Tre anni di “bergoglionate”
I papolatri bergogliosi festeggiano tre anni di “bergoglionate”.
Non volevamo, davvero non volevamo, ma quando ti tirano per i capelli a letture esasperanti, e giacché parlano di “noi” delle membra della Chiesa se non della Chiesa stessa quale “oggetto” da modificare e non quale “soggetto” che, come professiamo nel Credo, santifica chi l’accoglie e chi la segue, è ovvio allora che dobbiamo rispondere a certe provocazioni.
I Media fanno a gara per evocare, rievocare, tre anni di questo pontificato e, furbescamente Radio Vaticana cerca di fare un articolo atto a sottolineare proprio le tante anomalie che abbiamo riscontrato attraverso i molti articoli che vi abbiamo offerto. Infatti Radio Vaticana – vedi qui – pone l’accento ad una giusta condanna di certa papolatria la quale, scrive “è contro Francesco”, ma allora quando parliamo di papolatria in atto avevamo ragione noi a lanciare l’allarme, ma non pochi bergogliosi o bergogliani ci accusavano di falsità, i vari Media presunti cattolici o vaticanisti di sinistra dicevano che non esisteva affatto una papolatria, ma se non esiste o non esisteva perché Radio Vaticana la impone come allarme nell’articolo?
L’articolo in questione riporta le parole di tale Burini di TV2000 che denuncia: “Stiamo attenti perciò a fare il monumento a Bergoglio anzitempo. Sia perché sappiamo che fine fanno i monumenti nelle piazze, sia perché sarebbe particolarmente controproducente, specie in ambito mediatico, rispetto a un Pontefice che sta portando avanti un ministero ‘centrifugo’ , di ‘uscita’, che condanna l’autoreferenzialità”.
Parole giustissime che vanno però a cozzare con quella papolatria mediatica tipica anche di TV2000 che non perde occasione per innalzare monumenti a Bergoglio in ogni piazza “mediatica”, insomma ci vuole solo onestà mentale per capire che la TV presunta-cattolica contraddice se stessa e si prospetta con una sorta di autoreferenzialità inaudita dove non c’è spazio per il contraddittorio (se per contraddittorio ci si azzarda a criticare le scelte di questo Papa), e dove la più penalizzata ne esce come sempre la DOTTRINA della Chiesa, l’unica che dovrebbe mantenere non l’auto, ma la “referenzialità” giacché non le viene dagli uomini ma da Dio.
Insomma siamo all’ennesimo: “me la canto e me la suono”, tipico di una autoreferenzialità tipica di questi tempi strani dove – nel mentre si predica misericordia, accoglienza, tolleranza, dialogo, e quant’altro – tutto ciò, da tre anni a questa parte, è semplicemente e vistosamente negato a quanti si azzardassero a criticare alcune scelte di questo pontificato, o comunque anche solo a discuterle, rischiando sovente un linciaggio mediatico e, soprattutto, la chiusura di questi spazi mediatici alle loro critiche.
Venendo al sodo: tre anni di questo pontificato, cosa abbiamo da festeggiare? È questo che non si comprende, o se preferite, che non comprendiamo.
Se è dai frutti che “li riconosciamo” qualcuno, di grazia, ci può indicare i frutti di questi tre anni? Grazie. Sentiamo e leggiamo spesso di lodi e onori, ma nessuno che sa dirci per cosa, al contrario purtroppo, i tanti elogi di questo pontificato, ruotano attorno a molte eresie pronunciate dai parroci che hanno fatto delle proprie parrocchie il loro quartier generale di potere, superando persino il Papa stesso nelle intenzioni. O meglio, il Papa Francesco getta l’idea con le sue frasi ambigue e certi parroci le traducono direttamente in eresia.
Qualche esempio? La comunione ai divorziati risposati “non è possibile” così si è espressoEl Papa, ma poiché una volta la dice chiara e un’altra volta la dice in modo ambiguo, i Media lo interpretano a proprio vantaggio, El Papa li lascia fare e i parroci lo mettono in pratica nella versione eretica. Così come è a riguardo della famiglia, si possono provare molti interventi anche vocali del Papa in cui difende la famiglia biblicamente e naturalmente intesa tra un uomo e una donna, ma poi il suo non agire contro il peccato che sta distruggendo la Famiglia – o l’abbracciare con affetto e compiacimento coppie omosessuali conviventi – fa dire ai Media sinistroidi che il Papa abbraccia anche le nuove famiglie (ma sappiamo che non è vero), e così i parroci mettono in pratica cose che il Papa non ha mai detto, ma che il suo tacere, a talvolta i suoi gesti plateali, fa pensare ad un compromesso, ad una tacita approvazione.
E avanti così perché di prove ce ne sono molte. Il problema di questi tre anni di Pontificato sta nell’ambiguità e nella confusione che hanno avvolto la Chiesa all’interno di una spirale di autodemolizione, come aveva profetizzato lo stesso Paolo VI di cui Francesco si sente mentore, di cui questo Papa è, purtroppo, l’artefice e il responsabile principale e non perché lui sia un eretico, ma perché non chiarisce, perché da buon gesuita che si rispetti egli ama l’ambiguità perché laddove la confusione cresce e si alimenta, Bergoglio lo ritiene terreno fertile di e per “nuove sfide”.
