GIANSENISTI E CATTOLICESIMO
Le radici illuministe e gianseniste dell’odierno cattolicesimo “progressista”: il caso Tamburini. Giansenisti? Gratta gratta dietro tutto il loro rigorismo si trova solo un tentativo di protestantizzare il cattolicesimo
di Francesco Lamendola
Colui che ha poca dimestichezza con la storia della Chiesa, e specialmente colui che parte con la zavorra di una serie di pregiudizi di matrice protestante, illuminista e marxista, resterà forse stupito, se è in buona fede, mano a mano che ne approfondisca le vicende, dalla frequenza con cui non solo la sua base, il popolo dei fedeli e il basso clero, ma anche i suoi quadri ed i suoi stessi vertici, sono stati investiti dai venti furiosi della contestazione della gerarchia, della pastorale, del dogma stesso; da quante volte i “suoi” teologi, e non pochi vescovi e cardinali, si sono lascia irretiti dalle mode culturali del proprio tempo, dalle tendenze politiche, dalle sirene del potere dominante di turno, per introdurre, o tentar di introdurre, innovazioni presentate ogni volta come “doverose”, “necessarie”, “indispensabili” per riportare la Chiesa al Vangelo, alla fedeltà di Cristo, quasi che per secoli si fosse sviata e avesse scordato la sua vocazione, la sua missione, la sua stessa origine soprannaturale; e da quanto spesso codesti novatori, tutti infiammati di sacro zelo moralizzatore, tutti spiranti fuoco e fiamme contro la simonia e gi altri vizi del clero, contro l’autoritarismo dei pontefici, contro la loro insensibilità per il povero gregge dei fedeli, sfruttato e oppresso dall’ignoranza e dalla superstizione, si siano proclamati - complice l’ebbrezza dell’ego, che li ha resi dimentichi d’essere solo operai della vigna - annunciatori di “riforme” che erano sempre peggiorative rispetto alla sana tradizione cattolica, fondata sulle Scritture e sulla Tradizione, e che, se attuate, avrebbero tolto, non aggiunto, bellezza e profondità al Magistero ecclesiastico.
Si prenda il caso dei Giansenisti. Gratta, gratta, dietro tutto il loro rigorismo e dietro tutte le loro pretese di essere i “veri” interpreti della Rivelazione, di essere i soli a voler “tornare al Vangelo”, si nota, al fondo di tutte le loro belle parole, un tentativo di protestantizzare il cattolicesimo (non sarebbe stato il primo, né l’ultimo: anzi, sono tentativi che cominciano prima di Lutero, ad esempio con Wycliffe e Hus), ossia di snaturarlo e di stravolgerlo, trasformandolo in qualcosa di peggio, a nostro parere, e non certo di meglio, di quel che esso era, pur con tutti i limiti e i difetti pratici degli uomini e delle istituzioni – i limiti, cioè, propri della Chiesa visibile, che è, per il credente, solo una parte, la più fragile, la più bisognosa di aiuto e conforto divini, della Chiesa stessa. In sintesi, si trattava di allinearsi completamente con le politiche giurisdizionaliste degli Stati del XVIII secolo, in particolare con l’azione dei sovrani assoluti “illuminati”, a cominciare da Giuseppe II d’Asburgo, allo scopo di riportare, dicevano loro, la Chiesa nel solco della sua missione originaria, prettamente spirituale e non mondana; dall’altro, si trattava di reintrodurre il più cupo pessimismo di matrice agostiniana, o piuttosto pseudo-agostiniana (perché tratto da una lettura parziale e forzata del pensiero di Agostino), ribadendo che l’uomo, senza la Grazia, non può nulla, e tanto meno salvarsi; che Dio, pertanto, salva chi vuole e quando vuole; e che la predestinazione è certa e inesorabile, e insomma che l’uomo vi si deve rassegnare. Un calvinismo travestito da cattolicesimo rigorista.
