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lunedì 15 febbraio 2016

L’allontanamento dell’uomo da Dio

MODERNITA' E UTILI IDIOTI

La modernità è l’epoca della secolarizzazione cioè dell’allontanamento dell’uomo da Dio. La demolizione dall'interno di quel che resta del cristianesimo da parte di volonterosi utili idioti che si autodefiniscono cattolici di sinistra di F. Lamendola  


 La modernità non è solo un dato cronologico e storico, è anche, e soprattutto, un insieme di credenze, abitudini, modi di produzione e stili di vita: corrisponde, insomma, in tutto e per tutto, a un nuovo paradigma culturale. Come è noto, ogni paradigma culturale, fin dal suo sorgere, si contrappone a quello che lo ha preceduto: se ne vuole emancipare, dapprima in maniera graduale e quasi timida, poi, via, via, in maniera sempre più decisa, sempre più arrogante, fino a non riconoscere alcuna legittimità, alcuna dignità al vecchio paradigma, fino a relegarlo tra gli “errori” del passato, ove non merita più nemmeno l’onore delle armi, nemmeno il riconoscimento di qualche merito, sia pure parziale.

Questo, almeno, è lo schema classico con cui si avvicendano i paradigmi nella cultura occidentale. Nelle altre culture, ad esempio in quella indiana, o cinese, più che di “svolte” si dovrebbe parlare di lentissimi e quasi impercettibili processi di aggiornamento: il nuovo si insinua accanto all’antico, senza traumi e senza rotture: la tradizione continua ad essere percepita come un bene, come la fonte stessa della civiltà; il senso della stabilità e della continuità prevale decisamente sul senso del cambiamento e del progresso. Anzi, per dirla tutta, il concetto stesso di “progresso” non ha, nelle culture extra-europee, il significato dirompente e assolutizzante che possiede in quella occidentale; la nozione di “progresso” non è carica di valenze ideologiche, indica semplicemente una evoluzione graduale e non un valore autoreferenziale, tanto meno un valore che pretenda di porsi in modo esclusivista rispetto a tutti gli altri valori.
La civiltà occidentale, invece, come la cultura che la esprime e che la identifica, è caratterizzata da un vero e proprio culto del progresso; laddove per “civiltà occidentale”non intendiamo quella nata nell’antica Grecia e proseguita fino ad oggi, perché una tale civiltà non è mai esistita, ma quella nata nel corso del XVII secolo e affermatasi decisamente a partire dal XVIII, sia in Europa che nell’America Settentrionale e, in seguito, in altri Paesi ove essa si è trapiantata (Australia, Nuova Zelanda e anche, ma più superficialmente, America latina e infine Giappone). La civiltà antica è finita con l’avvento del cristianesimo, e la civiltà medievale è finita con l’avvento della modernità. Quindi, l’Europa ha conosciuto tre grandi fasi di civiltà: quella greca e romana; quella cristiana medioevale; quella moderna. La civiltà moderna nasce come reazione contro la civiltà cristiana. Questo fatto non è stato evidente fin dall’inizio, anzi, per un paio di secoli, almeno, è sfuggito a coloro stessi, o alla maggioranza di coloro stessi, che ne erano gli araldi e i propagatori. Gli umanisti non si sentivano, sì, i portatori di una nuova civiltà, ma non antitetica, non in opposizione a quella precedente; o meglio: in contrasto con il Medioevo, sì, ma con il cristianesimo, no. Era, naturalmente, un colossale errore di prospettiva: perché la civiltà medievale era stata tutt'una con il cristianesimo, con quel cristianesimo; non si poteva rifiutare il Medioevo e conservare il cristianesimo. E non lo si poté, infatti: ma ci vollero ancora quattro secoli, dal XIV al XVIII, per rendersene conto e svilupparne la piena consapevolezza. A quel punto, alcuni, spaventati, vollero tornare indietro; ma la maggior parte degli intellettuali – perché è di essi che stiamo parlando: sono loro a creare e a disfare i paradigmi culturali, non il “popolo”, se non in seconda battuta, e per semplice adattamento – proseguirono con decisione e, anzi, si dotarono di tutti gli strumenti necessari, anche legislativi (giusnaturalismo, giurisdizionalismo) per operare la rottura completa con la civiltà cristiana e per distruggere quel che di essa ancora restava, nonché per edificare una civiltà completamente nuova e intenzionalmente, programmaticamente anticristiana (Massoneria, laicismo, secolarizzazione, anticlericalismo, filosofie materialiste).
Ha scritto Paolo Nepi, già allievo di Armando Rigobello, ora docente di Filosofia morale (in: «Dizionario delle idee politiche», diretto da Enrico Berti e Giorgio Campanini, Roma, Editrice Ave, 1993, pp. 507-508):