Lo ripetiamo: tre anni di questo pontificato, cosa c’è da festeggiare?
Riusciamo a trovare gente cattolica onesta, giornalisti onesti, preti e vescovi onesti, capaci di farci un elenco di questi famosi frutti per cui festeggiare qualcosa di così importante? Con queste domande provocatorie non intendiamo affatto demolire questo pontificato per il quale, invece, è assai difficile e troppo presto poter trarne dei frutti. I bilanci e i festeggiamenti, per la verità, non appartengono neppure al cristianesimo, o all’ecclesiologia o persino al papato, ma sono una moneta mediatica del nostro secolo, sono un bilancio mediatico, sono una misura orizzontale mondana di cui potremo fare benissimo a meno, anzi, non dovremo affatto rincorrere questi bilanci.
Questi tre anni, e va detto con tutta onestà, sono stati anni drammatici per molti cattolici che ancora non sanno che fine faranno o perché sono stati “commissariati” da Papa Francesco senza alcuna vera motivazione eretica o di scandalo al mondo – vedi qui la prima parte e la seconda parte – e vedi anche qui – e non sanno ancora perché sono stati additati come dei mostri.
In questi tre anni i frutti che emergono sono un Ravasi che canonizza la massoneria con il silenzio (tacito consenso?) del Papa – vedi qui -. Abbiamo il ritorno di Bruno Forte con la sua chiesa glocal intento a fondare una nuova chiesa niente meno che con l’appoggio e il sostegno di Massimo D’Alema (???) e dunque con il tacito consenso del Papa (???), vedi qui…. non dimentichiamo che Bruno Forte fu messo in “congelatore” sotto il pontificato di Benedetto XVI e che ha ritrovato tutta la sua baldanza da quando Bergoglio lo ha chiamato alla segreteria degli ultimi due Sinodi. Abbiamo un nuovo ribaltamento dell’ecumenismo dopo che Benedetto XVI ha cercato di riparare i danni fatti da un sincretismo religioso sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II tanto da fare insieme la famosa Dominus Jesus, oggi El Papa “piacione” rimescola le carte e rifonda un ecumania sincretista – vedi qui – fino ad annunciare che andrà a rendere omaggio a Lutero nei giorni del suo 500° anniversario…
Potreste osservare che forse, noi, elenchiamo solo alcuni aspetti discutibili di questo pontificato, ma che in fondo ci sono cose molte belle, tanti bei frutti da far notare. Benissimo, ce li potete indicare, per favore? Ce li potete sottolineare? Ve ne saremo grati perchè, davvero, a noi ci sfuggono. Noi vediamo nella Chiesa che i cattolici “normali” ossia coloro che vivono normalmente una vita serenamente attaccata alla dottrina, al catechismo e in una vita cattolica praticata e coerente in parrocchia, sono perseguitati, allontanati, dichiarati – dal Papa stesso – dei “rigidi e farisei, e pure pelagiani” che impongono inutili pesi (la dottrina) sulle spalle degli uomini…
Un Papa che pur dichiarando che è necessario studiare il Catechismo, di fatto predilige e promuove preti, suore, laici e vescovi che non lo applicano, offre semmai un frutto proibito. Questo è il frutto più prelibato di questi tre anni di pontificato: la confusione, tutto e il contrario di tutto, l’ambiguità, il sincretismo sia dottrinale quanto culturale.
Un esempio? Il suo rapporto con Scalfari contraddice il Vangelo. Nel Vangelo c’è scritto di andare e predicare il Vangelo per “fare discepoli”, El Papa all’amico Scalfari – che gli chiede se deve convertirsi – sconsiglia di convertirsi, gli dice “non devi convertirti altrimenti devo trovarmi un’altro amico ateo”…. vedi qui, ma è come se dicessimo ad un ladro di non smettere di rubare altrimenti ci tocca trovarci un’altro amico ladro, e avanti con gli esempi – ma questo è un altro vangelo dal quale è proprio San Paolo che ci mette in guardia, e ci impone di rifiutarlo, vedi Galati 1,6-10.
E arriviamo alla conclusione, dell’articolo di Radio Vaticana, con la solita ciliegina sulla torta, il tam-tam mediatico, il mantra della nuova religione mondiale: la chiesa deve cambiare…. ecco cosa si legge:
“Non è il Pontefice che è diverso, ma è il mondo a cui è chiamato ad annunciare la Buona Novella che è mutato, presenta esigenze, drammi, urgenze diverse. La domanda vera, però, non è se Francesco stia cambiando il Papato, ma se stia cambiando davvero la Chiesa. Perché una Chiesa che non sente l’esigenza di cambiare, sotto la spinta del soffio dello Spirito, è una Chiesa che va portata in sala di rianimazione”.
(SIC!!!) Vi supplichiamo, che qualcuno spieghi questi vaneggiamenti perché si sta davvero seminando l’incomprensibile, e lo diciamo così come supplica perché vogliamo rimanere nella buona fede.
In sala di rianimazione ci devono andare loro, non la Chiesa Cattolica della quale diciamo nel Credo che è “una, santa, cattolica ed apostolica”. E se questa Chiesa, questa Madre non vi piace, andatevene voi! fateci questo piacere, andatevene!
