Le parole dette in libertà da papa Francesco durante il volo di ritorno dal Messico a Roma sono solo un test tra mille delle complicazioni comunicative di questo pontificato.
Di queste complicazioni Jorge Mario Bergoglio è consapevole. E in alcuni casi le governa preliminarmente, come fa ad esempio con le sue omelie mattutine, che diventano di dominio pubblico solo passato il filtro di fidati cronisti della Radio Vaticana e de "L'Osservatore Romano".
In altri casi più rari, invece, Francesco decide "sic et simpliciter" di non rendere pubblico il suo dire, anche se pronunciato davanti a un uditorio non piccolo.
È ciò che è avvenuto lo scorso 11 febbraio, alla vigilia della partenza per il Messico, quando il papa si è recato a sorpresa nella basilica di San Giovanni in Laterano a incontrare il clero romano nella tradizionale riunione d'inizio Quaresima.
Lì Francesco ha confessato dieci sacerdoti, confessandosi a sua volta da uno dei penitenzieri della basilica lateranense. E poi ha tenuto ai presenti un lungo discorso a braccio (vedi foto).
Di questo discorso non è stata diramata alcuna trascrizione ufficiale. E "L'Osservatore Romano" ne ha dato notizia soltanto in poche righe scarne.
Era però presente in basilica un cronista dell'agenzia cattolica Zenit, Salvatore Cernuzio, che ha fornito del discorso papale un resoconto ampio e accurato, messo in rete poche ore dopo:
Francesco ha dedicato quasi tutto quel suo discorso al sacramento della confessione, dando ai preti abbondanti indicazioni su come amministrarlo.
"Perché c’è il linguaggio delle parole, ma anche il linguaggio dei gesti", ha detto a un certo punto. E ha portato questo esempio:
"Quando una persona viene al confessionale, è perché sente qualcosa che non sta bene, vorrebbe cambiare o chiedere perdono, ma non sa come dirlo e diventa muto. ‘Ah, se non parli non posso darti l’assoluzione!’. No. Ha parlato con il gesto di venire, e quando una persona viene è perché non vuole, non vorrebbe fare lo stesso un’altra volta. ‘Mi prometti di non farlo?’. No, è il gesto. Alle volte lo dicono: ‘Vorrei non farlo più’, ma a volte non riescono a dirlo perché diventano muti, davanti… Ma ha fatto, lo ha detto con i gesti. E se una persona dice: ‘Io non posso promettere questo’, perché è in una situazione irreversibile, c’è un principio morale: 'ad impossibilia nemo tenetur', nessuno è tenuto a fare cose impossibili”.
Dicendo questo ai preti di Roma, Francesco non ha detto nulla di nuovo. Perché appena due giorni prima, il 9 febbraio, si era espresso quasi con le stesse parole ai missionari della misericordia, in un discorso anch'esso a braccio, ma poi diramato ufficialmente:
"Mi raccomando di capire non solo il linguaggio della parola, ma anche quello dei gesti. Se qualcuno viene da te e sente che deve togliersi qualcosa, ma forse non riesce a dirlo, ma tu capisci… e sta bene, lo dice così, col gesto di venire. Prima condizione. Seconda, è pentito. Se qualcuno viene da te è perché vorrebbe non cadere in queste situazioni, ma non osa dirlo, ha paura di dirlo e poi non poterlo fare. Ma se non lo può fare, ad impossibilia nemo tenetur. E il Signore capisce queste cose, il linguaggio dei gesti. Le braccia aperte, per capire cosa c’è dentro quel cuore che non può venire detto o detto così… un po’ è la vergogna… mi capite. Voi ricevete tutti con il linguaggio con cui possono parlare".
E quello stesso 9 febbraio aveva detto la stessissima cosa anche ai frati cappuccini, nell'omelia della messa celebrata con loro in San Pietro, anch'essa poi entrata nella documentazione ufficiale:
"Ci sono tanti linguaggi nella vita: il linguaggio della parola, anche ci sono i linguaggi dei gesti. Se una persona si avvicina a me, al confessionale, è perché sente qualcosa che gli pesa, che vuole togliersi. Forse non sa come dirlo, ma il gesto è questo. Se questa persona si avvicina è perché vorrebbe cambiare, non fare più, cambiare, essere un’altra persona, e lo dice con il gesto di avvicinarsi. Non è necessario fare delle domande: 'Ma tu, tu…?'. Se una persona viene, è perché nella sua anima vorrebbe non farlo più. Ma tante volte non possono, perché sono condizionati dalla loro psicologia, dalla loro vita, dalla loro situazione… 'Ad impossibilia nemo tenetur'".
