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lunedì 23 novembre 2015

'Siamo diventati come gli agnelli'

La bomba durante la messa, la fede che resiste. Cronaca da Aleppo

Parla Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo: "Non vinceranno"

La cattedrale di S.Francesco, ad Aleppo, è stata colpita da una bombola di gas durante la messa del 25 ottobre
“Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura” (P. Ibrahim Alsabagh, Aleppo)

E’ stato un miracolo, c’è poco altro da dire. La bombola di gas che colpisce la cupola della chiesa, la danneggia, ma non esplode. Rotola e cade sul tetto dell’edificio, fatto di semplici tegole d’argilla sostenute da grandi colonne di legno e cemento. Solo a quel punto, quando non era più in grado di causare una strage, è esplosa fragorosamente. Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della cattedrale latina d’Aleppo, non ha altre spiegazioni per quel che è accaduto il 25 ottobre, quando una bombola di gas – partita da una base di lancio per missili – ha colpito la cupola della chiesa di San Francesco, mentre i fedeli erano riuniti per la messa vespertina domenicale. Erano più di quattrocento persone, quel pomeriggio, sotto la cupola, racconta al Foglio: “I jihadisti hanno scelto con crudeltà il luogo e il tempo precisi per colpire, in modo da provocare il maggior danno possibile in persone e strutture specificamente cristiane”.

 Basta guardare la chiesa per capire subito che l’obiettivo non era stato scelto a caso: “Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto”. Anche la tempistica era quella giusta, scelta con cura, dice: “La messa vespertina della domenica, che è la messa principale della parrocchia, quella più affollata. E l’esplosione è avvenuta proprio nell’ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45”. Ripercorre, padre Ibrahim, quei momenti: “Avevo il Santissimo in mano e stavo distribuendo la comunione. L’avevo già fatto per cinque o sei fedeli, quando ho avvertito un rumore lontano, non di grande intensità, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto della chiesa. Non sono passati dieci secondi che tutto l’edificio ha cominciato a tremare senza sosta sotto i miei piedi. Sassi e pezzi di vetro cadevano su di noi, io non vedevo quasi più nulla a causa della polvere. Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, sentivo urla di dolore, la gente si disperdeva e si nascondeva ai lati e negli angoli della chiesa. La terra continuava a tremare una pioggia di sassi e calcinacci ci investiva”. La gente gridava, “io ho fatto alcuni passi verso l’altare per appoggiarvi il Santissimo che tenevo fra le mani”, ma subito “sono tornato sui miei passi per prestare soccorso a chi ne aveva bisogno. Il mio proposito era di farlo il più in fretta possibile, perché sapevo che i jihadisti erano soliti lanciare un secondo missile immediatamente dopo il primo, sullo stesso luogo. Grazie a Dio, questo non è accaduto. Non ci sono stati morti. Alla conta iniziale c’erano sette o otto feriti in modo leggero, ma il loro numero è poi salito a più di venti”. La memoria, poi, va ineluttabilmente sull’immagine che più d’ogni parola fotografa la portata della tragedia: “In sagrestia mi sono accorto che le sacre ostie nella pisside erano macchiate del sangue dei fedeli. Le ostie sacre mescolate con il sangue del suo popolo è un segno della presenza di Dio e di unione con noi. Dio è presente fortemente, soffre con noi, si unisce sempre di più a ognuno di noi nella nostra sofferenza”. Al guardare queste ostie tinte di rosso, aggiunge, “pareva che esse brillassero di una luce increata, apportatrice di consolazione e di pace al povero cuore sofferente del parroco”.