È innegabile che uno dei frutti di questi ultimi tempi (e di proposito non vogliamo parlare di un pontificato specifico) è quello di una rivoluzione, di un ribaltamento della Chiesa nel senso peggiore del termine e questo non lo diciamo noi, ma lo ha candidamente reso palese, con altre espressioni, padre Ermes Ronchi negli esercizi spirituali al Papa ed alla Curia – vedi qui – dove è arrivato spudoratamente a dire che la Chiesa del passato aveva “trasmesso una fede impostata sulla paura”… e se un Papa tace davanti a simili aberrazioni e menzogne, e magari domani te lo fa pure vescovo (ci scommettiamo?), è ovvio che questo frutto stile “fruttosio” è e sarà letale, è un frutto velenoso.
In duemila anni di storia mai la teologia della Chiesa, mai il Magistero, i Santi, i Dottori, mai nessuno degli eletti ha mai parlato di una chiesa da portare in rianimazione e questo è comprensibile perché, secondo il Vangelo (e tutto il magistero) infatti è la Chiesa che salva, è la Chiesa che è Madre e Maestra, la Chiesa è la Sposa, e questo è andato avanti per 2000 anni.
Oggi i conti non tornano, la Chiesa è ribaltata e non è più Madre e Maestra, ma unafemminazza qualsiasi (una istituzione qualsiasi) come una scolaretta che deve imparare; non è lei a salvare ma il papa di turno a salvare la chiesa a seconda del programma che porterà avanti; Bruno Forte salverà la Chiesa; il principe cardinale Ravasi con la sua massoneria salverà la Chiesa; Ermes Ronchi salverà la Chiesa; Enzo Bianchi salverà la Chiesa; Papa Francesco salverà la Chiesa….. è indicativo così perché non ci sono conversioni al Cristo Vivo e vero della Chiesa Cattolica: a cosa mi serve convertirmi a questo Cristo Vivo e vero se posso salvarmi in ben altra maniera?
Sì, questo è uno dei frutti più “prelibati” di questo Pontificato, parola di Scalfari Eugenio, l’amico ateo di El Papa: che questo Papa non impone catechismi o dottrine e lascia tutti liberi di sentirsi salvati anche senza conversioni. C’è quasi la tentazione di dire che questo pontificato ha svuotato l’inferno. Certo il Papa non l’ha mai detto questo, ma le conclusioni a cui giunge Scalfari sono i frutti del suo dialogo con El Papa…
Concludendo, il 13 marzo noi non abbiamo nulla da festeggiare, ma abbiamo da pregare, soffrire e supplicare. Il Papa ci chiede sempre “non dimenticate di pregare per me”, e noi gli crediamo profondamente, comprendiamo questa fortissima necessità che sente, e preghiamo e pregheremo per lui fino alla fine del suo compito (mandato?), qualunque questo sia, ma evitiamo di prenderci in giro parlando di frutti “prelibati” mentre in questi tre anni di pontificato abbiamo vissuto e sperimentato il gioco al massacro nella rimonta del modernismo nelle sedi di comando, il gioco all’autodistruzione, giochi di imposizioni di governo centrale-pastorale, di gesuitizzazione della Chiesa…. Non dimentichiamo che il rahnerismo esiste ed è gesuita e ne ha parlato anche il domenicano Padre Giovanni Cavalcoli in una recente “Lettera” al Santo Padre Francesco – vedi qui – e il fatto che non sono pochi le menti cattoliche che in questo ultimo anno stanno scrivendo “lettere” al Papa per chiedergli in sostanza cosa sta succedendo e per spronarlo a prendere delle chiare posizioni, dovrebbe spingere il Papa stesso a chiedersi se forse non sta sbagliando qualcosa, ma per fare questo passo è necessaria molta umiltà, vera umiltà, e non semplicemente una dichiarazione di umiltà come quella riposta nel biglietto fatto recapitare ad Antonio Socci, vedi qui.
“Dicevamo – riporta una stupenda riflessione del sito Radicati nella fede vedi qui – di un Cristianesimo dal dogma scheletrico:
cosa è rimasto, nella maggioranza dei cristiani di oggi, del dogma cattolico che sorge dalla Divina Rivelazione? Quasi nulla. Forse resta che esiste Dio, e che alla fine ci salverà: non c’è che dire, di tutta la Rivelazione, di tutto il dogma, di tutto il catechismo non resta quasi nulla, nel vissuto della maggioranza dei cristiani; ma allora, perché Dio si è rivelato, perché ha parlato nell’Antico e nel Nuovo Testamento, perché ha portato a compimento la Rivelazione in Gesù Cristo? Certamente non lo ha fatto per vedersi “semplificare” orrendamente nel cristianesimo moderno.