In tutti e tre i casi, come si può notare, il linguaggio di Francesco è colloquiale e riferito a un caso specifico, concreto. È un tipico linguaggio da "ospedale da campo", piegato su una persona che si presenta ferita, timorosa, muta, con l'evidente volontà d'essere sanata, ma incapace di ottemperare a tutte le prescrizioni.
Perché in effetti le prescrizioni che rendono valido il sacramento della confessione comprendono la confessione esplicita dei peccati gravi commessi e il manifesto proposito di non commetterli più, come ribadito ad esempio da Giovanni Paolo II nell'esortazione apostolica postsinodale del 1984 "Reconciliatio et paenitentia":
"L'accusa dei peccati appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell'infermo per curarlo e guarirlo. […] Ogni peccato grave deve quindi essere sempre dichiarato, con le sue circostanze determinanti, in una confessione individuale. [...] Con questo richiamo alla dottrina e alla legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate nell'incertezza e nella confusione, come le coscienze".
Questa è la legge. Ma papa Francesco chiede ai confessori di andare allo spirito della legge stessa, quando la si vede rispettata non in superficie ma nell'intimo.
Ed è ciò che ogni confessore saggio fa da sempre.
Ma lo fa a tu per tu con il penitente, nel segreto del confessionale, non dal pulpito. Perché ciò che è chiaro nel confessionale non lo è altrettanto se detto in pubblico "erga omnes", tanto più da un papa.
È forse per questo che Francesco non ha dato il "visto si stampi" alle sue istruzioni confidenziali ai preti di Roma. Anche se inutilmente, visto ciò che due giorni prima aveva già proclamato dai tetti ai frati cappuccini.e ai confessori della misericordia.
L'effetto "incertezza e confusione" denunciato da Giovanni Paolo II, infatti, è in questi casi in agguato, come se la confessione dei peccati non fosse più necessaria, e nemmeno più tanto il sacramento della penitenza.
Tesi peraltro già sostenuta da un teologo che va per la maggiore, Andrea Grillo, che in un libretto per l'Azione Cattolica Ragazzi puntualmente rilanciato pochi giorni fa dal sito paravaticano "Il Sismografo" ha scritto:
"Occorre sempre ricordare: la assoluzione è necessaria in presenza della scomunica, motivata da colpa grave. Se non c’è scomunica non è necessaria la assoluzione: la preghiera comune, la benedizione o il consiglio prudente possono essere le parole più adeguate a situazioni di questo genere".
Settimo Cielo di Sandro Magister 01 mar http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/01/confessare-in-un-ospedale-da-campo-i-consigli-semisegreti-di-francesco/“Normalizzato” il peccato, l’uomo è senza speranza
01-03-2016
Il ventisettesimo “Corso sul Foro Interno” presso la Penitenzieria Apostolica si è aperto ieri pomeriggio con la Lectio magistralisdel Penitenziere Maggiore cardinale Mauro Piacenza. Il corso risulta di particolare attualità per almeno due motivi: l'Anno giubilare della Misericordia, in cui un ruolo centrale non può che spettare al sacramento della Confessione, e poi l'ormai prossima pubblicazione dell'esortazione post-sinodale di papa Francesco, che dovrebbe riprendere anche il tema del Foro interno come via pastorale per l'accesso dei divorziati risposati al sacramento della Eucaristia.
Come sappiamo la Relatio Synodi 2015 aveva prospettato, al paragrafo 86, che «il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. FC, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa». Con queste parole i padri sinodali avevano tracciato l'orizzonte finale di un percorso pastorale per i divorziati risposati, dopo aver assai discusso dentro l'Aula nuova del doppio Sinodo sulla famiglia.