Per giunta, i giansenisti, quasi tutti persone colte e pezzi grossi della Chiesa, disprezzavano la “massa dannata” dei fedeli, ed erano contrari alla politica dei Gesuiti, di estendere il più possibile il numero dei fedeli: a che scopo allargare le file dei cristiani, dal momento che la grandissima parte di loro è destinata al fuoco dell’Inferno? E a che scopo promuovere il culto del Sacro Cuore di Gesù, insistendo sulla umanità del Redentore? Non avrebbe portato, tutto ciò, verso una religione ancora più “materialista”, più superstiziosa, più lontana da quell’ideale di perfetta spiritualità, che essi gelosamente coltivavano e custodivano, secondo una mentalità da “numero chiuso”?
Eppure, il giansenismo era stato ripetutamente condannato dalla Chiesa: con un decreto del Santo Uffizio nel 1641 e con la bolla “In eminenti” di Urbano VIII nel 1642, oltre che con parecchi altri documenti ufficiali, fino alla bolla “Cum occasione” di Innocenzo X, nel 1653, e alle bolle “Ad sanctam beati Petri sedem” e “Regiminis apostolici”, entrambe di Alessandro VII, rispettivamente del 1656 e del 1664. Eppure, il giansenismo non recedette; e un secolo dopo, il “secolo dei lumi” (si fa per dire), troviamo diversi porporati e teologi cattolici che si dichiarano apertamente giansenisti, quasi che tante condanne fossero state acqua fresca e che essi non temessero affatto di minare l’unità della Chiesa, o di seminare scandalo tra i fedeli. Ed ecco, in Italia, per esempio, un vescovo apertamente giansenista, il fiorentino Scipione de’ Ricci (1740-1810), che resse la diocesi di Pistoia e Prato dal 1780 al 1791. Eccolo appoggiarsi, per usare un’espressione forse troppo gentile, al granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, futuro imperatore d’Austria con il nome di Leopoldo II, nella sua furia riformatrice;e avanzare a testa bassa per abbattere gli ostacoli e imporre l’attuazione delle sue concezioni nella propria diocesi: fra l’altro, abolendo numerosi ordini religiosi e sconsacrando tutta una serie di venerande chiese, che furono ridotte ad usi civili; poi, non pago di agire solo a livello locale, convocando addirittura un sinodo, a Pistoia, nel 1786, con la dichiarata volontà di riformare la Chiesa in senso giansenista.
In questa bella impresa, che ebbe l’improntitudine di dichiarare perfettamente ortodossa, mentre al primo punto dei lavori attaccava frontalmente il culto del Sacro Cuore, una delle tradizioni più belle, profonde e ispirate della Tradizione cattolica, e inoltre evitò di nominare anche una sola volta la parola “transustanziazione”, pur dedicando molto spazio alle questioni relative all’Eucarestia, il Ricci si avvalse del sostegno dottrinario di un teologo delle sue stesse idee, il teologo e giurista bresciano Pietro Tamburini (1837-1827), un sacerdote protetto dal cardinale veneziano Giovanni Molin (1705-1773), divenuto professore di Metafisica in seminario, finché alcune sue pubblicazioni contro i Gesuiti gli fecero perdere la cattedra, poi trasferitosi a Roma ed entrato nelle grazie del Ricci e di altri prelati giansenisti, che lo aiutarono a rafforzare la propria posizione. Infine egli trovò nella Lombardia austriaca dell’assolutismo illuminato il luogo d’elezione per proseguire la propria “battaglia”: fu chiamato dall’imperatrice Maria Teresa a occupare la cattedra di Teologia morale presso l’Università di Pavia, cosa che proseguì anche durante il regno di Giuseppe II, del quale condivise lo zelo, per non dire il furore, giurisdizionalista e anticlericale.
