ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 7 dicembre 2015

Una Chiesa "accidentata"

FRANCESCO I Discorso nella Cattedrale di Firenze
10 Novembre 2015






Il 10 novembre 2015 Francesco I ha pronunciato un’omelia in cui ha espresso una sua concezione della Chiesa in contraddizione con quella che si trova nella divina Rivelazione (Tradizione e S. Scrittura), nel Magistero e nella dottrina comune dei teologi.
Esporrò i due punti più teologicamente dirompenti dell’omelia bergogliana e li confronterò con l’insegnamento della S. Scrittura, dei Padri, del Magistero e dei teologi scolastici.

La Chiesa preferita da Francesco I

“Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e provvedimenti” (Evangelium gaudium, 49).
Disamina dei termini

1°) “Chiesa accidentata”: “accidentato” nel dizionario della lingua italiana significa “colpito da paralisi” se riferito ad una persona, mentre significa “ineguale, ricco di asperità, scosceso” se riferito ad una cosa. Non è chiaro che cosa abbia voluto dire realmente Bergoglio, ma il concetto, anche se confuso, mal si accorda con la natura della Chiesa che è la società soprannaturale perfetta fondata da Gesù e fornita di tutti i mezzi per condurre le anime in Cielo. Quindi essa è divina quanto all’origine, ai mezzi (i sacramenti) e al fine, ed umana quanto alle membra che la compongono: fedeli e Pastori. Ora solo i membri o gli uomini di Chiesa possono esser “paralizzati”, impediti, vulnerati, ricchi di asperità e ineguali, ma la Chiesa no, perché è divina per la divina Rivelazione e per la dottrina cattolica; non così per il modernismo secondo cui la Chiesa (come la divinità di Cristo) è un’invenzione umana dei primi cristiani, che può e deve cambiare continuamente (cfr. Decreto Lamentabili, EnciclicaPascendi, 1907; Motu proprio Sacrorum Antistitum, 1910).

2°) “Chiesa ferita”: idem. La Chiesa in sé è pura, “senza né macchia né ruga” (1), non può esser ferita; gli uomini son feriti dal peccato originale, la Chiesa no.

3°) “Chiesa sporca”: peggio ancora. Inoltre sporco è un termine equivoco potendo significare fisicamente sporco o moralmente sporco, cioè peccatore, ma la Chiesa è “santa” come recita il Credo e, per il principio per sé noto di non contraddizione, se è santa non può essere peccatrice.

4°) “Chiesa malata perché aggrappata alle sue sicurezze”: secondo il modernismo la certezza naturale e soprannaturale non è raggiungibile né dalla ragione né dai dogmi. Infatti la filosofia modernista è il kantismo agnostico, che nega la capacità della ragion pura o speculativa di conoscere con certezza le essenze della realtà naturale.
Teologicamente il modernismo è fautore della evoluzione eterogenea dei dogmi, che sarebbero espressioni umane totalmente incapaci di cogliere la Divinità, la quale è un prodotto naturale del bisogno dell’uomo, del sentimento religioso e della subcoscienza creatrice. Quindi la certezza per i modernisti sarebbe una patologia e non qualcosa di positivo. Da qui allo scetticismo e al relativismo radicale il passaggio è obbligatorio e breve.

5°) “Chiesa preoccupata di essere il centro”: la Chiesa è la continuazione di Cristo nella storia. Ora Cristo è “Rex et centrum omnium cordium” (Litanie del S. Cuore di Gesù) e “Cristo è il capo del corpo, cioè della Chiesa” (Col., I, 18). “Chi non ha la Chiesa per madre non ha Dio per Padre” (Leone XIII, Satis cognitum). Cristo è il fine di ogni creatura e così lo è la Chiesa dopo la Sua Ascensione in cielo. Infatti “fuori della Chiesa non c’è salvezza” (IV Concilio Lateranense, DS 802) e perciò essa deve essere il nostro centro, il nostro fine intermedio per andare in Cielo, nostro fine ultimo.

6°) “Chiesa rinchiusa in un groviglio di ossessioni e provvedimenti”: le Leggi della Chiesa, i Comandamenti di Dio da essa insegnatici, sono per Francesco I ossessioni che vanno smantellate. Ecco perché si possono dare i sacramenti anche ai peccatori ostinati che non vogliono convertirsi.

