere solo della cura di vecchi arnesi poco graditi alle voglie matte dei tempi in corso. Arnesi così vecchi da comprendere che l’assalto arrembante della rivoluzione aveva un sostrato religioso e si alimentava della desistenza di una Chiesa teneramente innamorata del mondo.
L’11 marzo 1965, nove mesi prima della chiusura del Concilio Vaticano II, lo scrittore indirizzò un’eloquente “Lettera a don Camillo”. Il parroco di Mondo piccolo, causa intemperanze anticonciliari, era stato relegato in un paesino di montagna e lui gli dava dell’imprudente: “Lei aveva pur visto alla Tv (…) com’era apparecchiata la Sacra Mensa attorno alla quale il Papa e i nuovi Cardinali hanno concelebrato il Banchetto Eucaristico. Non s’era accorto che il Crocifisso situato al centro della Tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni? Non aveva visto, insomma, come tutto, nella Casa di Dio, deve essere umile e povero in modo da far risaltare al massimo il carattere comunitario dell’Assemblea Liturgica di cui il Sacerdote è soltanto un concelebrante con funzione di presidente? (…). È la Chiesa che, fino a ieri semplicemente Cattolica e Apostolica, diventa (ricordi sempre Lercaro) Chiesa di Dio”.
In quegli anni, la questione cattolica rappresentò il cuore dell’intera riflessione di Guareschi, che la sondò attraverso gli animati dialoghi dei componenti della famiglia Bianchi. Il signor Cesare, “fervente cattolico lercaromontinolapiroroncalliano” tutto “Stampa” e “Corriere”. La moglie Maria, un po’ “moroide” nel senso di seguace di Aldo Moro, un po’ liberale e per il rimanente dotata di buon senso. La figlia Giusy, “ultrasedicenne pariniana”. Il figlio Gypo, di sana e robusta costituzione spirituale e politica.
La puntata del 4 marzo 1965 si intitolava “La Messa clandestina” e serbava un battibecco tra il reazionario Gypo e il progressivo signor Bianchi: “E tanto perché tu lo sappia, papà domenica io non ci vengo alla Mandata’
“Quale Mandata?”
“La Messa in italiano.
“Fino a quando sarò il capo di questa fino ad oggi onorata famiglia, cose del genere non accadranno mai. Tu domenica verrai a Messa con noi!”
“No, pater! Non voglio correre il pericolo di trovare sul pulpito un funzionario della Federazione Socialista. Io andrò a Messa sì, ma dove mi pare e piace. Io sono uno dei fondatori dell’ACP”.
“ACP? Che significa?”
“Associazione Cattolici Pacelliani. (…) abbiamo trovato in un paesino un prete di quelli non riformati, che celebra la Messa in Latino. Insegna che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio e, quindi, ci sono dei buoni non solo nel proletariato, ma anche fra i borghesi. E spiega che non basta essere brutti, stupidi e poveri per avere diritto al Regno dei Cieli, ma occorre essere anche buoni e onesti. E’ un vecchio parroco che crede ancora in Dio, nei Santi, nel Paradiso e nell’Inferno (…). Uno può accendere un cero alla Madonna o a qualche Santo: lui non dice come quel famoso parroco sociale che hanno fatto cardinale adesso, che i vassoi coi lumini accesi sono uno spettacolo da rosticceria”.
Lo spettro delle due chiese era così evidente a quel cattolico fuori moda che lo mise nero su bianco il 19 maggio 1966 in un’altra “Lettera a don Camillo”. “Lei” diceva al vecchio sacerdote “ha il sacro terrore d’una divisione fra i cattolici. Ma, purtroppo, questa divisione esiste già. So che Lei inorridirà, ma lo dico ugualmente. Pensi, reverendo, quale cosa meravigliosa sarebbe stata e quale nuova forza ne avrebbe ritratto la Chiesa se, alla morte del Parroco del Mondo (che per la sua bontà e ingenuità tanti vantaggi ha dato ai senza Dio) il Conclave avesse avuto il coraggio di eleggere, come nuovo Papa il Cardinale Mindszenty! (…) Don Camillo, non m’importa se Lei urlerà inorridito, ma io debbo dirLe che, non solo per me, ma per molti altri cattolici ‘sovversivi’, il Papa al quale guardiamo come al luminoso faro della Cristianità non si chiama Paolo ma Giuseppe. Josef Mindszenty, il Papa dei cattolici che provano disgusto davanti alle macchinette distributrici di Ostie, alla ‘Tavola calda’ che ha distrutto gli altari e cacciato via il Cristo, alle Messe yé-yé e ai patteggiamenti con gli scomunicati senza-Dio”.
