ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 5 febbraio 2016

Si riconoscono e si piacciono

IL COMUNISMO SI FA CATTOLICO

Il comunismo ideologia reazionaria che per sopravvivere si fa cattolica. I marxisti hanno parassitato il cattolicesimo trovando una nuova casa più rispettabile, un nuovo pulpito che li fa sentire come prima moralmente superiori 
di Francesco Lamendola  



Qualcuno potrebbe essere così ingenuo da chiedersi dove sono finiti quei milioni di “compagni” marxisti i quali, fino a tre decenni or sono, tenevano banco sulla scena politica e culturale di mezzo mondo, profetizzando la loro imminente vittoria anche nella restante metà; e che, in Italia, costituivano ancora lo zoccolo duro dell’intellighenzia, e che, a un certo punto, nel 1984, erano riusciti ad effettuare il “sorpasso” sui democristiani, diventando il primo partito politico d’Italia, anche se per una effimera stagione.
Sarebbe davvero una grossa ingenuità, come sarebbe una grossa ingenuità chiedersi dove siano finiti quei milioni di “camerati” che affollavano le piazze del Bel Paese per ascoltare la voce di Benito Mussolini, ma che, dopo il 25 luglio del 1943, evaporarono come nebbia al sole e poi riapparvero, con altra tessera di partito e ben altre credenziali politiche, dopo il 25 aprile del 1945 (almeno nell’Italia Settentrionale, dove ci fu la vicenda della Repubblica di Salò; perché nell’Italia Meridionale non ebbero bisogno di aspettare così tanto, fecero tutti il salto della quaglia fin dall’indomani dell’8 settembre 1943, mettendosi saggiamente sotto l’ala protettiva dei “liberatori” angloamericani.
Fra le due metamorfosi c’è una sola differenza, non piccola, ma dovuta alle circostanze esterne: che mentre il fascismo crollò per implosione interna e poi fu debellato con la violenza spaventosa di una guerra mondiale e di una guerra civile, il comunismo, almeno in Italia, fece finta di non essere mai crollato, quindi non si vide costretto ad alcun esame di coscienza, ad alcun ”redde rationem”, e pertanto fu più facile, per i suoi seguaci, transitare verso altri lidi ideologici senza il fardello e l’imbarazzo di una sconfitta bruciante sul groppone, anzi, conservando la stessa superbia intellettuale e la stessa arroganza moralistica, la stessa pretesa di essere non solo invitti, ma anche eticamente superiori a chiunque altro, come se la Storia, con la maiuscola, avesse dato loro ragione (e non torto marcio, come in realtà è stato).
Qualcuno, per caso, ha visto Toni Negri, o Adriano Sofri, o Massimo Cacciari, fare una bella e lunga autocritica, una sincera ammissione d’aver sbagliato tutto, un riconoscimento del valore delle idee, delle istituzioni e delle persone che avevano combattuto con tanto accanimento? La loro presunzione è rimasta intatta; la buona occasione per un bagno di umiltà è andata sprecata: ed eccoli di nuovo in cattedra a pontificare, come prima e più di prima, non importa se con qualche incoerenza rispetto a prima (invocando, ad esempio, i bombardamenti americani su Belgrado nel 1999, beninteso per ragioni “umanitarie” e non bassamente politiche); scrivono sui maggiori quotidiani e periodici, parlano alla radio e alla televisione, stampano libri con le maggiori case editrici, senza un attimo di sosta. Il loro presenzialismo è logorroico, quasi ossessivo. E questo è stato possibile per una ragione molto semplice: dismessi i rudi panni dei “compagni” alla Peppone, sono corsi a prenotarsi nella spaziosa sacrestia di don Camillo, dove si respira, insieme al profumo d’incenso e di candele, anche quello d’un buonismo universalistico a prova di bomba.
Vale la pena di rileggersi una pagina oggi dimenticata dei quel geniale outsider del giornalismo italiano che fu Mario Missiroli; (Bologna, 1886-Roma, 1974), tratta dal suo primo libro: «Monarchia socialista», che fu pubblicato nel 1913 dall’editore Laterza, con l’alto patrocinio di Benedetto Croce, pur incontrando le critiche di Giovanni Gentile; vi si parla dei primi anni del Novecento e dell’opera politica di Giovanni Giolitti, ma sembra che si parli dei nostri giorni e di Matteo Renzi (ristampa: Cappelli Editore, 1974, 112-115):