Il vero concetto di Chiesa secondo la Fede cattolica

“Cristo è il capo del corpo, cioè della Chiesa” (Col., I, 18). “Cristo decise di edificare la  Chiesa per rendere duratura l’opera salvifica della Redenzione, nella quale, come nella casa di  Dio, fossero contenuti tutti i fedeli” (Concilio Vaticano I, DS 3050). Gesù conferì ai 12 Apostoli, cioè alla Chiesa, il potere di “legare e sciogliere” (Mt., XVIII, 17), di celebrare l’Eucarestia (Lc., XXII, 19), di perdonare i peccati (Gv., XX, 23), di battezzare (Mt., XXVIII, 19). La Chiesa è la sposa di Cristo (Ef., V, 25), che Egli ha acquistato col proprio sangue (At., XX, 28). Gesù paragonò la Chiesa ad una casa costruita sulla roccia, che conferisce ad Essa la stabilità e l’unità (Mt., XII, 25). “Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per essa per purificarla e santificarla […] in tal modo Egli volle prepararsi una Chiesa risplendente di gloria, senza macchie né rughe” (Ef., V, 26).
Tutti questi versetti sono contraddetti dalla a-teologia modernistica bergogliana, ma essi son di fede e San Paolo ci ha rivelato: “anche se noi stessi o un angelo del cielo vi insegnasse un Vangelo diverso da quello che vi annunziammo sia anatema” (Gal., I, 8).

Il fine della Chiesa secondo la Fede cattolica

È di fede rivelata e definita che il fine della Chiesa è la continuazione della Redenzione di Cristo sino alla fine del mondo (Conc. Vat. I, DS 3050) e Leone XIII spiega che, mentre Cristo ci ha redenti con la sua morte in Croce, la Chiesa ha il compito di applicare i meriti della Redenzione di Cristo sino alla fine del mondo (Enciclica Satis cognitum, 1896).
È per questo fine che Gesù ha detto agli Apostoli: “Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt., XXVIII, 18-20); “Chi ascolta voi ascolta Me, chi rigetta voi rigetta Me” (Lc., X, 16); quindi “Una sola è la Chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno può salvarsi” (IV Concilio Lateranense, DS 802). È per questo che la fiaccola, cioè la Chiesa, non può essere nascosta sotto il moggio, come vorrebbe Francesco I, ma deve essere messa sopra il candelabro per illuminare tutti (Mt., V, 15).

La retta ragione e le certezze contro i dubbi di Bergoglio

Aristotele, circa 300 anni prima di Cristo, scriveva a proposito di coloro che (come Bergoglio) negano l’evidenza: “Eraclito [Bergoglio] dice di negare il principio di non contraddizione, ma allora perché va a Megara e non se ne sta tranquillo a casa pensando di camminare? E perché non si getta nel pozzo, ma si guarda bene dal farlo proprio come se pensasse che cadere non è lo stesso che non cadere?” (Metafisica, IV, 4, 1008 b). Onde “lo scettico coerente dovrebbe chiudersi nel mutismo assoluto, perché parlare vuol dire avere ed esprimere certezze. Quindi Cratilo finì col tacere e muoveva solamente il dito” (Aristotele,Metafisica, IV, 5, 1010 a).
In breve  anche ai tempi di Bergoglio vale sempre ciò che scriveva Aristotele riguardo ai sofisti del suo tempo: “non si crede a tutto ciò che si dice” (Metafisica, IV, 3, 1005b). Infatti lo scettico Pirrone [Bergoglio] “per coerenza si sforzava di non badare ai precipizi, ma, assalito da un cane, si impaurì, ben distinguendo un cane da un agnello” (Diogene Laerzio,Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, IX, 2). Aristotele concludeva: “È ridicolo andare in cerca di ragioni contro chi, rifiutando il valore della ragione, non vuol ragionare” (Aristotele, Metafisica, IV, 4).

Come mal risolve i problemi della Chiesa Francesco I

“Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi efondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare” (Omelia del 10 novembre 2015).