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Nel dramma, anziché evitare di frequentare la chiesa, luogo sensibile per eccellenza, bersaglio ideale per le orde nere califfali e per la moltitudine di gruppi che a quelle ideologie si rifanno, il popolo fedele trova proprio in quell’ambiente il punto di riferimento in cui sentirsi meno solo: “Uomini e soprattutto giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi chiedendo come potessero dare una mano. Li ho invitati ad aiutare nella rimozione dei detriti presenti in abbondanza nella chiesa e a spazzare il pavimento, preparando così la chiesa al meglio per la celebrazione dell’indomani mattina”, dice padre Ibrahim. E infatti, il giorno dopo alle 7.30 “ho potuto far suonare le campane grandi, che da tempo non si suonavano per la mancanza di elettricità. Chiamavo così la gente a partecipare alla santa messa celebrata proprio lì, nella chiesa bombardata. La giornata è proseguita con l’arrivo di più di trenta donne, pronte a ripulire con tanta cura il luogo sacro. Hanno lavorato per tutta la giornata. Lo spavento per l’evento traumatico era già stato assorbito in modo positivo: la capacità di reazione dei miei fedeli è stata molto positiva”. Forse, non si può far altro che guardare al domani, considerata la situazione. Non si può che vivere proiettati costantemente sul giorno dopo, sperando che esso sia migliore di quello passato. “Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di altri ordigni sulla nostra chiesa è tutt’altro che scampato. Ma tutto questo non ci deve spaventare. Ai cristiani della mia parrocchia, in ogni occasione, continuo a ripetere che non bisogna avere paura di venire in chiesa per la santa messa”. Si ripete come un mantra, dai pulpiti dei luoghi sacri feriti e minacciati, una sorta di beatitudine che riassume al contempo la drammaticità offerta dall’attualità e il senso più profondo della fede cristiana: “Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura”. La mente del frate francescano torna al 25 ottobre, “il giorno della bomba”.

Ricorda che poco prima dell’attacco “avevamo fatto catechismo a 166 bambini. La domenica seguente ci chiedevamo con la catechista se i bambini avrebbero avuto ancora il coraggio di presentarsi. Sono venuti, erano 160. E dopo ciò che è accaduto, il numero delle persone che assiste alla messa quotidiana aumenta di giorno in giorno”. E’ calmo, padre Ibrahim, mentre descrive una situazione che a un uomo di questa parte del mondo potrebbe sembrare da girone dantesco, senza speranza. “Alcuni dei miei parrocchiani mi hanno chiesto come avessi fatto a reagire così bene, con la calma e il sorriso, senza mai perdere la pace del cuore e la prudenza. Ho risposto che sentivo esserci in me una forza più grande della mia sola forza umana. Era la forza del Signore che mi guidava in quel momento di difficoltà e il suo consiglio mi muoveva. Non potevo essere io con il mio intelletto a guidare gli avvenimenti e le decisioni, come quella di invitare le persone spaventate in giardino, di continuare la distribuzione della santa comunione, ringraziando con le preghiere il Signore e sua madre, Maria. Sì – dice senza tradire incertezze nella voce – assolutamente non ero io, ma era il Signore che prendeva il controllo della situazione, parlando e agendo tramite me. Non sono forse la fortezza, il consiglio e l’intelletto tre dei sette doni dello Spirito santo?”. La convinzione, profondamente radicata nella fede, è che alla fine i jihadisti non vinceranno, portae inferi non praevalebunt. Dopotutto, l’ha assicurato Cristo, e tanto basta. E’ questa speranza a fortificare l’animo di chi, minoranza perseguitata, combatte la buona battaglia ogni giorno. “Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano dell’odio mentre noi diamo loro in cambio la carità, manifestata nel perdono e nella preghiera per la loro conversione”, dice padre Ibrahim. Non è filosofeggiare fine a se stesso o predicare tanto per farlo: si tratta di mettere in pratica questo impegno, come accaduto durante la messa dei bambini del 1° novembre, tra le navate della chiesa sfregiata e violata: “Un frammento della bombola di gas è stato ricoperto di fiori e portato come offerta all’altare. Così, il simbolo di odio e di morte è stato ‘battezzato’ ed è diventato simbolo dell’amore che perdona e dà vita”.
Vita che ad Aleppo, un tempo crocevia di carovane e ricchi mercanti, non è mai stata così dura come oggi. Per una decina di giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre, l’unica strada che collegava la città al resto della Siria è rimasta chiusa, “poiché i miliziani dello Stato islamico l’avevano interdetta all’esercito regolare”. Al mercato non si trovava più nulla: “Non c’era gasolio, carburante, gas”, dice il nostro interlocutore. “Non c’erano alimentari: neanche un uovo. Si poteva trovare solo un po’ di verdura, tanto che la gente, lamentandosi con amarezza – ma con un grande sense of humour, diceva ‘siamo diventati come degli agnelli, mangiamo solo erbe’. Perfino lo zucchero costa molto, troppo. Si fa fatica a trovarne un chilo e – ammesso che si riesca a scovarlo da qualche parte – come si potrebbe pagarlo? Non c’era neanche un pomodoro, in quei giorni, al mercato”. La gente era convinta, o almeno sperava, che la strada sarebbe stata aperta per far transitare gli alimenti. Ci hanno detto per giorni che sarebbe stato così, ma alla fine non ci credevamo più. Noi alle promesse non crediamo più, perché vogliamo vedere accadere qualcosa, vogliamo vedere i fatti”. L’impegno dei frati francescani è costante, sul terreno, anche a proprio rischio: “Continuiamo a distribuire acqua con quattro camioncini e arriviamo a coprire cinquanta case al giorno. Le richieste, però, sono più di seicento. La gente ha paura ed è arrivata al limite della sopportazione”.