(…) Dicevamo di un Cristianesimo dalla morale scheletrica:
cosa resta, nella maggioranza dei cristiani di oggi, della ricchezza morale cattolica? Sanno forse che Dio è amore, che dobbiamo volerci bene, e poco più: non c’è che dire, resta un po’ poco. Della Morale Cattolica, della legge e della grazia, non si sa quasi più nulla. Ecco perché siamo terribilmente indifesi di fronte alla dilagante immoralità e di fronte, soprattutto, all’ideologia dell’immoralità, che vuole ammettere tutto sotto la scusa del voler bene. Assisteremo al compimento dell’apostasia: saranno varate le leggi più immorali con il silenzio dei cattolici, con il plauso di alcuni, e con la falsa prudenza dei pastori, che taceranno in nome della libertà e del rispetto umano. Più che morale scheletrica, è la sua morte vera e propria…”.
Ma insomma, tutta colpa di questo pontificato? Ovvio che no! O che questo pontificato sia tutto da leggere in negativo? Ovvio che no! Ma vogliamo essere realisti, non vogliamo mentire a noi stessi e agli altri e perciò, per le motivazioni che abbiamo portato e provato, noi il 13 marzo non abbiamo nulla da festeggiare, ma molto per cui soffrire e pregare.
TRE ANNI DI PONTIFICATOFrancesco cattura il Soffio e se ne fa trapassare: così accompagna il popolo di Dio nel tempo nuovo
I tre anni travolgenti che cambiarono il volto della Chiesa non sono trascorsi impunemente perché la stanno cambiando, momento per momento, e la cambieranno ancora. E' facilmente dimostrabile come il Servo della carità per ogni persona, Francesco, non lo si possa tirare dalla propria parte e invece spezzi gli schemi, sia estremamente concreto e nulla abbia a che spartire con qualche accademia di pensiero o sedicente tale che elucubra e non opera mai.
I tre anni travolgenti che cambiarono il volto della Chiesa non sono trascorsi impunemente perché la stanno cambiando, momento per momento, e la cambieranno ancora finché Francesco, vescovo di Roma, non renderà il suo soffio, in un bacio d’amore, a Colui che glielo ha donato creandolo.
Non sono perifrasi gentili o artefatte per annunciare una realtà talmente drammatica da aver bisogno di allontanarla ed esorcizzarla in ogni modo, vale a dire finché Francesco morirà. Come tutti e chiunque peraltro.
È una questione di Soffio: dal suo librarsi sulle acque alla creazione, al suo librarsi continuo su di noi, viandanti nella storia dell’umanità, al Suo trapassarci nel nostro quotidiano che solo così può essere tale e non renderci cadaveri perché il Soffio ci anima.
Francesco cattura il Soffio, se ne lascia trapassare mentre Egli percorre i secoli con inaudita dolce violenza, sfidando regnanti e reami, ideologie e potenze, culture e nazioni imperanti. Il Soffio sussurra, spazza, libera, infonde certezza. Non lo prendi in mano e non lo catturi. Il Soffio ti prende e ti invade ma esige concretezza.
Infatti, è facilmente dimostrabile come il Servo della carità per ogni persona, Francesco, non lo si possa tirare dalla propria parte e invece spezzi gli schemi, sia estremamente concreto e nulla abbia a che spartire con qualche accademia di pensiero o sedicente tale che elucubra e non opera mai.
Maestro quindi di vita evangelica, di quel tessuto che, giorno per giorno, viene creandosi con gesti minuti, magari inosservati ma che urlano nella modestia della silente esecuzione che non esiste la cultura dello scarto, che nessuno animato dal Soffio (consapevole o meno) sia destinato al trash e quindi fatto sparire dal display del pc o del cellulare per precipitare nel nulla della dimenticanza.
La pastorale popolare di Francesco non si oppone a pastorale raffinata e ricercata ma trova il suo perno proprio nel popolo, senza discriminazioni di nascita, censo o colore. Tutti, significa semplicemente tutti, nessuno escluso.
Abitare Casa S. Marta significa rinunciare a dimore in cui un povero, entrando, si troverebbe a disagio. Ospitare sotto il colonnato di S. Pietro docce e barbieri per i clochard non intende deturpare l’arte ma porla al servizio di chi, se non viene soccorso nella sua miseria, non ha neppure occhi per vederla.
Le periferie si misurano non dal centro del mondo ma dal centro del proprio egoismo, sbalzare fuori dai propri circuiti chiusi che da persone comuni erigiamo a nostra protezione oppure per chi, nel grande disegno di Dio si è visto assegnare un ruolo dirigenziale, ricordarsi che “nel complesso mondo dell’impresa, ‘fare insieme’ significa investire in progetti che sappiano coinvolgere soggetti spesso dimenticati o trascurati. Tra questi, anzitutto, le famiglie, focolai di umanità, in cui l’esperienza del lavoro, il sacrificio che lo alimenta e i frutti che ne derivano trovano senso e valore”.
Periferia è il continuo, ininterrotto flusso di popoli, sporchi, laceri, affamati e oppressi: “Cercare la giustizia, soccorrete l’oppresso: rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova, pensate ai tanti profughi che sbarcano in Europa e non sanno dove andare”.
Evangelizzare esige il coraggio di gridare che “il Popolo di Dio, cioè la Chiesa, non ha bisogno di soldi sporchi, se viene qualche “benefattore” con offerta frutto del sangue di gente sfruttata, maltratta, schiavizzata, con il lavoro mal pagato, io dirò a questa gente, ‘per favore portati indietro il tuo assegno, brucialo’”.
