ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 25 gennaio 2016

La Chiesa come i Panda?

LA DEVOZIONE E' SUPERATA ?

La Chiesa ha preso la via dello sgretolamento e dell’auto-dissoluzione interna. Catechisti e preti hanno minato le fondamenta dell’edificio riducendola ad una assemblea di tipo profano: una Chiesa così non ha più ragione di esistere 
di F. Lamendola  



 Viviamo in un’epoca strana. La religione non si è estinta, come avevano profetizzato i suoi nemici fin dal XVII e XVIII secolo, fra libertinismo e illuminismo, o nel XIX, con il positivismo: si pensi che Auguste Comte prevedeva di predicare la nuova Umanità ”positiva”, dalla Basilica parigina di Notre Dame, entro il 1860; e Nietzsche, nel 1883, fin dalle prime pagine dello «Zarathustra», aveva orgogliosamente proclamato la morte di Dio.
Non si è estinta la religione, però la sua sopravvivenza ha imboccato due vicoli ciechi opposti e speculari: il fondamentalismo, nel caso dell’islam; lo sgretolamento e l’auto-dissoluzione interna, in quello del cristianesimo.
Lasciamo stare l’islamismo, che richiederebbe un discorso a parte, anche perché vorremmo limitare la presente riflessione all’ambito della nostra civiltà e della nostra cultura; senza contare che, da molti indizi, è verosimile che l’islamismo sia diventato una dottrina rivoluzionaria non per ragioni intrinseche, ma per il fatto di essere venuto (traumaticamente) a contatto con il XX secolo: il secolo rivoluzionario.
Dunque, limitandoci al cristianesimo. Sempre più spesso si assiste, e ormai è uno stillicidio quotidiano, ad aperte manifestazioni di dubbio, d’incredulità, di apostasia, esternate, però, all’interno delle sedi proprie della religione cristiana, e nel bel mezzo della pastorale o della catechesi: ci sono preti che, durante la predica, mettono in dubbio il soprannaturale, mettono in forse la vita eterna, in linea, del resto, con “eminenti” teologi che si dicono, in qualche modo (chi sa come) cristiani, e perfino cattolici; e ci sono catechisti che proclamano di non credere nella Resurrezione di Cristo, o nell’esistenza del Paradiso e dell’Inferno. Si tratta di persone, in teoria, qualificate, le quali dovrebbero trasmettere agli altri, e, in particolare, alle giovani generazioni, il patrimonio della fede, secondo il Magistero e alla luce della Rivelazione: invece si comportano come se la chiesa o l’oratorio fossero dei luoghi di terapia di gruppo, in cui riversare tutte le loro crisi, senza alcun riguardo per lo scandalo così seminato e senza alcuna consapevolezza del proprio ruolo, sia istituzionale che morale, convinti, semmai, di fare opera utile, nel senso di “democratizzare” e “sburocratizzare” il rapporto fra laici e consacrati.
Milioni di catechisti, di preti e anche di vescovi che agiscono in tal modo, hanno minato le fondamenta dell’edificio: una Chiesa ridotta in questi termini non ha più ragione di esistere. Non è più una guida per la società, non è più un luogo di certezze spirituali: è diventata una assemblea di tipo profanonella quale si scaricano direttamente, senza filtro né mediazione, tutti i disagi e tutte le frustrazioni della società laica. Nelle famiglie, peggio che peggio: insegnare, con le parole e soprattutto con l’esempio, il modello della vita cristiana, è semplicemente scivolato via dal quadro dei doveri, delle responsabilità e delle gioie dei genitori appartenenti alle ultime generazioni; così come sono scivolate via molte altre cose, anche al di fuori della sfera religiosa (ma c’è davvero un “al di fuori”, per chi vive seriamente il fatto religioso?). Non si tratterebbe solo di fare in modo che i bambini vadano al catechismo o che frequentino le sacre funzioni; questo, più o meno, i genitori lo fanno, perché, il più delle volte, non sono disposti a rinunciare alla festa consumista del battesimo, della prima comunione e della cresima, ottime occasioni per far regali e per sfoggiare abiti firmati. Si tratta, soprattutto, di trasmetter una visione saldamente cristiana della vita, nelle piccole e grandi cose d’ogni giorno: dal modo di fare la spesa, al come e cosa guardare alla televisione, alla scelta di un film quando si va al cinema, al modo di porsi con le altre persone, nell’umile e concreta realtà di tutti i giorni.