Aleppo è circondata, i miliziani bombardano incessantemente i quartieri cittadini “perché si sentono minacciati dall’avanzata da sud dell’esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi”. Manca acqua ed elettricità, non c’è neppure lo yogurt, notava padre Ibrahim sorridendo. Quel che non manca, però, è la fede, la certezza che alla fine tutto passerà. Un messaggio spedito dal vicino oriente ai cristiani d’occidente che “hanno bisogno di svegliarsi”. Il parroco della chiesa di San Francesco sceglie l’immagine del “gigante addormentato” per rappresentare i credenti europei: “Hanno energie incredibili, ma sono legati, bloccati. Non sto parlando del benessere che può essere dato dall’acqua calda o della possibilità di godersi una cena al ristorante. La prosperità di cui parlo, da rifuggire, è uno stato del cuore che, a causa delle ricchezze e delle false sicurezze, si consegna alla freddezza, dimentica del suo bisogno di Dio. E’ un male che riguarda purtroppo anche il clero. La crisi profonda che noi stiamo vivendo qui ci aiuta a guarire da questa malattia; ci aiuta a crescere nella fede”.

Che fare, dunque? “L’occidente dovrebbe tornare all’essenziale. Vivere, cioè, la prosperità in una prospettiva di fede. Questo è ciò che serve”. In concreto, si tratta di “vivere responsabilmente e seriamente ciò che crediamo. Nella nostra situazione di sofferenza continua, la gente diventa più sincera e sa andare all’essenziale. Io questo lo constato sempre, lo vedo: la gente è meno appesantita dalle preoccupazioni di questo mondo”. E’, sostiene padre Ibrahim, “purificata”. “E quindi disposta a lasciarsi guidare dallo Spirito”.
di Matteo Matzuzzi | 23 Novembre 2015 

http://www.ilfoglio.it/esteri/2015/11/23/non-vinceranno-cristiani-isis-chiesa-aleppo-siria___1-v-135279-rubriche_c488.htm

“Prego che Dio perdoni chi ci ha fatto del male”. La fede di Myriam, bimba irachena in fuga dall’Isis

Costretta a lasciare con la famiglia la sua città per sfuggire ai miliziani jihadisti, ora è Erbil, in Kurdistan
di Piero Vietti | 23 Novembre 2015 