Come risposta concreta: non lasciarsi servire nel miglior ristorante romano ma fare la coda per la cena in mensa e mangiare quel che c’è e non quel che si vorrebbe ci fosse. Come i poveri.
L’arcata della storia viene costruita dalla banalità del gesto quotidiano ripetuto, fissando nella liquidità punti fermi, segni concreti che dimostrino l’impegno per la pace e la vita:
“Vorrei citare l’iniziativa dei corridoi umanitari per i profughi, avviata ultimamente in Italia. Questo progetto-pilota, che unisce la solidarietà e la sicurezza, consente di aiutare persone che fuggono dalla guerra e dalla violenza, come i cento profughi già trasferiti in Italia, tra cui bambini malati, persone disabili, vedove di guerra con figli e anziani”. Insieme da fratelli semplicemente cristiani.
Con un bersaglio da colpire: l’indifferenza, nel nome delle sorelle che hanno testimoniato ad Aden per tutti noi la fede in Cristo: “Questi sono i martiri di oggi! Non sono copertine dei giornali, non sono notizie: questi danno il loro sangue per la Chiesa. Queste persone sono vittime dell’attacco di quelli che li hanno uccisi e anche dell’indifferenza, di questa globalizzazione dell’indifferenza, a cui non importa…”.
Parole quelle di Bergoglio, illuminato dal sorriso, che assomigliano sempre più da vicino alla Parola dell’Altissimo che, una volta espressa compie, per una sola ragione (o sragione per molti): perché “Il nome di Dio è Misericordia”.
Cristiana Dobner
http://agensir.it/chiesa/2016/03/12/francesco-cattura-il-soffio-e-se-ne-fa-trapassare-cosi-accompagna-il-popolo-di-dio-nel-secolo-nuovo/
(Gianfranco Brunelli) Appena eletto papa, tre anni fa, ci sembrò di poter cogliere tre questioni (o sfide) che provenendo dal suo stile personale avrebbero ben presto informato di sé il pontificato e la Chiesa. Tutto promanava dalla scelta del nome: Francesco (Regno- att. 6,2013,121). Una scelta inedita, dirompente, da fare epoca. E tuttavia, Bergoglio sembrava da subito sostenere quella scelta così rischiosa con semplicità, naturalezza, come se quel nome fosse davvero il suo. Da sempre.
Le questioni erano (e sono) queste: il rapporto tra profezia e istituzione; il riordino simbolico della Chiesa e il suo fondamento teologico; l’effetto comunicativo e la sua possibile (allora avrei detto inevitabile) consunzione.
Inutile dire che le tre questioni sono ancora aperte. E forse lo saranno sempre. Ma a papa Francesco premeva e preme con urgenza aprire processi, ben sapendo di non poterli chiudere. Ci vuole una grande umiltà, frutto di una spiritualità profonda, radicale, che s’affida totalmente a Dio e non confida in nulla nelle proprie forze o capacità per poterlo fare.
La scelta di Bergoglio come papa e la sua scelta di portare il nome Francesco venivano dopo la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, altra scelta di grande umiltà e dirompenza, che attestava inequivocabilmente la profondità della crisi istituzionale (come crisi di autorità) della Chiesa cattolica (Supplemento a Regno- doc. 3,2013).
La dialettica tra profezia e istituzione ha caratterizzato e forse sostenuto l’intera storia della Chiesa. Quando Giotto ci mostra mirabilmente, nella basilica superiore di Assisi, il Sogno d’Innocenzo III, nel quale appare frate Francesco che sostiene una traballante Basilica lateranense, ci mostra la distinzione tra profezia e istituzione, una distinzione in virtù della quale l’istituzione può integrare, almeno parzialmente, la profezia stessa, rimanendo in fondo diverse.
Papa Francesco incarna simbolicamente e programmaticamente entrambe le dimensioni. E questo è l’inedito. Non più solo un’opportuna accoglienza, ma la convinzione che la profezia può salvare l’istituzione. Egli ha percepito sia il cambiamento profondo cui è approdato il mondo globalizzato, sia la crisi del cristianesimo, soprattutto in Occidente. La scelta di Francesco è quella di passare dal dogma al kerygma.
Da un approccio cumulativo, unilateralmente preoccupato di dare ragione sempre, in ogni punto dell’enunciazione e della comunicazione, del contenuto dogmatico della fede cristiana, a una concezione processuale e relazionale, incentrata sull’offerta del Vangelo di Dio, che implica riconoscere la libertà e soprattutto la capacità di apprendere e la creatività di coloro che comunicano e di coloro che ricevono l’annuncio.
Al centro del suo magistero c’è questo: vivere il Vangelo. Annunciarlo con la vita. Il Vangelo è possibile perché tocca il centro della nostra umanità. Vi è una corrispondenza profonda tra il centro della nostra umanità e il centro dell’umanità di Cristo. L’annuncio della fede deve essere fatto risuonare nuovamente, come fosse la prima volta, andando oltre le forme culturali prevalenti che sin qui l’hanno espresso.
Il forte impulso del magistero di Francesco all’uscita della Chiesa da se stessa, dalla propria certezza di centralità anche mondana, configura la cura di sé come istituzione, la pura conservazione dottrinale come debole resistenza alla corruzione di questo tempo, in fondo come tentazione narcisistica della Chiesa stessa, che ripete in sé i vizi del tempo.