«La categoria che meglio sintetizza i caratteri della modernità  è quella della secolarizzazione, al punto che le due nozioni finiscono spesso per coincidere, nel senso che la modernità  si manifesta come l’epoca in cui si è dispiegato in tutta la sua ampiezza e profondità il fenomeno della secolarizzazione.  Anche se ci poniamo in una prospettiva  esclusivamente storica, la modernità si colloca infatti, cronologicamente, dopo l’epoca della cristianità medievale, rispetto alla quale rappresenta appunto il passaggio da un’età sacrale a un’età secolarizzata (vedere a questo riguardo le ormai classiche analisi  di Maritain in “Umanesimo integrale”).  Il concetto di secolarizzazione assume tuttavia significato diversi, a seconda che venga inteso come riconoscimento di una legittima autonomia  delle realtà temporali, oppure come polemica riappropriazione, secondo il modello feuerbachiano, di tutti i valori trascendenti da parte dell’uomo naturale.
Il passaggio dalla cristianità alla modernità, inteso come passaggio da un’età sacrale a un’età secolarizzata, (un’altra categoria spesso usata come sinonimo  di secolarizzazione è quella di laicità, con cui s’intende una società fondata non su valori religiosi  ma su valori profani), è di per sé indicativo del fatto che il dati puramente cronologico comporta inevitabilmente un significato assiologico-valutativo. La cultura moderna è stata del resto anche il teatro della controversia tra i “modernisti” e gli “antimodernisti”, nel senso che i primi vedevano nella modernità secolarizzata l’uscita da una condizione di “minorità” (tema caro all’illuminismo), mentre i secondi alla secolarizzazione apportata dalla modernità contrapponevano il ritorno ai valori religiosi della cristianità.
La nozione di secolarizzazione è venuta assumendo, in quanto connotativa di alcuni aspetti tipici della modernità, due principali accezioni. La prima, anche in ordine di tempo, è quella di carattere economico-giuridico. Questo significato di secolarizzazione è da porre in relazione alla politica delle confische dei beni ecclesiastici, adottata da molti Stati moderni. Nel corso della cristianità medievale, la Chiesa era diventata nel tempo un vero e proprio soggetto giuridicamente legittimato e protetto, anche attraverso la legittimazione e protezione delle sue proprietà materiali, peraltro nate spesso con finalità caritative e assistenziali. Gli Stati moderni, trovandosi spesso di fronte alla trasformazione del carattere caritativo-assistenziale dei beni e delle proprietà della Chiesa, diventate in molti casi delle vere e proprie rendite, confiscano tali beni e tali proprietà per fronteggiare le loro crescenti esigenze economiche, politiche e militari. Questo primo significato della secolarizzazione è dunque connesso al cambiamento dello ”status” dei beni  materiali della Chiesa, i quali, diventando di proprietà dello Stato, vengono appunto “secolarizzati”. A questo significato economico-giuridico, nei termini del diritto canonico, corrisponde l’uso del concetto di secolarizzazione per indicare un religioso, o comunque un membro della gerarchia ecclesiastica, che abbandona  il suo “status” religioso per  ritornare allo stato “secolare”.
Questo significato economico-giuridico (giuridico anche nel senso del diritto canonico) di secolarizzazione, viene quindi esteso a contesti sempre più ampi, fino a indicare  un processo culturale che si caratterizza come rottura rispetto soprattutto all’universo culturale della cristianità medievale. La cultura del medioevo si esprime infatti in modo completo nelle “Summae”, che sono una sorta di enciclopedie del sapere ordinate alla luce della sapienza teologica. Le scoperte d cui va fiera la cultura moderna sono invece frutto di un sapere e di una scienza di carattere “profano”. Le questioni religiose (Dio, l’anima, la vita eterna…) non vengono, almeno inizialmente, criticate, ma sono considerate inutili in relazione ai fenomeni dell’universo visibile, per i quali le conoscenze scientifiche sono ritenute totalmente autosufficienti. Questa posizione filosofica, fin dal ‘600, fu chiamata “deismo”.
Mentre l’”homo religiosus”, nell’Occidente cristiano, ha prodotto la cristianità, intesa in tutta a articolazione delle sue dimensioni storico-culturali, l’”homo positivus” della modernità, formatosi intellettualmente sui parametri delle nuove scoperte scientifiche e del nuovo sapere profano, ceca di costruire una società in cui la religione non sia – almeno inizialmente – rinnegata, ma riportata dalla sfera trascendente a quella intramondana.
Il modello in cui si attua in modo radicale la secolarizzazione, intesa come fenomeno di riappropriazione da parte dell’uomo naturale di ogni valore trascendente, è costituito dal pensiero di L. Feuerbach, che ci fornisce lo schema volgarizzato di un modello culturale che si collega a molti motivi illuministici, e che troverà in seguito molti altri sostenitori., quali tutto il filone del pensiero marxista e positivista. Per Feuerbach, occorre che l’uomo si trasformi da teologo in antropologo, da teofilo in filantropo, da cultore dell’al di à in auto sciente cittadino della terra (cfr. “Essenza della religione”, Laterza, Roma-Bari, 1981). Per Feuerbach non ci sono infatti valori che trascendono  l’orizzonte della matura e della storia umana,  poiché i valori soprannaturali e trascendenti non sono altro che gli stessi valori naturali di cui gli uomini si sono in modo spontaneo, attraverso le proiezioni della coscienza religiosa, espropriati, e di cui devono di conseguenza riappropriarsi.»