Quando si parla di “foro interno” si fa riferimento, ovviamente, al sacramento della Riconciliazione, un sacramento da molti ritenuto in profonda crisi. E di sacramento della Riconciliazione da «mettere al centro» ha parlato ieri il cardinale Piacenza rivolgendosi ai partecipanti al corso. «In un contesto che nega Cristo», ha detto il cardinale, «è urgente riaffermare la verità dell'Incarnazione e l'unicità del valore salvifico della Croce. In un contesto che canonizza il mondo, è necessario riscoprire l'irriducibile differenza giovannea tra Chiesa e mondo, nella umile e lucida accettazione del fatto che “gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce” (Gv 3, 19). Di fronte alla menzogna riguardo al peccato, emerge l'esigenza di educare gli uomini a chiamare le cose con il proprio nome, senza ambiguità». Bisogna fuggire, ha detto il cardinale, la «normalizzazione del peccato», cioè la sua «giustificazione sociale, la riduzione psicologica della libertà umana, la de-responsabilizzazione rispetto ai propri atti, che sarebbero indeterminatamente condizionati da altro... Tutte teorie rivelatesi inadeguate alla dignità umana».
Da queste parole risulta abbastanza chiaro che il “colloquio in foro interno”, così come indicava anche il paragrafo n°86 della Relatio Synodi, non può prescindere «dalle esigenze di verità e carità del Vangelo proposte dalla Chiesa». Non può di certo essere inteso come una specie di seduta di analisi, né come una sorta di bonaria pacca sulla spalla, o una ratifica, senza conversione, di atti oggettivamente in contrasto con la legge di Dio. A chi vorrebbe normalizzare il peccato, conclude Piacenza, «rispondiamo mettendo al centro il sacramento della Confessione. Nel sacramento della Confessione è sconfitta quella radicale solitudine che l'uomo prova nel suo peccato, che l'uomo vive in un mondo falsamente perfetto, che l'uomo vive ogni volta Cristo è negato».
La radice profonda di questa “normalizzazione” ha una sua tragica realtà, perché ontologicamente, spiega il cardinale, «significa rendere superflua la Croce, ridurla a un mero atto di autodeterminazione non violenta, senza alcun valore, né sacrificale, né espiatorio». Ecco la negazione di Cristo che porta alla solitudine dell'uomo: incapace di darsi la salvezza da sè, incapace di uscire con le sue sole forze dalle sacche del proprio egoismo, e così, infine, incapace di accogliere quella misericordia che stiamo giustamente celebrando nell'anno giubilare.
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-normalizzato-il-peccato-luomo-e-senza-speranza-15402.htm
Müller, Sinodo. Niente compromessi.
In
due interviste il Prefetto della Fede ricorda che l'insegnamento della
Chiesa "non è mio, è qualche cosa che ci è stato dato". Imminente
l'Esortazione apostolica sulla famiglia. Al Papa sono giunte centinaia
di osservazioni e correzioni dagli specialisti.
Nelle
prossime settimane – forse per la festa di San Giuseppe – dovrebbe
essere pubblicata l’Esortazione post-sinodale del Pontefice in relazione
alla famiglia e ai problemi ad essa collegati.
Il
tema è stato oggetto di due Sinodi dei vescovi, uno straordinario e uno
ordinario, nel 2014 e nel 2015; ed è stato il campo di battaglia di
visioni opposte sulla possibilità, e come, di ammettere i divorziati
risposati ai sacramenti.
L’impianto
del testo, in cui ha giocato un ruolo importante il rettore
dell’Università Cattolica di Buenos Aires, oltre a suoi consiglieri
romani e a un teologo del Nord Italia, è stato preparato secondo alcuni
già nell’estate del 2015, prima della seconda tornata sinodale. E
naturalmente è stato aggiornato dopo ottobre.
Informazioni
confidenziali provenienti da ambienti vicini alla Segreteria del Sinodo
parlano di una grande quantità di osservazioni pervenute ai curatori
del documento prima da parte del Teologo della Casa Pontificia, il
domenicano polacco Wojciech Giertych, e poi dalla Congregazione della
Dottrina della Fede. Questa da sola avrebbe presentato più di duecento
osservazioni e correzioni. Sarebbe interessante vedere quanto di questa
opera di limatura abbia trovato posto nell’Esortazione. In particolare
in relazione al problema dei sacraenti per i divorziati risposati.
Ė
significativo però che proprio in questi giorni il Prefetto della
Congregazione della Fede, il cardinale Müller in due distinte interviste
abbia trattato l’argomento in termini che sembrano di appoggio alla
tradizione, più che alle teorie del card. Kasper e dei vescovi tedeschi.