L’istituzione non salva
Non ci si salva in quanto istituzione. Per questo la Chiesa, secondo Francesco, deve essere umile e povera in spirito, secondo il mandato delle Beatitudini. L’umiltà è infatti la rinuncia a esistere al di fuori di Dio. Questo stile è coestensivo a tutto quello che si è, e a quanto si ha. Da tale sentimento nasce la necessità di tutto chiedere, come chiede un uomo che conosce la sua indigenza.
Da tale sentimento nasce la necessità di tutto dare, come dà chi sa di avere ricevuto tutto. Sentire che tutto viene da Dio e dalla sua grazia è la sola via che consente alla Chiesa di crescere, d’essere ancora credibile, attraente e vicina agli uomini del nostro tempo. Da questa scelta derivano altre scelte: una Chiesa post-ideologica, lontana dal potere, e prossima a tutti, a partire dai più poveri. Una Chiesa che deve riflettere il volto di Dio misericordioso.
La Chiesa per papa Francesco è molto di più di un’istituzione organica e gerarchica, essa è popolo di Dio, soggetto comune della fede e dell’evangelizzazione. Quando il vescovo di Roma appena eletto chiede al popolo di pregare e di benedirlo riconosce la sua soggettività credente e orante.
L’ecclesiologia di papa Francesco, in quanto ecclesiologia di comunione, individua il nesso preciso tra collegialità, sinodalità e primato, e, agendo sul rinnovamento del principio sinodale, riequilibra la relazione tra sinodalità e primato, tra Chiesa locale e Chiesa universale.
Quando nell’esortazione Evangelii gaudium egli afferma la necessità di una conversione del papato (per essere «più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione», n. 32; EV 29/2138) pone fortemente questi temi, consapevole anche dei risvolti ecumenici che essi hanno.
Ancora più difficile la sfida del rapporto con i media. Non ponendo fra sé e la comunicazione alcuna barriera e neppure alcun filtro, papa Francesco rischia talora il fraintendimento o quella che lui chiama la «franceschite», una specie di sovraesposizione. Non sembra curarsi troppo dell’una e dell’altra. È convinto che la gente lo comprenda grazie (e nonostante) i media.
Francesco ha accettato e proposto una sfida enorme, che certo produce anche una vistosa pars destruens nell’istituzione stessa e che va ricomposta con la riforma dell’istituzione stessa. Ma egli non è un papa dell’istituzione, è un pastore.
Cinquant’anni dopo il concilio Vaticano II, un papa di nome Francesco riprendendo il tema del primato della pastorale riprende e attua lo stile del Vaticano II, che non aveva né semplicemente il carattere della dottrina dogmatica sempre valida, né quello della disposizione canonica, bensì quello di una direttiva pastorale.
Papa Francesco ha di fronte a sé la difficoltà e il compito di fondare teologicamente quell’appello pastorale. Si tratta di un mandato risultato incompiuto nel concilio Vaticano II, accantonato nel postconcilio e che oggi risulta impellente.
Ha detto che non vuole procedere da solo. Ha chiesto a tutta la Chiesa di crederci e di provarci.
Il Regno
Le questioni erano (e sono) queste: il rapporto tra profezia e istituzione; il riordino simbolico della Chiesa e il suo fondamento teologico; l’effetto comunicativo e la sua possibile (allora avrei detto inevitabile) consunzione.
Inutile dire che le tre questioni sono ancora aperte. E forse lo saranno sempre. Ma a papa Francesco premeva e preme con urgenza aprire processi, ben sapendo di non poterli chiudere. Ci vuole una grande umiltà, frutto di una spiritualità profonda, radicale, che s’affida totalmente a Dio e non confida in nulla nelle proprie forze o capacità per poterlo fare.
La scelta di Bergoglio come papa e la sua scelta di portare il nome Francesco venivano dopo la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, altra scelta di grande umiltà e dirompenza, che attestava inequivocabilmente la profondità della crisi istituzionale (come crisi di autorità) della Chiesa cattolica (Supplemento a Regno- doc. 3,2013).
La dialettica tra profezia e istituzione ha caratterizzato e forse sostenuto l’intera storia della Chiesa. Quando Giotto ci mostra mirabilmente, nella basilica superiore di Assisi, il Sogno d’Innocenzo III, nel quale appare frate Francesco che sostiene una traballante Basilica lateranense, ci mostra la distinzione tra profezia e istituzione, una distinzione in virtù della quale l’istituzione può integrare, almeno parzialmente, la profezia stessa, rimanendo in fondo diverse.
Papa Francesco incarna simbolicamente e programmaticamente entrambe le dimensioni. E questo è l’inedito. Non più solo un’opportuna accoglienza, ma la convinzione che la profezia può salvare l’istituzione. Egli ha percepito sia il cambiamento profondo cui è approdato il mondo globalizzato, sia la crisi del cristianesimo, soprattutto in Occidente. La scelta di Francesco è quella di passare dal dogma al kerygma.