Myriam vive ora con la sua famiglia in un container a Erbil, nel Kurdistan iracheno
Roma. “Cosa senti nei confronti di quelli che ti hanno obbligata a lasciare le tua casa?”. “Non voglio far loro niente, chiedo solo a Dio di perdonarli”. “E anche tu puoi perdonarli?”. “Sì”. “Ma è difficile perdonare chi ci ha fatto soffrire”. “Io non voglio ucciderli, perché dovrei? Certe volte piango perché abbiamo lasciato la nostra casa, ma non sono arrabbiata con Dio, lo ringrazio perché si occupa di noi”. Myriam ha dieci anni quando dice queste cose, circa un anno fa, a un giornalista dell’emittente cristiana di lingua araba SAT-7. Mesi prima aveva lasciato con la famiglia la sua città d’origine, Qaraqosh, in Iraq, per sfuggire ai miliziani dello Stato islamico. Adesso è a Erbil, nel Kurdistan iracheno, ospite assieme a migliaia di altre persone in un centro profughi dove la vita è difficile e spesso mancano acqua ed elettricità. Quell’intervista di Myriam ha cominciato a circolare su internet nei primi mesi di quest’anno, e quella piccola bambina irachena è presto diventata il simbolo di una fede che tanti in occidente sembrano avere smarrito. “Dio si preoccupa per noi”, diceva Myriam al suo intervistatore, “perché non ha permesso che l’Isis ci uccidesse”. Myriam ha perso tutti gli amici – dispersi, forse uccisi – sa che per tanto tempo, forse per sempre, non potrà più tornare a giocare a casa sua, ma sorprende per il suo giudizio così adulto: “Certo che Dio ama anche quelli che ci hanno fatto del male – dice – però non ama Satana”. Myriam aveva un’amica prima di finire al centro profughi di Erbil, si chiama Sandra: “Ci volevamo bene, se una faceva un torto all’altra ci perdonavamo. Spero di rivederla. Spero di tornare a casa e che anche lei torni a casa, così potremo rivederci”. “Spero che tornerai in una casa più bella di quella che avevi prima”, le dice il giornalista. “Non quello che vogliamo noi, ma quello che vuole Dio”, risponde Myriam sorridendo, spiazzante. Lontana da casa, la famiglia di Myriam vive in un container nel centro commerciale Ainkawadi di Erbil: mamma, papà, lei e una sorella. “Siamo felici qui dove siamo perché ovunque andiamo Dio è con noi”, ha detto Myriam parlando a luglio di quest’anno via Skype a un gruppo di ragazzi siciliani grazie all’aiuto dei cooperanti di Avsi. Spera di diventare medico e andare in giro per il mondo ad aiutare gli altri, aggiungeva.

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Scacciati di casa dalla violenza jihadista, i genitori di Myriam sorridono: “Posso essere triste, ricco, povero, questo non cambierà mai la fede che ho in Dio”, diceva il papà della bambina irachena. Nel corso dell’ultimo anno, ha detto la madre, da quando cioè sono nel campo profughi, “tutte le difficoltà ci hanno avvicinato a Gesù, da lui traiamo la nostra forza. Gesù ci dà speranza, perché ci ha insegnato ad amare il prossimo, a dargli fiducia”. A chi si domanda se ci sarà un futuro per i cristiani in quelle zone bisognerebbe far sentire quello che dicono i genitori di Myriam: “Il futuro è nelle mani di Dio, non c’è uomo al mondo che possa deciderlo. Non è la mia volontà, ma la Sua. Dio non ci farà mai del male”. “Io ho fede e so che Lui ha un piano. Magari non per noi in particolare, ma per i cristiani in Iraq. Dio ci aiuterà, anche se adesso stiamo soffrendo. Siamo pazienti, siamo fiduciosi, il futuro sarà buono per noi”.
http://www.ilfoglio.it/esteri/2015/11/23/prego-che-dio-perdoni-chi-ci-ha-fatto-del-male-la-fede-di-myriam-bimba-irachena-in-fuga-dallisis___1-v-135293-rubriche_c182.htm

Come uscire vivi dall'albergo di Bamako e dalla crisi dell'Europa

di Camillo Langone | 20 Novembre 2015 

Le forze di polizia intervengono a Bamako, in Mali, dopo l'attacco terroristico di venerdì (foto LaPresse)
Per uscire vivi dagli alberghi di Bamako basta conoscere a memoria qualche versetto del Corano. Per uscire in piedi dalla crisi d’Europa basterebbe conoscere a memoria qualche versetto del Vangelo. Cosa a livello generale impensabile, grazie anche a diocesi talmente agnostiche da organizzare preghiere interreligiose e a scuole talmente inutili da non saper far rispettare un minuto di silenzio per le vittime di una strage. Resta praticabile il livello particolare, l’ambito domestico o di gruppo. Non la chiamerei opzione Benedetto (il chiudersi nelle case e nelle chiese considerando perduto il mondo) bensì opzione versetto. Ho usato il singolare apposta, sarei consolato se le persone imparassero a memoria anche soltanto Giovanni 8,7: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Non servono molte altre parole per avvicinarsi all’obiettivo minimo di un ambiente di vita non ostile.

2 commenti:

  1. Una bombola di gas partita da una base ?

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    1. Forse non era una bombola, ma un missile (artigianale?) o una bombola catapultata?
      Sta di fatto che il botto c'é stato e non credo se lo siano inventato..forse han fatto un pò di confusione con le parole..

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