La nuova Chiesa piaceva poco a Guareschi perché la vedeva operare la triste pedagogia del cristianesimo senza Croce. Pochi mesi prima, l’11 gennaio 1966, aveva confidato la sua pena al direttore del “Borghese” nell’articolo “Fiera protesta”: “E in campo religioso? Caro Direttore, tu lo saprai: in molte chiese il Cristo crocifisso è stato tolto dall’altar maggiore e appeso dalla parte opposta, accosto alla porta. La ragione ‘ufficiale’ è che, essendo stata istituita al posto dell’altar maggiore la famosa ‘tavola calda modello Lercaro’, l’ex parroco, oggi Presidente dell’Assemblea, celebrando la ex Messa dovrebbe voltare le spalle al Cristo. La ragione vera è che il Cristo risulta sistemato in modo che i ‘fedeli’ gli voltino le spalle e possa rapidamente e senza scandali essere cacciato fuori dalla chiesa”.
Ci era arrivato prima di tutti, aveva scoperto il disegno sotteso alle novità dei lavori in corso e lo aveva definito, con inesorabile tratto geniale, come il “passaggio dalla ex religione cattolica al nuovo ateismo cattolico”.
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fonte: Il Foglio – 5 novembre 2015
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A ridosso delle elezioni del 1963, in una lettera al figlio, Giovannino Guareschi diceva “Coi disegni del ‘Borghese’ hanno fatto volantini e manifesti. Mi fa piacere. Significa che non sono proprio finito”. Se c’è uno stato d’animo al fondo della raccolta degli articoli scritti per il “Borghese” di Mario Tedeschi tra il 1963 e il 1968 preparata dai figli Alberto e Carlotta, lo si percepisce in quella stupita constatazione di non essere “proprio finito”. Lo si respira, quasi lo si tocca nelle pagine, di cui alcune inedite, in attesa di essere pubblicate da Rizzoli ormai da tempo. Carlotta, che è morta il 25 ottobre, conosceva bene il Guareschi che ci sta dentro, sofferente e irrequieto per il degradare dei tempi, e ne aveva una tenerezza immagonita. Ma quel Guareschi è ancora troppo inedito e si stenta a riconoscergli il valore di intelligenze critica che le pagine del “Borghese” esibiscono invece in tutta la sua profondità. Se si vuole trovare un paragone che ne regga il calibro, non si deve evocare Pier Paolo Pasolini, come si è fatto, ma Leonardo Sciascia. Pasolini era una sorta di Guareschi al contrario, girato a testa in giù, mentre Sciascia ne era il riscontro speculare, dalla fustigazione dei costumi fino alle considerazioni sulla religione.
Il paragone con Pasolini è stato indotto dal fatto che Guareschi firmò con lui “La rabbia”, un film diviso in due tempi in cui ciascuno degli autori rispondeva alla domanda “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura?”. Allora, molti lettori guareschiani si mostrarono stupiti e lo scrittore emiliano ne spiegò le ragioni sul settimanale di Tedeschi il 21 febbraio 1963. Nell’articolo “P.P.P. Eccetera” diceva al lettore perplesso: “dovrei ringraziare P.P.P. d’avermi concesso la possibilità di fare un po’ di polemica anticonformista attraverso lo schermo. Questa mia affermazione ti stupirà perché tu ragioni secondo una logica che non funziona più. Per te, infatti, le cose dovrebbero andare così: P.P.P. mette sul piatto sinistro della bilancia il suo primo tempo facendola pendere pericolosamente a sinistra. Poi arrivo io, metto il mio secondo tempo sul piatto di destra e ristabilisco l’equilibrio. Ecco l’errore, amico: non sono io a ristabilire l’equilibrio, è P.P.P. L’equilibratore è P.P.P., mentre io non sono che lo squilibrato squilibratore. Quale produttore, quale finanziatore privato, quale banca, oggi, s’impegnerebbe in un film non-conformista? E quale commissione di censura permetterebbe la proiezione di un film non-conformista?”.