Il fatto è che manca del tutto un progetto educativo; di conseguenza, manca anche un progetto educativo cristiano. Si va avanti in ordine sparso, alla meno peggio, come la va, la va. Se sorgono dei problemi, ci si pensa volta per volta; se no, si procede per forza d’inerzia, senza farsi domande, senza operare delle scelte consapevoli: si fa come fanno tutti, come si vede fare dai personaggi dello spettacolo o dai piccoli divi del gossip. Sono loro a fare le mode, in tutto e per tutto, a cominciare dall’abbigliamento: sono loro a decidere se bisogna mostrare il seno o il ventre, oppure se bisogna avvolgersi in vestiti enormi, che nascondono le forme del corpo. E sono ancora loro a strabilire se va bene divorziare, e quante volte, e come regolarsi con l’ex marito, o con i figli; sono loro a decidere cosa può fare una sessantenne, se decide di vivere una seconda giovinezza: come può godersi una vita tutta nuova, piena di esperienze inedite, dopo essersi sbarazzata di quell’impiastro di marito (o viceversa, nel caso del vispo sessantenne).
La crisi della cristianità riflette la crisi della modernità, dal momento in cui i cristiani hanno smesso di pensare al “mondo” come al polo dialettico del loro orizzonte spirituale, e hanno scoperto che era molto più facile e comodo entrare nel mondo, fare propria la prospettiva del mondo, adottare i suoi valori e i suoi punti di vista. Ma il problema è che la nostra civiltà è diventata una non-civiltà, dunque un luogo di barbarie. Lo diciamo a ragion veduta. La società rurale ha prodotto la civiltà contadina: della quale si può pensare tutto il bene o tutto il male che si vuole, ma è innegabile che fosse tale, cioè una civiltà. Il contadino era legato alla terra, alla casa, alla famiglia, a Dio, al lavoro, alle generazioni passate e future, da mille e mille fili; lavorava con convinzione, perché vedeva i frutti del suo lavoro; sopportava i sacrifici, per quanto duri, perché pensava in termini collettivi e non individualistici: lo scopo della vita non era, per lui, la felicità individuale, ma la continuità e la vitalità della famiglia e della comunità, secondo la legge del Signore e nella speranza della vita eterna. La società industriale, nata nel corso del XIX secolo e pienamente affermatasi nel XX, ha distrutto la civiltà contadina, ma non ha prodotto una civiltà nuova. È nato il proletariato, ma non è nata una civiltà operaia. Una civiltà operaia non esiste: è una contraddizione in termini. L’operaio, alienato rispetto al suo lavoro, al luogo in cui lavora, ai membri della sua stessa famiglia, e dimentico di Dio e dell’anima, è diventato l’ostaggio, il prigioniero di quella gabbia infernale che è la fabbrica. Non si può lavorare con gioia alla catena di montaggio; e un salario non basta a dare la dignità ad un essere umano. Ci vuole molto di più: ci vuole un legame organico con gli strumenti del lavoro, che in fabbrica non è possibile, e con gli scopi del lavoro, che diventano remoti, incomprensibili. Che il proprietario produca, e poi riesca a piazzare sul mercato sempre maggiori quantità di merci, all’operaio può interessare, al massimo, per la sicurezza del proprio posto di lavoro; ma nient’altro.
Dunque: la civiltà industriale, nella quale viviamo, è una non-civiltà; e questo dovrebbe aiutarci a capire come mai sia venuto meno un progetto educativo e come mai anche le persone religiose, i cristiani, stiano annaspando e affogando in una palude di contraddizioni, di aporie, di cattiva coscienza. La società industriale è, per forza di cose, una società atea e materialista: nessuna trascendenza è possibile, quando tutto si riduce a lavorare otto ore al giorno alla catena di montaggio, prendere un salario a fine mese, e concorrere al consumo di una valanga crescente di beni e di servizi che paiono fatti apposta per deteriorarsi in fretta e obbligare il consumatore e gettarli via, per acquistarne di nuovi. In questo circolo vizioso, che, guardato con un minimo di lucidità e di distacco, è semplicemente pazzesco, per non dire demoniaco, non esiste spazio possibile per il sacro, per lo spirituale, per il divino; ma non esiste neppure spazio possibile per il dialogo, per l’affettività, per la cultura. Tutto è ridotto a merce, a cominciare dal tempo; tutto viene piegato alla logica della produzione, del consumo forzato e del profitto. Le famiglie vanno in corto circuito per mancanza di tempo, di dialogo, di affettività; la scuola e l’università vanno in corto circuito perché non hanno più l’obiettivo di diffondere una istruzione e una cultura disinteressate, ma sempre tengono un occhio rivolto al mondo del lavoro, agli sponsor, ai possibili finanziatori, alla possibile convenienza materiale. Tutto, a cominciare dalla difesa dei posti di lavoro degli insegnanti – con una popolazione scolastica in costante calo, conseguenza del crollo demografico – è pensato ed eseguito non in vista di obiettivi “puri”, cioè disinteressati, ma sempre e solo tenendo conto dell’utile e del vantaggioso. Stessa cosa per la politica: essa non serve più a governare, ma ad assicurare stipendio e poltrone alla classe dei politici che vivono in un mondo tutto loro, fatto di privilegi tali da far impallidire quelli degli ordini superiori nell’Ancien régime.