La gravità dei mali nella Chiesa

Da oltre 50 anni lavora nel seno della Chiesa una crisi generalizzata e senza precedenti definita da Paolo VI stesso “di autodemolizione”, perché, guidata da membri della Chiesa, di cui Bergoglio è l’epigono parossistico che chiude la parabola discendente iniziata da Giovanni XXIII. Lo stesso Paolo VI affermò che «molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, di incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l'autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione›› (2).

La crisi nella Chiesa non potrebbe essere più profonda. Infatti che cosa è rimasto intatto nel cristianesimo? Se non vi è certezza sul dogma trinitario; se aleggiano ambiguità sulla Persona di Gesù Cristo; se si è titubanti di fronte alla Santissima Eucaristia; se non si concepisce la Chiesa come istituzione di salvezza; che cosa resta del cristianesimo, della Rivelazione cristiana?

Vi è in mezzo ai fedeli un movimento convergente nella formazione di una nuova “religiosità”, che può essere soltanto una nuova falsa religione neo-modernistica: da un lato, si generano incertezze sui misteri rivelati; dall’altro, si struttura una vita cristiana secondo i gusti dello spirito del secolo.

La teologia pastorale del Concilio Vaticano II ha toccato la sostanza stessa della Rivelazione. Non si mira a una esposizione della verità rivelata in termini tali che gli uomini la comprendano facilmente, ma si tenta, per mezzo di un linguaggio ambiguo e ricercato, di presentare una nuova “religiosità”, consona ai gusti dell’uomo formato secondo le massime del mondo. Così si diffonde, più o meno ovunque, l'idea che la Chiesa romana deve passare attraverso un mutamento radicale nella sua morale, nella sua liturgia, e anche nella sua dottrina.

Negli scritti e nelle omelie di Francesco I s’inculca la tesi che la Chiesa tradizionale, come esisteva sino al Vaticano II, non è più all’altezza dei tempi moderni. Di conseguenza, deve trasformarsi totalmente. E una osservazione rapida su quanto succede in ambienti cattolici porta alla convinzione che davvero, dopo il Concilio, esiste una nuova “religiosità” neo-modernistica, essenzialmente distinta da quella conosciuta prima di esso.

Infatti, si esalta, come principio assoluto e intangibile, la dignità umana, ai cui diritti si sottomettono la verità e il bene. Questa concezione inaugura la religione dell'uomo; e fa dimenticare l’austerità cristiana e la beatitudine celeste.

Nei costumi, il medesimo principio dimentica l’ascetica cristiana e l’obbligo di osservare i 10 Comandamenti ed è assolutamente indulgente anche con il piacere sensuale, dal momento che l’uomo deve cercare la sua pienezza sulla terra. Nella vita coniugale e familiare, la religione dell’uomo antepone il piacere al dovere, giustificando, a questo titolo, i metodi anticoncezionali, diminuendo l’opposizione al divorzio e rivelandosi favorevole a dare i sacramenti a chi vuol vivere nel peccato mortale.

Nella vita pubblica, la religione dell’uomo respinge la gerarchia e propugna l’egualitarismo proprio dell’ideologia marxista contrario all’insegnamento divino naturale e rivelato, che attesta l’esistenza di un ordine gerarchico richiesto dalla natura stessa della società.

Nella vita religiosa, lo stesso principio preconizza un ecumenismo che, a beneficio dell’uomo, metta d’accordo tutte le religioni; preconizza una “Chiesa” trasformata in istituto di assistenza sociale e rende inintelligibile il sacro, comprensibile soltanto in una società gerarchica. Da ciò la preoccupazione eccessiva per la promozione sociale, come se la Chiesa fosse soltanto un più esteso organismo di assistenza. Da ciò, e allo stesso modo, la secolarizzazione del clero, il cui celibato viene considerato qualcosa di assurdo, così come si considera strano il genere di vita del sacerdote, intimamente legato al suo carattere di persona consacrata in modo esclusivo al servizio dell’altare.

Nella liturgia, si riduce il sacerdote a semplice rappresentante del popolo, e i mutamenti sono tali e tanti che essa cessa di presentare adeguatamente agli occhi del fedele l’immagine della Sposa dell’Agnello, una, santa e immacolata.