In effetti lo squilibrio di Guareschi era così scandalosamente lungimirante che fu più comodo per tutti ignorarlo. In politica, previde la trasformazione del Partito Comunista in un movimento radicale di massa e smascherò il disegno secolarizzante della Democrazia Cristiana. Per quanto riguarda il costume, alla sua morte, nel 1968, aveva già detto tutto sulla contestazione che stava per nascere. E lo stesso fece circa la crisi della Chiesa.
Nel 1966, intervenne sul caso della “Zanzara”, il giornale studentesco del liceo “Parini” di Milano che aveva pubblicato un’inchiesta sulla sessualità suscitando uno scandalo tale arrivare fino in tribunale. Dopo l’assoluzione degli autori, il 21 aprile, nell’articolo “La Disfida di Milano”, lo scrittore commentava: “bisogna pur parlare del grande sconfitto della Disfida di Milano: il Pudore. Non temo di essere accusato di conformismo dicendo che il Pudore è la più grande conquista dell’umanità. Il Pudore, infatti, è quella particolare faccenda che soprattutto distingue gli uomini dalle bestie. (…) Il Pudore è nato come l’unica, valida difesa della personalità e della dignità umana. Grazie al Pudore, l’amore ha cessato di essere un semplice rapporto animale ed è diventato qualcosa di estremamente importante: la molla della vita e del progresso. L’Arte, la Poesia, la Letteratura sono nate e hanno prosperato perché esisteva il Pudore”.
E poi arrivava al cuore del problema indicando nella cosiddetta liberazione sessuale la via maestra verso la decostruzione dell’uomo: “Questa gioventù spudorata ha vinto la Disfida di Milano. Cosa tremendamente grave, perché quando un individuo, con l’autorizzazione della Legge, rinuncia alla propria intimità, al segreto dei suoi pensieri, alla sua dignità e si denuda in pubblico spiritualmente (denudarsi materialmente è ancora minor cosa) costui rinuncia praticamente alla propria personalità”. Non si trattava del verboso ma innocuo argomentare del bigotto, era il grido di chi aveva capito dove avrebbe sarebbe giunta la deriva intrapresa: “Le ragazzine del Parini sanno benissimo come nascono i figli. Vogliono istruzioni sul come fare l’amore senza avere figli”.
Quel Pudore scritto con la “P” maiuscola, ormai, poteva godere solo della cura di vecchi arnesi poco graditi alle voglie matte dei tempi in corso. Arnesi così vecchi da comprendere che l’assalto arrembante della rivoluzione aveva un sostrato religioso e si alimentava della desistenza di una Chiesa teneramente innamorata del mondo.
L’11 marzo 1965, nove mesi prima della chiusura del Concilio Vaticano II, lo scrittore indirizzò un’eloquente “Lettera a don Camillo”. Il parroco di Mondo piccolo, causa intemperanze anticonciliari, era stato relegato in un paesino di montagna e lui gli dava dell’imprudente: “Lei aveva pur visto alla Tv (…) com’era apparecchiata la Sacra Mensa attorno alla quale il Papa e i nuovi Cardinali hanno concelebrato il Banchetto Eucaristico. Non s’era accorto che il Crocifisso situato al centro della Tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni? Non aveva visto, insomma, come tutto, nella Casa di Dio, deve essere umile e povero in modo da far risaltare al massimo il carattere comunitario dell’Assemblea Liturgica di cui il Sacerdote è soltanto un concelebrante con funzione di presidente? (…). È la Chiesa che, fino a ieri semplicemente Cattolica e Apostolica, diventa (ricordi sempre Lercaro) Chiesa di Dio”.
In quegli anni, la questione cattolica rappresentò il cuore dell’intera riflessione di Guareschi, che la sondò attraverso gli animati dialoghi dei componenti della famiglia Bianchi. Il signor Cesare, “fervente cattolico lercaromontinolapiroroncalliano” tutto “Stampa” e “Corriere”. La moglie Maria, un po’ “moroide” nel senso di seguace di Aldo Moro, un po’ liberale e per il rimanente dotata di buon senso. La figlia Giusy, “ultrasedicenne pariniana”. Il figlio Gypo, di sana e robusta costituzione spirituale e politica.
La puntata del 4 marzo 1965 si intitolava “La Messa clandestina” e serbava un battibecco tra il reazionario Gypo e il progressivo signor Bianchi: “E tanto perché tu lo sappia, papà domenica io non ci vengo alla Mandata’
“Quale Mandata?”
“La Messa in italiano.
“Fino a quando sarò il capo di questa fino ad oggi onorata famiglia, cose del genere non accadranno mai. Tu domenica verrai a Messa con noi!”