E adesso torniamo al punto iniziale: alla crisi della cristianità e alla difficoltà della devozione “tradizionale”. In realtà, la devozione non è “tradizionale” o “moderna”: c’è, o non c’è; il fatto stesso di porsi la domanda in questi termini, indica fino a che punto si è smarrita la giusta prospettiva delle cose. Il cristiano dei nostri tempi, si dice da più parti, a cominciare da molti teologi, o sedicenti tali – non può più credere alla maniera dei nostri nonni o bisnonni, perché il mondo è cambiato e le persone sono diventate “adulte”. Ora, a parte il fatto che i tempi tendono sempre a cambiare – è il dinamismo della storia; anche se è vero che, oggi, cambiano assai più in fretta, al punto che le persone fanno fatica a tenere il passo -, resta il fatto che il cristiano di oggi pretende di essere “adulto” e, perciò, disdegna la devozione che gli è stata insegnata nell’infanzia; rifiuta il Dio “tappabuchi” (Bonhoeffer); vuole un Dio che sparisca, che faccia come se non ci fosse, affinché lui, l’uomo, possa crescere in autonomia. Strana idea della paternità: chi lo dice che il padre (o la madre) deve sparire, perché il figlio cresca? Pure, è così: da Freud in poi, il Padre è diventato un rivale, di cui essere gelosi; un nemico che bisogna eliminare. E la famiglia è diventata una stanza delle torture, un luogo abietto, immondo, che merita di essere distrutto: da Kafka, a Svevo, a  Pirandello, al ’68, a Pasolini, Moravia (per restare in Italia), è stata una denigrazione sistematica, livida, implacabile, della famiglia “borghese”. Figurarsi la famiglia cristiana: oltre che borghese, anche oscurantista, bigotta e repressa: uno spasso per i registi alla Bellocchio, per le scrittrici come Dacia Maraini. La famiglia borghese, la famiglia religiosa? Per carità! Il matrimonio fra uomo e donna? Una prigione, un mattatoio, un manicomio: qualcosa da distruggere e da dimenticare. Strano, perché adesso quegli stessi intellettuali, quegli stessi militanti, quegli stessi figli o nipoti del ’68, si agitano e si sbracciano a più non possono, per introdurre nella legislazione il matrimonio omosessuale; non solo, anche l’adozione dei bambini da parte delle coppie omosessuali. Hanno cambiato idea sul matrimonio? E da quando? Da quando la famiglia ha riacquistato valore ai loro occhi, e si vantano di coppie omosessuali che durano da venti, trenta o quarant’anni, specchiati esempi di fedeltà reciproca, di dedizione e di condivisione? Come mai fino a qualche anno fa sposarsi e pensar di avere dei bambini era una vergogna, una cosa da compatire, negli ambienti della cultura progressista, e adesso tutto ciò è diventato così meraviglioso, da esigere una rapidissima formalizzazione da parte del Parlamento; e così indispensabile e urgente, da essere divenuto l’oggetto di una conclamata “battaglia di civiltà”? Come mai il matrimonio eterosessuale era una roba da selvaggi con l’anello al naso, mentre ora il matrimonio omosessuale è diventato il simbolo stesso di una società che voglia definirsi civile? Sono i santi misteri della religione laicista oggi imperante in luogo della vecchia: ogni religione ha i suoi, a quanto pare. Solo che i misteri del cristianesimo venivano, e vengono, sbeffeggiati tutti i santi giorni (si pensi solo al blasfemo «Mistero buffo» del grande Premio Nobel per la letteratura, Dario Fo), e perfino da un certo numero di sacerdoti apostati e di falsi teologi che, pure, vogliono seguitare a qualificarsi “cattolici”; mentre i sacri misteri della cultura laicista e progressista, quelli sono cose estremamente serie, sulle quali non c’è proprio nulla da ridire, a meno di essere in malafede.
Quanto ai cristiani e alla questione della devozione, l’idea che il cristiano moderno non possa pregare e cercare Dio alla maniera dei suoi padri è totalmente artificiale e fuorviante. A costoro bisognerebbe ricordare che Gesù in persona disse che, per entrare nel regno dei Cieli, bisogna farsi piccoli e umili di spirito, come dei bambini. Disse proprio così: se ne facciano una ragione quei preti progressisti e tanto colti, che fanno citazioni in greco durante le omelie, per poi affermare che il miracolo di Cana non c’è mai stato, e che bisogna smetterla di andare in pellegrinaggio dalla Madonna: sono loro ad essere fuori dal seminato. Dire che l’uomo moderno non può credere in Dio nelle forme d’un tempo, significa sollevare un falso problema. Ogni tempo ha le sue forme esteriori: per il lavoro, per la scienza, per l’arte, per il pensiero, per la religione, e persino per il gioco. Ma le forme sono solo il vestito: l’importante è che ci sia qualcosa sotto. Se c’è la fede, o anche la ricerca sincera della fede, le forme della preghiera diventano secondarie. Non è vero, comunque, che il cristiano “adulto” dei nostri giorni non possa pregare con le Litanie lauretane. Se non può, è perché l’ha data vinta al Diavolo, che gli sussurra: «Via, non essere ridicolo! Siamo nel terzo millennio…».


La devozione tradizionale è superata?

di  Francesco Lamendola

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