Evidentemente il rilassamento morale e la dissoluzione liturgica non avrebbero potuto coesistere con l’immutabilità del dogma e, d’altronde, già queste trasformazioni indicavano mutamenti nel modo di concepire le verità rivelate.

La buona soluzione secondo la dottrina cattolica

Il rimedio a tanto male è ricorrere al valore della Tradizione il quale è tale che anche le encicliche e gli altri documenti del Magistero ordinario del Sommo Pontefice sono infallibili soltanto negli insegnamenti confermati dalla Tradizione, cioè da un continuo insegnamento della dottrina, svolto da diversi Papi e per un ampio lasso di tempo (Pio IX, Enciclica Tuaslibenter, 1863). Di conseguenza, l’atto del Magistero ordinario di un Papa che contrasti con l’insegnamento magisteriale di diversi Papi promulgato per un considerevole lasso di tempo non può essere accettato.

La Tradizione assieme alla Bibbia è una delle due “fonti” della divina Rivelazione. Essa è anche la “trasmissione” (dal latino tradere, trasmettere) orale di tutte le verità rivelate da Cristo agli Apostoli (Tradizione divina) o suggerite loro dallo Spirito Santo (Tradizione divino-apostolica, che si chiude con la morte dell’apostolo Giovanni), e giunte a noi mediante il magistero sempre vivo della Chiesa, assistita da Dio sino alla fine del mondo. La Tradizione assieme alla S. Scrittura è “canale contenitore e veicolo trasmettitore” della Parola divinamente rivelata. Il magistero ecclesiastico è “l’organo” della Tradizione, mentre i “documenti” in cui si è conservata sono i Simboli di fede, gli scritti dei Padri, la liturgia, la pratica della Chiesa, gli Atti dei martiri e i monumenti archeologici ecc.

Le verità o precetti morali, disciplinari e liturgici, che derivano direttamente da Cristo o dagli Apostoli in quanto promulgatori della Rivelazione, sono oggetto di fede divina.

I primi discepoli degli Apostoli ricevettero in maniera diretta e immediata la Tradizione dalla bocca dei Dodici, mentre i posteri la ricevono in maniera indiretta e mediata tramite l’insegnamento dei successori di Pietro (i Papi) e degli Apostoli (i vescovi) cum Petro et sub Petro.

Questa è la funzione del magistero: mediare e attualizzare l’insegnamento divino, ma sempre agganciandosi alla Tradizione ricevuta. Non si tratta, quindi, di far vivere una fede nuova, ma di tramandare e far ricevere o rivivere continuamente e nuovamente sino alla fine del mondo l’unica medesima fede predicata da Cristo e dagli Apostoli.
La funzione del magistero non propone nessuna novità, ma solo ribadisce in maniera nuova e approfondita le stesse verità contenute nella Scrittura e nella Tradizione. Da questo “deposito della fede” è totalmente assente ogni ombra di contraddizione tra verità antiche e nuove: lo sviluppo deve avvenire “nello stesso senso e nello stesso significato” (S. Vincenzo da Lerino,Commonitorium, XXIII; Vaticano I, Denz. 1800). Non vi è Tradizione, non sussiste verità cattolica là dove si trova contraddizione, contrarietà o concorrenza tra “nova et vetera”.

La Tradizione orale non esclude che venga poi messa per iscritto senza “divina ispirazione”, in quanto col passare del tempo la trasmissione a voce viene fissata in documenti scritti o epigrafi; per esempio la validità del Battesimo dei neonati è Tradizione, poiché è parola di Dio non scritta sotto divina ispirazione, ma è contenuta nei libri di quasi tutti gli antichi scrittori ecclesiastici. Tuttavia lo scritto è solo un sussidio della Tradizione orale. Onde vi possono essere Tradizioni o insegnamenti divino-apostolici di cui nulla è stato scritto. Sarà la voce della Chiesa o il magistero vivente nella persona del Papa a garantire che tali verità sono di origine divina o divino-apostolica.