“No, pater! Non voglio correre il pericolo di trovare sul pulpito un funzionario della Federazione Socialista. Io andrò a Messa sì, ma dove mi pare e piace. Io sono uno dei fondatori dell’ACP”.
“ACP? Che significa?”
“Associazione Cattolici Pacelliani. (…) abbiamo trovato in un paesino un prete di quelli non riformati, che celebra la Messa in Latino. Insegna che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio e, quindi, ci sono dei buoni non solo nel proletariato, ma anche fra i borghesi. E spiega che non basta essere brutti, stupidi e poveri per avere diritto al Regno dei Cieli, ma occorre essere anche buoni e onesti. E’ un vecchio parroco che crede ancora in Dio, nei Santi, nel Paradiso e nell’Inferno (…). Uno può accendere un cero alla Madonna o a qualche Santo: lui non dice come quel famoso parroco sociale che hanno fatto cardinale adesso, che i vassoi coi lumini accesi sono uno spettacolo da rosticceria”.
Lo spettro delle due chiese era così evidente a quel cattolico fuori moda che lo mise nero su bianco il 19 maggio 1966 in un’altra “Lettera a don Camillo”. “Lei” diceva al vecchio sacerdote “ha il sacro terrore d’una divisione fra i cattolici. Ma, purtroppo, questa divisione esiste già. So che Lei inorridirà, ma lo dico ugualmente. Pensi, reverendo, quale cosa meravigliosa sarebbe stata e quale nuova forza ne avrebbe ritratto la Chiesa se, alla morte del Parroco del Mondo (che per la sua bontà e ingenuità tanti vantaggi ha dato ai senza Dio) il Conclave avesse avuto il coraggio di eleggere, come nuovo Papa il Cardinale Mindszenty! (…) Don Camillo, non m’importa se Lei urlerà inorridito, ma io debbo dirLe che, non solo per me, ma per molti altri cattolici ‘sovversivi’, il Papa al quale guardiamo come al luminoso faro della Cristianità non si chiama Paolo ma Giuseppe. Josef Mindszenty, il Papa dei cattolici che provano disgusto davanti alle macchinette distributrici di Ostie, alla ‘Tavola calda’ che ha distrutto gli altari e cacciato via il Cristo, alle Messe yé-yé e ai patteggiamenti con gli scomunicati senza-Dio”.
La nuova Chiesa piaceva poco a Guareschi perché la vedeva operare la triste pedagogia del cristianesimo senza Croce. Pochi mesi prima, l’11 gennaio 1966, aveva confidato la sua pena al direttore del “Borghese” nell’articolo “Fiera protesta”: “E in campo religioso? Caro Direttore, tu lo saprai: in molte chiese il Cristo crocifisso è stato tolto dall’altar maggiore e appeso dalla parte opposta, accosto alla porta. La ragione ‘ufficiale’ è che, essendo stata istituita al posto dell’altar maggiore la famosa ‘tavola calda modello Lercaro’, l’ex parroco, oggi Presidente dell’Assemblea, celebrando la ex Messa dovrebbe voltare le spalle al Cristo. La ragione vera è che il Cristo risulta sistemato in modo che i ‘fedeli’ gli voltino le spalle e possa rapidamente e senza scandali essere cacciato fuori dalla chiesa”.
Ci era arrivato prima di tutti, aveva scoperto il disegno sotteso alle novità dei lavori in corso e lo aveva definito, con inesorabile tratto geniale, come il “passaggio dalla ex religione cattolica al nuovo ateismo cattolico”.
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fonte: Il Foglio – 5 novembre 2015
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Ho sempre amato Guareschi, e , matricola di materie letterarie alla Cattolica nei primi anni 80, mi sarebbe piaciuto fare la tesi su di lui, poi ho passato il concorso per maestra e amen.
RispondiEliminaAdoravo quel suo scrivere originale: semplice, diretto, con termini così ben scelti, che, non so come dire, chiarivano il concetto “ingigantendolo”con similitudini geniali: ero affascinata dal suo saper scrivere con poche , semplici ( e spassose) parole concetti profondissimi .
Oggi leggere lui, Tolkien, Chesterton e anche Lewis, che pure era anglicano, mi fa lo stesso effetto: li sento come delle profezie che affiorano da testi letterari: scritti più di 50 anni fa ci dicevano come ci saremmo scoperti oggi.