«Il capolavoro giolittiano è compiuto. I partiti sono distrutti una seconda volta. Ma Giolitti non ripeterà l’errore di Crispi e di Umberto. L’esperienza lo ammaestra. Egli sa che non si può passare sopra al Parlamento; egli sa che il Paese vuole illudersi di comandare a se stesso. Bisogna quindi simulare. Simulare, simulare, simulare. Se i partiti politici non esisto, bisogna rappresentarli come in una lanterna magica.  Egli è l’enorme giocoliere. Egli li rappresenterà tutti. Ad uno ad uno. Sarà socialista, poi clericale, poi clerico-moderato, poi radicale, poi reazionario, poi socialista, poi nazionalista, poi radicale e socialista. Il Paese applaudita di volta in volta i propri deputati, che recitano a Montecitorio, credendosi attori, e non sono che comparse, crederà ad una rotazione di partiti, si illuminerà di gioia a tutte le battaglie parlamentari, senza feriti e senza morti, crederà di mettere in fuga la reazione e la rivoluzione, crederà a se stesso, e non sarà che premunì fenomeno di ottica e di credulità. È la fata morgana.
In dieci anni egli ha ucciso l’anima nazionale, ma ha salvato la monarchia.
Ma v’è una farsa, una commedia, un’ironia diabolica in fondo a questo capolavoro. Nessun capitolo la denuncia e la segnala. Non scritta, ma si legge fra le righe. È l’ironia democratica. Bisogna avere la mentalità quaternaria dei vecchi moderati per tenere in Giolitti il pericolo democratico. Tutta la politica di Giolitti, nella sua ultima fase è certamente socialista, ma bisogna ignorare l’intima essenza del socialismo per temerlo come un pericolo rivoluzionario. Il socialismo – chiedo grazia della dimostrazione, data la natura di questo studio, che vuole essere puramente un saggio di critica religiosa – è, nella sua logica, eminentemente reazionario, se per libertà politica s’intende quella del liberalismo moderno, che è la teoria della libertà e del’eguaglianza fondata sui meriti e sullo sforzo individuale, la dottrina che concepisce lo spirito come stria, e nega tutti gli apriorismi dottrinari del’uomo astratto per riconoscerli solo nel cittadino. La sua più alta manifestazione storica è la distruzione delle classi, che compie la negazione aristocratica, brillata per la rima volta nel cristianesimo. Il socialismo, invece, negando il cittadino nel lavoratore, lo Stato nella classe, l’università del pensiero nell’internazionalismo, costituisce un regresso di secoli, dal punto di vista della storia. Rousseau è tuttora un futuro. Ecco perché il socialismo è destinato, nella società contemporanea, a costituire la barriera formidabile contro tutte le idee veramente progressive e universalistiche, siano esse liberali o cattoliche. Ecco perché il socialismo sarà per molto tempo ancora rimorchiato dalla democrazia radicale e il conservatorismo dal cattolicismo. Tutte le opposizioni tendono a polarizzarsi verso i due principi estremi e il socialismo non è ancora – e non sarà mai – un principio che possa uscire dalle due affermazioni assolute dell’idea liberale e dell’idea cattolica. Il socialismo diverrà cattolico o non sarà, o sparirà come un effimero movimento di plebe. Molti sintomi lo fanno supporre: fra tutti il principio di cui vive l’organizzazione operaia, che si compendia ne sacrificio e nello sfruttamento quotidiano dei migliori a beneficio dei peggiori, che dovrebbero essere eliminati dalla produzione, se questa si svolgesse nel libero gioco della concorrenza. Questo sacrificio della parte più eletta del proletariato, immoralissimo dal punto di vista della produzione e dell’individualismo liberale, assume un altissimo valore morale se lo si riguarda da un punto di vista religioso, in quanto realizza ancora una volta la formula messianica del progresso, insegnata da Gesù crocifisso. Aspettate.
Qualunque sia l’avvenire, è indubitato che oggi il socialismo rappresenta un diversivo, una mora al liberalismo. Questo solo, teme la monarchia in Italia. Il socialismo, pertanto, spostando i partiti dalla politica all’economia, negando lo Stato, disinteressandosi del problema delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa, permette alla monarchia di proseguire, nascondendo il vizio di origine dello Stato italiano, del quale vive.
Una rinascita dei partiti sarebbe oltremodo pericolosa: la monarchia largheggia in riforme sociali e largisce il suffragio universale. […]
Il suffragio universale n on è un’idea, essendo già contenuto, idealmente, nel costituzionalismo. La monarchia lo può concedere impunemente, senza uscire dai suoi principî. Il suffragio universale non fu mai una leva rivoluzionaria. Nel secondo impero giovò a Napoleone, in Germania non spostò di una sola linea la politica di Bismarck, in Austria alleò i socialisti alla monarchia. Il suffragio universale è indifferente al progresso, è incapace di portare qualsiasi miglioramento alle condizioni di fatto esistenti. Il un Paese progredito agevola il progresso, in un Paese corrotto aggrava le miserie…»