In un’intervista del 27 febbraio a Domradio.de, la stazione radio della
diocesi di Colonia, ha detto che “l’insegnamento della Chiesa non è mia
proprietà, è qualcosa che ci è stato dato”, e che il nostro compito “è
parlare chiaramente dell’insegnamento della Chiesa, del dogma che Dio ci
ha rivelato”.
L’indissolubilità
del matrimonio, ha detto, è un dogma, e “non ci può essere un secondo
matrimonio. Come possiamo fare compromessi con la Parola di Dio”. Il
giorno seguente al Kölner Stadt-Anzeiger ha detto che “non possiamo fare
compromessi con i quali noi uomini trasformeremmo la chiara parola di
Dio in qualche cosa di vago”.
A
un’altra domanda del giornale, ha ricordato la Familiaris Consortio, di
Giovanni Paolo II, secondo cui i divorziati risposati possono accedere
ai sacramenti se vivono come fratello e sorella. L’intervistatore gli ha
ricordato che secondo il card. Marx questa soluzione pare impossibile.
Müller ha risposto che sembrava impossibile anche agli apostoli, quando
Gesù ne parlò; ma “quello che appare impossibile agli uomini è possibile
con la grazia di Dio”.
Il ventisettesimo “Corso sul Foro Interno” presso la Penitenzieria Apostolica si è aperto ieri pomeriggio con la Lectio magistralisdel Penitenziere Maggiore cardinale Mauro Piacenza. Il corso risulta di particolare attualità per almeno due motivi: l'Anno giubilare della Misericordia, in cui un ruolo centrale non può che spettare al sacramento della Confessione, e poi l'ormai prossima pubblicazione dell'esortazione post-sinodale di papa Francesco, che dovrebbe riprendere anche il tema del Foro interno come via pastorale per l'accesso dei divorziati risposati al sacramento della Eucaristia.
Come sappiamo la Relatio Synodi 2015 aveva prospettato, al paragrafo 86, che «il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. FC, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa». Con queste parole i padri sinodali avevano tracciato l'orizzonte finale di un percorso pastorale per i divorziati risposati, dopo aver assai discusso dentro l'Aula nuova del doppio Sinodo sulla famiglia.
Quando si parla di “foro interno” si fa riferimento, ovviamente, al sacramento della Riconciliazione, un sacramento da molti ritenuto in profonda crisi. E di sacramento della Riconciliazione da «mettere al centro» ha parlato ieri il cardinale Piacenza rivolgendosi ai partecipanti al corso. «In un contesto che nega Cristo», ha detto il cardinale, «è urgente riaffermare la verità dell'Incarnazione e l'unicità del valore salvifico della Croce. In un contesto che canonizza il mondo, è necessario riscoprire l'irriducibile differenza giovannea tra Chiesa e mondo, nella umile e lucida accettazione del fatto che “gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce” (Gv 3, 19). Di fronte alla menzogna riguardo al peccato, emerge l'esigenza di educare gli uomini a chiamare le cose con il proprio nome, senza ambiguità». Bisogna fuggire, ha detto il cardinale, la «normalizzazione del peccato», cioè la sua «giustificazione sociale, la riduzione psicologica della libertà umana, la de-responsabilizzazione rispetto ai propri atti, che sarebbero indeterminatamente condizionati da altro... Tutte teorie rivelatesi inadeguate alla dignità umana».
Da queste parole risulta abbastanza chiaro che il “colloquio in foro interno”, così come indicava anche il paragrafo n°86 della Relatio Synodi, non può prescindere «dalle esigenze di verità e carità del Vangelo proposte dalla Chiesa». Non può di certo essere inteso come una specie di seduta di analisi, né come una sorta di bonaria pacca sulla spalla, o una ratifica, senza conversione, di atti oggettivamente in contrasto con la legge di Dio. A chi vorrebbe normalizzare il peccato, conclude Piacenza, «rispondiamo mettendo al centro il sacramento della Confessione. Nel sacramento della Confessione è sconfitta quella radicale solitudine che l'uomo prova nel suo peccato, che l'uomo vive in un mondo falsamente perfetto, che l'uomo vive ogni volta Cristo è negato».