Da un approccio cumulativo, unilateralmente preoccupato di dare ragione sempre, in ogni punto dell’enunciazione e della comunicazione, del contenuto dogmatico della fede cristiana, a una concezione processuale e relazionale, incentrata sull’offerta del Vangelo di Dio, che implica riconoscere la libertà e soprattutto la capacità di apprendere e la creatività di coloro che comunicano e di coloro che ricevono l’annuncio.
Al centro del suo magistero c’è questo: vivere il Vangelo. Annunciarlo con la vita. Il Vangelo è possibile perché tocca il centro della nostra umanità. Vi è una corrispondenza profonda tra il centro della nostra umanità e il centro dell’umanità di Cristo. L’annuncio della fede deve essere fatto risuonare nuovamente, come fosse la prima volta, andando oltre le forme culturali prevalenti che sin qui l’hanno espresso.
Il forte impulso del magistero di Francesco all’uscita della Chiesa da se stessa, dalla propria certezza di centralità anche mondana, configura la cura di sé come istituzione, la pura conservazione dottrinale come debole resistenza alla corruzione di questo tempo, in fondo come tentazione narcisistica della Chiesa stessa, che ripete in sé i vizi del tempo.
L’istituzione non salva
Non ci si salva in quanto istituzione. Per questo la Chiesa, secondo Francesco, deve essere umile e povera in spirito, secondo il mandato delle Beatitudini. L’umiltà è infatti la rinuncia a esistere al di fuori di Dio. Questo stile è coestensivo a tutto quello che si è, e a quanto si ha. Da tale sentimento nasce la necessità di tutto chiedere, come chiede un uomo che conosce la sua indigenza.
Da tale sentimento nasce la necessità di tutto dare, come dà chi sa di avere ricevuto tutto. Sentire che tutto viene da Dio e dalla sua grazia è la sola via che consente alla Chiesa di crescere, d’essere ancora credibile, attraente e vicina agli uomini del nostro tempo. Da questa scelta derivano altre scelte: una Chiesa post-ideologica, lontana dal potere, e prossima a tutti, a partire dai più poveri. Una Chiesa che deve riflettere il volto di Dio misericordioso.
La Chiesa per papa Francesco è molto di più di un’istituzione organica e gerarchica, essa è popolo di Dio, soggetto comune della fede e dell’evangelizzazione. Quando il vescovo di Roma appena eletto chiede al popolo di pregare e di benedirlo riconosce la sua soggettività credente e orante.
L’ecclesiologia di papa Francesco, in quanto ecclesiologia di comunione, individua il nesso preciso tra collegialità, sinodalità e primato, e, agendo sul rinnovamento del principio sinodale, riequilibra la relazione tra sinodalità e primato, tra Chiesa locale e Chiesa universale.
Quando nell’esortazione Evangelii gaudium egli afferma la necessità di una conversione del papato (per essere «più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione», n. 32; EV 29/2138) pone fortemente questi temi, consapevole anche dei risvolti ecumenici che essi hanno.
Ancora più difficile la sfida del rapporto con i media. Non ponendo fra sé e la comunicazione alcuna barriera e neppure alcun filtro, papa Francesco rischia talora il fraintendimento o quella che lui chiama la «franceschite», una specie di sovraesposizione. Non sembra curarsi troppo dell’una e dell’altra. È convinto che la gente lo comprenda grazie (e nonostante) i media.
Francesco ha accettato e proposto una sfida enorme, che certo produce anche una vistosa pars destruens nell’istituzione stessa e che va ricomposta con la riforma dell’istituzione stessa. Ma egli non è un papa dell’istituzione, è un pastore.
Cinquant’anni dopo il concilio Vaticano II, un papa di nome Francesco riprendendo il tema del primato della pastorale riprende e attua lo stile del Vaticano II, che non aveva né semplicemente il carattere della dottrina dogmatica sempre valida, né quello della disposizione canonica, bensì quello di una direttiva pastorale.
Papa Francesco ha di fronte a sé la difficoltà e il compito di fondare teologicamente quell’appello pastorale. Si tratta di un mandato risultato incompiuto nel concilio Vaticano II, accantonato nel postconcilio e che oggi risulta impellente.
Ha detto che non vuole procedere da solo. Ha chiesto a tutta la Chiesa di crederci e di provarci.
Il Regno
I tre anni “rivoluzionari” di Papa Francesco
L'analisi di Benedetto Ippolito, storico della filosofia
Il pontificato di Papa Francesco compie tre anni. Il breve tempo non sembra rendere giustizia ai cambiamenti che sono avvenuti nel frattempo dentro e fuori la Chiesa Cattolica. Il magistero di Benedetto XVI era stata la più solenne esaltazione della dottrina cristiana permanente e imperitura della tradizione, sebbene il suo governo della Santa Sede si sia identificato, malauguratamente, con uno dei periodi più critici e bui della storia.
Ad un tratto, quasi per miracolo, tutto è tornato a posto oltretevere.
Nella piovosa piazza davanti a San Pietro, il 13 marzo del 2013, si è affacciato, dopo la clamorosa e discreta rinuncia di Ratzinger, un uomo argentino, praticamente sconosciuto ai più, che avrebbe mutato radicalmente il volto e l’anima della Chiesa. Pochi lo conoscevano come arcivescovo di Buenos Aires. Pochissimi nostri giornali avevano parlato di lui. Ma, come fu detto di San Tommaso da Sant’Alberto Magno, malgrado l’apparente silenzio la sua voce si sarebbe sentita, e sonora, nei secoli.