Doveva essere una magnifica sensazione, per lui, tuonare contro la corruzione della Chiesa, contro l’ignoranza delle masse e contro il dispotismo dei papi, avendo le spalle protette dai più potenti sovrani dell’epoca e vestendo l’abito di sacerdote, il che lo rendeva un critico interno e quindi, si pensava, in buona fede, intenzionato non a distruggere, ma a riformare il venerando edificio. È sempre bello dir male dei propri superiori e della propria istituzione, quando c’è qualcuno che ci copre e che guarda compiaciuto all’esito dei nostri attacchi: non si rischia nulla e si fa la figura degli intrepidi paladini della giusta causa. E che il Tamburini dovesse avere un mucchio di santi in paradiso, lo si vide quando l’Ancien régime, da un giorno all’altro, venne giù come un castello di carte, portandosi dietro, nella sua rovina, anche le velleità dell’assolutismo illuminato. Quando Napoleone scese in Italia, nel 1796, ci si sarebbe potuto immaginare che costui venisse chiamato al redde rationem; al contrario, ebbe dal generale francese la nomina a cavaliere della Corona di Ferro. Non solo: poiché negli ultimi tempi del governo austriaco era caduto in disgrazia, tanto da essere allontanato, nel 1794, dalla quella Università di Pavia di cui era stato professore e anche Magnifico rettore, nel 1797 si vide richiamare e gli venne offerta la cattedra di Filosofia morale e Diritto naturale, che si affrettò ad accettare.
Ai nuovi padroni francesi il Tamburini dovette piacere non poco, visto che già nel 1797, non appena caduta la Repubblica di Venezia e instaurato un regime provvisorio repubblicano nella sua natia Brescia, egli fu chiamato ad assumere la guida del nascente Liceo. Ma il Liceo venne chiuso due anni dopo e gli Austro-Russi, mentre Napoleone era in Egitto, invasero l’Italia settentrionale: prudentemente il Tamburini si ritornò nella sua Brescia, dove ebbe a soffrire solo qualche fastidio da parte di una banda di sanfedisti locali, i quali, giustamente, vedevano in lui il difensore del nuovo ordine di cose, prima all’ombra degli Austriaci, ora dei Francesi (contro i quali era esplosa una rivolta in Valle Sabbia). Ma furono contrattempi di breve momento: dopo Marengo, i Francesi tornarono alla grande e lo richiamarono a Pavia, prima come dicente universitario, poi come direttore del Collegio Ghisleri. E non era finita: caduti i Francesi e rientrati gli Austriaci, stavolta definitivamente, egli non incorse in alcuna noia, anzi, ebbe ancora onori e cattedre, chiudendo letteralmente in trionfo la sua vita di studioso e di “riformatore” religioso. Anche se la Chiesa, per bocca di Pio VI – quello fatto prigioniero da Napoleone e deportato in Francia come un malfattore, lui sì uomo che osò esporsi e pagare di persona -, fin dal 1794 aveva solennemente condannato il Sinodo di Pistoia e le idee colà ispirate, per lo più, dal prode, intramontabile Tamburini.
Ha osservato Gino Benzoni a proposito (in: A.A.V.V., «Pietro Tamburini e il giansenismo lombardo. Atti del Convegno internazionale in occasione del 250° della nascita (Brescia, 25-26 maggio 1989)», a cura di P. Corsini e D. Montanari, Brescia, Morcelliana, 1993, pp. 398-399):
«… Salta fuori, comunque, alle successive relazioni e dalle comunicazioni, che – in una Lombardia austriaca soggetta ad una lotta senza quartiere e addirittura concitata nella fase Giuseppina, per un’autentica grandinata di provvedimenti mirata all’eliminazione d’ogni diaframma che si frapponesse alla trasformazione dell’individuo in diretto interlocutore dello Stato – Tamburini è il teologi sin complementare all’irruente operato di Giuseppe II. Teologo giansenista, allora, Tamburini, ma anche teologo in certo qual modo di stato, teologo cesareo, prestigioso docente universitario, discretamente remunerato e applaudito quando, a lezione, s’abbandona a frecciate anticuriali. Non c’è da dubitare della sua fede, non c’è da dubitare della sua buna fede, non c’è da dubitare lo animi la verità, si senta campione della verità. Una verità la sua confortata dallo scatenato interventismo giuseppino, simultanea alla determinazione riformatrice di questo e con questa in sintonia. Una congiuntura favorevole per la battaglia tamburiniana e - d’altro canto - incorporabile questa nella strategia di Giuseppe II. Il teologo, allora, va bene all’imperatore e viceversa, Niente di sconveniente, per carità. La reciproca convenienza non è, ovviamente, sconveniente. “Omnis potestas a Deo”. Ottima situazione, allora, quella d’un intimo pensiero conveniente al potere imperiale, che impersonato da Giuseppe I, si muove in una direzione in cui non solo si p tenuti ad obbedire in quanto sottomessi alla sua sovranità, ma che si può condividere nell’intimo della coscienza e alla quale quindi al di là dell’ottemperanza – si può aderire con un supplemento attivo d’entusiasmo. Teologo dell’imperatore, comunque, Tamburini, teologo, quanto meno, per l’imperatore. E viene in mente – per lo meno viene in mente a me che, abitando a Venezia, mi occupo di cose veneziane – Paolo Sarpi che con la qualifica di “teologo” della Serenissima, sostiene, e, anche, guida la Repubblica veneziana durante l’asperrima contesa, nel primissimo seicento, dell’interdetto. Pel servita non cui sono dubbi: Venezia ha ragione di fronte a Dio e di fronte agli uomini. È suo diritto non sottomettersi alle intrusioni papali nel suo esercizio ella sovranità. Campione della pienezza sovrana dello stato Sarpi è come tale riproposto con forza nella temperie risorgimentale. Ma Sarpi è anche quello che annota – in un suo pensiero – che l’uomo, di per sé, vivrebbe “meglio in anarchia”, che lo stato, la “somma podestà”un “bisogno”, una necessità, ma non arrecano felicità, che la ”repubblica”, ossia lo stato, è “natural medicina, non cibo”. Pensieri del genere hanno mai sfiorato Tamburini? L’ha mai turbato una autentica tentazione anarchica?
E, poiché se non vado errato Tamburini deve avere a che fare coll’uscita a Pavia, nel 1790, dell’”Apologia d’Arnaldo” dell’arcivescovo di Cividate Camuno Giambattista Guadagnini, si dà, da parte di Tamburini, la promozione del rilancio d’una figura vittima del temporalismo della Chiesa, propugnatore d’una chiesa scarnita, prosciugata, asciutta, depurata di beni, pretese, appetiti. Ma – par di capire – l’infiammato predicatore antisimoniaco è un po’, per Tamburini, una sorta d’energico prefiguratore del diritto pubblico, una sorta di S. Giovanni profetante il giuseppinismo. Ma, poiché alla sua eliminazione del 1155 ha ben concorso l’imperatore Barbarossa consegnandolo al papa Adriano IV, s’è mai chiesto Tamburini se Arnaldo sia figura realmente sistemabile all’interno degl’incunaboli del regalismo. In fin dei conti è stato suppliziato e dalla Chiesa e dall’Impero…»
Ma a che scopo farsi tante domande? Uomini come Pietro Tamburini non sentono l’imbarazzo delle proprie contraddizioni, sia intellettuali che umane. Abili naviganti nel pelago della politica, guidati da un sicuro istinto che li tiene sempre sottovento e che li protegge da spiacevoli imprevisti, vanno per la loro strada, gonfi di superbia e di auto-compiacimento, con le spalle ben coperte dal potente di turno; modestamente, si sentono i salvatori dell’umanità, i redentori del mondo (o della Chiesa, come in questo caso). Non conoscono la parola modestia, come non sanno cosa sia l’autocritica. Hanno Dio dalla loro parte: e questo perché leggono la Bibbia, come i protestanti, alla maniera che par loro migliore; tanto peggio se il Magistero, per più di mille anni, l’ha letta in altro modo. Figli della mentalità illuminista, considerano se stessi come la luce del mondo: la luce che metterà in fuga le tenebre dell'ignoranza e della superstizione. Preti mediocri, anzi pessimi, come Ludovico Antonio Muratori, sul piano dell’ordine e dell’armonia interna della Chiesa, ma convinti che, a loro, tutto sia consentito, in ragione della loro cultura e della loro intelligenza superiori. Non si sentono realmente compagni di fede delle vecchiette e delle persone semplici: e proprio in tale atteggiamento di arroganza non si accorgono di aver già tradito lo spirito del Vangelo. Proprio loro, che hanno sempre il Vangelo in bocca, anzi, lo “spirito” del Vangelo, quello autentico, che loro soli conoscono e cui loro soltanto vogliono ritornare, perché sono moralmente migliori di tutti gli altri, i quali, invece, fanno resistenza alle “riforme” per le più ignobili ragioni.