Insomma, per Feuerbach, e per tutto il successivo paradigma della modernità, o si è cittadini della terra, o si è dei poveri alienati, perché l'uomo non potrà mai essere un “cittadino del cielo”; la cosa – per la cultura moderna – è assurda in se stessa. Ed è assurda per una ragione molto semplice: che avendo decretato, in base al culto del Progresso, che tutto il sapere precedente era un non-sapere, un errore carico di tragiche conseguenze, anche la credenza in Dio e nell'anima immortale erano parte di quell'errore, e nessun intellettuale degno di rispetto avrebbe ancora osato ragionare in base ad esse: tanto potente è il ricatto intellettuale di un nuovo paradigma.
L'uomo moderno, dunque, ritiene di doversi riappropriare di qualcosa che gli è stato tolto: della sua ragione, innanzitutto (uscendo dal famoso stato di “minorità” di cui parla Kant), ma anche del pieno esercizio e godimento della vita terrena, che la cultura cristiana gli aveva inibito e avvelenato; egli si percepisce, dunque, come chi si renda conto di essere stato lungamente truffato e ingannato, lungamente sfruttato e tenuto in una ignoranza deliberata: da ciò una caratteristica psicologica essenziale della modernità, il risentimento. L'uomo moderno è risentito: si è riscosso dal giogo, ma freme e schiuma d'indignazione al pensiero della sua lunga e umiliante servitù; vorrebbe vendicarsi, vorrebbe farla pagare a qualcuno. Ma a chi, dal momento che Dio non esiste, ma era solo un'astuta invenzione dei preti? Non gli resta che scagliarsi sui suoi simili: a cominciare, naturalmente, da quelli che hanno la sfrontatezza di voler restare fedeli al vecchio paradigma, al vecchio modo di pensare e di sentire. La modernità si afferma mediante una guerra civile e un genocidio: quello del popolo della Vandea, nel 1793, reo di non avere accolto gioiosamente la “lieta novella” della modernità: che Dio non esiste, che i preti e i signori sono il Nemico, e che bisogna marciare al grido di “Liberté, fraternité, egalité”, se necessario a colpi di ghigliottina.
Oggi che il vecchio paradigma è stato gettato nella polvere, sono solo pochi “intellettuali” di seconda o terza fila ad infierire ancora contro di esso (i redattori di “Charlie Hebdo” in Francia; in Italia, i vari Odifreddi, e, in maniera più subdola e strisciante, i vari Augias); ma il grosso non perde tempo, né si attarda in simili esercizi. Ha in mente un obiettivo molto più ambizioso: stravolgere dall'interno il vecchio paradigma, demolire dall'interno quel che resta del cristianesimo. Lavoro “sporco” che essi preferiscono lasciare ai volonterosi e utili idioti che si autodefiniscono “cattolici di sinistra” o “cattolici progressisti”. La cosa è arrivata già a buon punto. E quando sarà stata completata, che bisogno vi sarà di combattere ancora il cristianesimo? Esso avrà già cessato di esistere, senza speranza di resurrezione (umanamente parlando): grazie agli Hans Kung, ai Vito Mancuso, ma anche a migliaia di preti, vescovi e laici che hanno appiattito e azzerato il Vangelo sul metro della modernità, credendo di “aggiornare” e “modernizzare” il cristianesimo, e – invece - tradendone sia la forma, che la sostanza vitale: in nome del dio Progresso. A quel punto, il progetto massonico e totalitario della modernità occidentale non troverà più ostacoli: almeno al suo interno... 

La modernità è l’epoca della secolarizzazione, cioè dell’allontanamento dell’uomo da Dio

di Francesco Lamendola

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