Il comunismo, come osserva Missiroli (lui parla ancora del “socialismo”, poiché scrive nel 1913, otto anni prima del Congresso di Livorno), è una ideologia reazionaria, perché combatte la libertà che rende possibile l’affermazione dei migliori, e vuole imporre all’intera società la camicia di forza di un egualitarismo che equivale, in pratica, al dominio istituzionalizzato dei peggiori, alla inibizione permanente dell’iniziativa economica e ad una regressione storica secolare, negando lo Stato in nome della classe, e negando il cittadino in nome del lavoratore. Ora, questa ideologia reazionaria non può sopravvivere indefinitamente, perché troppo contraria al sentire degli esseri umani, che è sete di libertà (e anche di libera iniziativa sul piano economico) e che non tollera di vedere gli individui meno capaci, meno laboriosi e meno generosi, imporre un regime tirannico con la scusa della “giustizia” sociale; e non può sopravvivere anche perché le manca una idea veramente universalistica, ossia che possa essere fatta propria da ogni essere umano (e non solo da chi è animato da invidia e rancore sociale). Come fare, allora? La risposta ce la stanno offrendo le vicende politiche e culturali di questi ultimi anni: per riuscire a sopravvivere, il comunismo deve cessare di presentarsi come tale, e deve individuare una ideologia che sia davvero universalistica, penetrare al suo interno, parassitarla, e mutuare le sue parole d’ordine e la sua tavola di valori. Orbene, questa ideologia il comunismo l’ha trovata nel cattolicesimo.
Il cattolicesimo, a sua volta, non in quanto religione, ma in quanto ideologia sociale e politica (e non è un caso che i papi, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si siano tenacemente opposti alla nascita di un partito cattolico italiano e anche di un vero e proprio movimento sociale: duemila anni di esperienza li avevano messi in guardia sulle possibili conseguenze di ciò), ha sempre avuto, fin dalle origini, una doppia anima: conservatrice e progressista. Alle origini della questione del cattolicesimo sociale troviamo, schierati su due barricate opposte, De Maistre e Lamennais. Ma i progressisti sono sempre in vantaggio sui conservatori, perché la civiltà moderna si basa sull’idea e sulla pratica del progresso, specialmente tecnologico: era inevitabile, pertanto, che il cattolicesimo progressista finisse per conquistare una posizione dopo l’altra, fino a impadronirsi di gran parte dello spazio esistente all’interno della galassia cattolica, Chiesa e gerarchia vaticana comprese. Guarda caso, i cattolici progressisti sono proprio i “cugini” che possono offrire ricetto e ospitalità ai transfughi del marxismo, senza bisogno che questi ultimi subiscano l’umiliazione di abiurare le loro precedenti convinzioni. Li accolgono così come sono, anzi: vedono nella loro militanza marxista un valore aggiunto, una garanzia di serietà nell’impegno sociale. Un cattolico progressista e un marxista si fiutano a prima vista: si riconoscono e si piacciono. Son fatti per intendersi.
Abbiamo detto che i marxisti hanno parassitato il cattolicesimo; dobbiamo correggerci: si tratta, piuttosto, di una simbiosi, di una felice simbiosi, nella quale entrambi trovano il loro vantaggio. I marxisti trovano una nuova casa, più rispettabile, e un nuovo pulpito, che li fa sentire, come prima e più di prima, moralmente superiori a chiunque, perché più “buoni”, più “accoglienti”, più “solidali” e più “aperti”. I cattolici, a loro volta, placano il loro bruciante senso d’inferiorità rispetto alle ideologie moderne che si “sporcano le mani” nel progetto di creare una umanità nuova; sopiscono i rimorsi per la loro cattiva coscienza storica (l’aver sostenuto, troppo spesso, le classi dominanti e i poteri forti); si allineano con una visione “matura” del reale, ossia con una visione materialistica e immanentista (perché Dio, in tutto questo, c’entra poco). E prendono un secondo piccione con una sola fava, rimarcando le differenze con i cattolici “tradizionalisti”, che vorrebbero espellere perché li ritengono indegni non solo di dirsi veramente cattolici, in quanto poco sensibili alle questioni sociali e alla solidarietà, ma anche di dirsi veramente uomini. Il sodalizio con gli ex marxisti consente loro, in tal modo, di inserirsi da protagonisti nella svolta del terzo millennio, alla pari con le altre forze ideali del “progresso” e sbarazzandosi dei loro confratelli bigotti e oscurantisti.
Va da sé che i partiti, a questo punto – come notava Missiroli – non hanno più ragione di esistere…

Il comunismo, ideologia reazionaria che per sopravvivere si fa cattolica

di Francesco Lamendola

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