Si credono tanto arditi e originali, ma, a ben guardare, le loro “battaglie” sono sovente di una piattezza e di un conformismo impressionanti (il conformismo dell’anticonformismo, come si addice ai falsi rivoluzionari). Prendiamo il caso di Tamburini. Qual è l’opera più importante che ha lasciato ai posteri? Una «Storia generale dell’Inquisizione», in quattro volumi, scritta fra il 1717 e il 1718. Bersaglio dichiarato: la monarchia spagnola di Ferdinando VII, già sotto attacco da parte della Massoneria internazionale, che le stava strappando, a brano a brano, le ultime colonie in terra d’America (per “liberarle”, beninteso, ma anche, incidentalmente, per “aprirle” alla penetrazione commerciale e finanziaria anglosassone, cui ancora oggi beatamente soggiacciono). Guarda caso, un avversario ormai isolato e votato alla sconfitta; e un tema già sfruttato fino all’inverosimile dagli illuministi anticattolici (la famigerata “leggenda nera”). Se anche non ci si metteva il Tamburini, contro l’Inquisizione si era già detto molto: la sua opera non aggiunge nulla e non spicca in alcun modo, né per originalità, né per profondità. Oppure prendiamo il caso di Muratori (che non era apertamente giansenista, ma che rivela una oggettiva convergenza con molti atteggiamenti giansenisti), un altro di quei preti illuministi che non si vedevano mai in chiesa a celebrare, o a predicare in mezzo al popolo, ma che vivevano sprofondati delle loro dotte ricerche, scrivendo e ricevendo lettere da mezzo mondo, e che dall’alto delle loro “verità” sentenziavano su tutto, esattamente come i philosphes francesi che tanto ammiravano. Una delle sue opere più interessanti, anche se meno conosciute, è il trattato «De superstizione vitanda», del 1740, nel quale si scaglia contro il cosiddetto “voto del sangue” relativo al culto della Immacolata Concezione, la quale da lui era ritenuta una verità probabile, ma non certa; culto istituito ufficialmente, è vero, solo nel 1854, da Pio IX, ma che il Magistero non aveva mai smentito o scoraggiato, e che la Tradizione aveva da secoli tramandato, in accordo con la pietà popolare.
Ma che importa, ad uomini come Tamburini o come Muratori, della pietà popolare? Sono uomini di studio e di pensiero, loro; quando individuano la Verità, non esitano a gridarla dai tetti, fosse pure in disaccordo con il papa stesso. Chi è, in fondo, il papa? Non è un uomo anch’egli? e non deve sottomettersi, anch’egli, alla Verità? Strano come la fede, l’umiltà davanti a Dio, il lasciarsi riempire dalla sapienza di Dio, ricorrano così poco, nei loro discorsi… Non sembrano sacerdoti, né teologi cattolici, da come parlano: ma cani da guardia della Ragione illuminista, sempre pronti a scovare e denunciare l’errore, la deviazione, la superstizione. Non si sente carità, non si sente amore di Dio o del prossimo, nelle loro parole: e si stenta anche a sentire un autentico amore della Chiesa, quella riverenza naturale che il figlio prova per la madre, per quanto essa non sempre sia all’altezza del suo ruolo. Si sente solo un linguaggio terribilmente umano, pesantemente carico di orgoglio.
Proprio come quello dei modernisti di ieri, di oggi, di sempre.
Le radici illuministe e gianseniste dell’odierno cattolicesimo “progressista”: il caso Tamburini di Francesco Lamendola
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