La radice profonda di questa “normalizzazione” ha una sua tragica realtà, perché ontologicamente, spiega il cardinale, «significa rendere superflua la Croce, ridurla a un mero atto di autodeterminazione non violenta, senza alcun valore, né sacrificale, né espiatorio». Ecco la negazione di Cristo che porta alla solitudine dell'uomo: incapace di darsi la salvezza da sè, incapace di uscire con le sue sole forze dalle sacche del proprio egoismo, e così, infine, incapace di accogliere quella misericordia che stiamo giustamente celebrando nell'anno giubilare.
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-normalizzato-il-peccato-luomo-e-senza-speranza-15402.htm
Müller, Sinodo. Niente compromessi.
In
due interviste il Prefetto della Fede ricorda che l'insegnamento della
Chiesa "non è mio, è qualche cosa che ci è stato dato". Imminente
l'Esortazione apostolica sulla famiglia. Al Papa sono giunte centinaia
di osservazioni e correzioni dagli specialisti.
Nelle
prossime settimane – forse per la festa di San Giuseppe – dovrebbe
essere pubblicata l’Esortazione post-sinodale del Pontefice in relazione
alla famiglia e ai problemi ad essa collegati.
Il
tema è stato oggetto di due Sinodi dei vescovi, uno straordinario e uno
ordinario, nel 2014 e nel 2015; ed è stato il campo di battaglia di
visioni opposte sulla possibilità, e come, di ammettere i divorziati
risposati ai sacramenti.
L’impianto
del testo, in cui ha giocato un ruolo importante il rettore
dell’Università Cattolica di Buenos Aires, oltre a suoi consiglieri
romani e a un teologo del Nord Italia, è stato preparato secondo alcuni
già nell’estate del 2015, prima della seconda tornata sinodale. E
naturalmente è stato aggiornato dopo ottobre.
Informazioni
confidenziali provenienti da ambienti vicini alla Segreteria del Sinodo
parlano di una grande quantità di osservazioni pervenute ai curatori
del documento prima da parte del Teologo della Casa Pontificia, il
domenicano polacco Wojciech Giertych, e poi dalla Congregazione della
Dottrina della Fede. Questa da sola avrebbe presentato più di duecento
osservazioni e correzioni. Sarebbe interessante vedere quanto di questa
opera di limatura abbia trovato posto nell’Esortazione. In particolare
in relazione al problema dei sacraenti per i divorziati risposati.
Ė
significativo però che proprio in questi giorni il Prefetto della
Congregazione della Fede, il cardinale Müller in due distinte interviste
abbia trattato l’argomento in termini che sembrano di appoggio alla
tradizione, più che alle teorie del card. Kasper e dei vescovi tedeschi.
In un’intervista del 27 febbraio a Domradio.de, la stazione radio della
diocesi di Colonia, ha detto che “l’insegnamento della Chiesa non è mia
proprietà, è qualcosa che ci è stato dato”, e che il nostro compito “è
parlare chiaramente dell’insegnamento della Chiesa, del dogma che Dio ci
ha rivelato”.
L’indissolubilità
del matrimonio, ha detto, è un dogma, e “non ci può essere un secondo
matrimonio. Come possiamo fare compromessi con la Parola di Dio”. Il
giorno seguente al Kölner Stadt-Anzeiger ha detto che “non possiamo fare
compromessi con i quali noi uomini trasformeremmo la chiara parola di
Dio in qualche cosa di vago”.
A
un’altra domanda del giornale, ha ricordato la Familiaris Consortio, di
Giovanni Paolo II, secondo cui i divorziati risposati possono accedere
ai sacramenti se vivono come fratello e sorella. L’intervistatore gli ha
ricordato che secondo il card. Marx questa soluzione pare impossibile.
Müller ha risposto che sembrava impossibile anche agli apostoli, quando
Gesù ne parlò; ma “quello che appare impossibile agli uomini è possibile
con la grazia di Dio”.
togliamoci le fette di salame dagli occhi: la falsa chiesa vaticansecondista ha perso il Sacerdozio! Il Signore lo sta facendo capire chiaramente, si potrebbe dire che lo stia urlando a perdifiato: "Non mi rappresentano, non hanno alcun potere, non sono dei miei, fuggiteli e mettetevi in salvo!"
RispondiEliminaForse papa Bergoglio intendeva riferirsi a penitenti sordomuti, e stava invitando i penitenzieri a destreggiarsi nell'interpretare la lingua dei segni...
RispondiEliminaMarisa