L’esistenza della Tradizione la si trova rivelata nella Bibbia: “Andate dunque e ammaestrate tutte le genti […] insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato” (Mt., XXVIII, 19-20). Gesù non ha scritto nulla, gli Apostoli hanno prima predicato e solo dopo alcuni di essi o dei loro discepoli hanno messo per iscritto la parte essenziale dell’insegnamento orale di Cristo.

Col III secolo (Papia +130; S. Clemente Romano +101; S. Ireneo da Lione +202 e Tertulliano +222) i Padri ecclesiastici iniziarono a discernere nettamente S. Scrittura e Tradizione come due fonti distinte della Rivelazione, dando una certa preferenza alla Tradizione. Nel IV-V secolo con i Cappadoci in Oriente (S. Basilio +379, S. Gregorio Nazianzeno +390 e Nisseno +394) e S. Agostino (+430) in Occidente si approfondì il significato di Tradizione specialmente in rapporto ai suoi organi di trasmissione (Papi, Concili, Padri ecclesiastici). S. Vincenzo da Lerino ha formulato la regola più nota e comune per definire la vera Tradizione divino-apostolica: “Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est” (Commonitorium, II) / Ciò che ovunque, sempre e da tutti è stato creduto”.

Come si vede sia nella Scrittura che nei Padri il concetto di vera Tradizione è sempre collegato all’assistenza di Dio, poiché, senza l’aiuto dello Spirito di Verità, la purezza dell’insegnamento orale non potrebbe conservarsi senza mescolanza di errori. Inoltre il concetto di Tradizione è inseparabile dal magistero che, pur non essendo la Tradizione stessa, è l’organo tramite il quale essa viene tramandata.

Tra magistero e Tradizione vi è una certa distinzione ma non separazione, ossia la Chiesa è come un maestro che ha un Libro di testo ufficiale (Scrittura e Tradizione) e ne spiega il significato ai discenti. Ne risulta la parte essenziale che svolge il magistero nel dare, “tutti i giorni sino alla fine del mondo”, la retta interpretazione soggettivo/formale della Tradizione, avendone garantito ieri la veridicità del contenuto passivo o oggettivo/materiale.

Il magistero custodisce, spiega e interpreta la Parola di Dio scritta o orale (“Verbum Dei scriptum vel traditum”). Quindi Magistero e Tradizione non sono identici. Il Magistero non è fonte di Rivelazione, Scrittura e Tradizione sì. Perciò il Magistero presuppone le due fonti della Rivelazione, le custodisce e le spiega, onde in senso stretto non coincide con la Tradizione. Tuttavia, se si considera il magistero nei suoi documenti o oggettivamente, allora si può dire che in essi si ritrova una fonte o luogo della Rivelazione (3).

Conclusione

«Causa dello stordimento che soffrono i fedeli, angustiati perché ormai non sono più certi di quello che devono credere e di come devono agire è l’abbandono della Tradizione. Quindi,l’antidoto a una crisi tanto profonda di linguaggio, di pensiero e di azione, lo incontriamo soltanto nella fedeltà alla Tradizione. Un compito tanto nobile è assolvibile soltanto attraverso la fedeltà alla “Tradizione ininterrotta che [...] ricollega [il nostro cristianesimo] alla fede degli Apostoli”» (4) (Lettera pastorale di mons. De Castro Mayer “Aggiornamento e Tradizione” dell’11 aprile 1971).

Contro i “mali” a cui il falso «aggiornamento», iniziato da Roncalli espone l’integrità della fede e la purezza dei costumi cristiani occorre, perciò, essere fedeli alla Tradizione per mantenere la fede integra “senza la quale non si può piacere a Dio” (Ebr., XI, 6) e la morale divino naturale e positiva poiché “senza le opere la fede è morta” (Giac., II, 26).

NOTE

1 - Ef., V, 26.
2 - Paolo VI, Esortazione Apostolica all’Episcopato cattolico, dell’8-12-1970, in AAS, vol. LXIII, p. 99.
3 - Cfr. J. Salaverri, De Ecclesia Christi, Madrid, BAC, 1958, n. 805 ss.
4 - Ivi.



Pubblicato su Sì Sì No No, anno XLI, n° 20, 30 novembre 2015

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