Inizialmente ha subito fatto comprendere cosa fosse per lui essere cristiano oggi, essere pastore, essere Pontefice. Non una carriera. Non un ufficio aulico da cui guidare ieraticamente l’istituzione ecclesiastica, dove esercitare magari autorevolmente un potere enorme, bensì una missione vera e umile, uno spazio pubblico dove rimanere distaccati, e da cui testimoniare la semplicità del Vangelo, la tenerezza della vita, con il compito di far tornare alla concreta potenza disarmante dell’autenticità personale un’imponente gerarchia millenaria.
La fede è credibile quando è così: chiara, netta, senza banalità e artifici. Joaquin Navarro-Valls scrisse su Repubblicache in quel preciso momento era “finito il Barocco”. E, in effetti, il futuro gli ha dato ragione.
Nei mesi successivi Francesco ha firmato due encicliche fondamentali, Lumen fidei, elaborata a quattro mani con il suo predecessore, e Laudato Sì, di suo pugno. Ha compiuto viaggi importantissimi, in Africa, in America Latina, negli Stati Uniti, in molti luoghi e parrocchie italiane. Ha esposto la sua concezione collegiale dell’episcopato in un’Esortazione apostolica di fondamentale rilevanza, la Evangelium gaudium.
Le due iniziative più importanti che Francesco ha intrapreso sono state sicuramente il doppio sinodo, straordinario e ordinario, dei vescovi sulla famiglia, e il Giubileo della misericordia, anno santo dedicato ad uno dei valori cristiani più profondi tra quelli amati e diffusi da Bergoglio. Il suo magistero non ha ceduto in nessun punto sul piano dottrinale, non distanziandosi mai da quello dei predecessori, applicando e rivestendo tutto il Cristianesimo di freschezza, senso di tangibile accessibilità, presentandolo come un percorso coerente, attuabile da chiunque, perché disegnato con aderenza sul volto di ogni uomo e donna, anche nella complessità di un mondo nuovo e difficile. Questa sensibilità sul presente è l’arma politica e diplomatica vincente e disarmante che Francesco ha esibito con maggiore intensità.
Egli è il primo Papa religioso, ma anche il primo realmente post moderno, che guarda cioè la modernità stessa come un processo storico iniziato dopo il medioevo e finito con Giovanni Paolo II. Non è più l’Europa il baricentro della fede. Non è più l’Occidente il punto di vista privilegiato da cui osservare il pianeta, ma è il mondo intero, con i suoi problemi demografici, bellici ed ecologici a stimolare e reclamare la presenza preziosa e saggia della cristianità. Di qui proviene l’opzione per i poveri, l’accoglienza per i popoli migranti, gli incontri interconfessionali, la critica al globalismo economico e all’indifferentismo, il lavorare dal basso per riunire tutti i cristiani con tutta l’umanità.
La popolarità del Papa è effetto della riconoscibilità autentica di questa fede vissuta, la quale è tutt’uno con l’aderenza al Vangelo della persona, la quale si traduce nell’incorporazione sintonizzata dei gesti e del cuore di Bergoglio con i sentimenti profondi di tutto il genere umano.
Capire Francesco significa, in definitiva, comprendere perché non si possa non essere cristiani essendo umani, e perché la Chiesa è credibile quando i comportamenti rivelano, senza intransigenza e tiepidezza, lo spirituale nel materiale. La sua leadership è naturale almeno tanto quanto soprannaturale appare la forza delle sue riforme e l’efficacia del suo messaggio di speranza e di pace.
Non solo la Chiesa, in definitiva, sta cambiando con Francesco, ma il mondo ha trovato un sicuro anelito di speranza. Per il Papa, infatti, avere una visione solidale e universale in un mondo globale è l’unica strada per tenere aperte le porte della pace quando tutti ormai le chiudono nella rassegnazione della violenza e della guerra contro gli altri.
La Stampa
(Andrea Tornielli) Sono passati tre anni da quella sera del 13 marzo, quando Jorge Mario Bergoglio si affacciò vestito di bianco dalla loggia di San Pietro dopo il conclave lampo seguito alla rinuncia di Benedetto XVI. Un tempo limitato per tracciare veri bilanci, ma sufficiente per individuare alcune linee guida dietro i semplici numeri. 12 viaggi all’estero per un totale di 20 Paesi visitati, 11 visite in Italia, 168 Angelus e 124 udienze generali, 2 encicliche, 15 costituzioni, un’esortazione apostolica - «Evangelii gaudium» - che rappresenta la road map del pontificato, un’altra in arrivo fra pochi giorni dedicata alla famiglia; 153 messaggi, 130 lettere, 180 omelie pubbliche, 628 discorsi, 382 meditazioni durante le messe a Santa Marta. Queste omelie a braccio rappresentano una delle novità più significative del papato di Bergoglio, un magistero quotidiano semplice e profondo.
Misericordia e tenerezza
A tre anni di distanza da quel 13 marzo, in primo piano non sono più i piccoli o grandi cambiamenti di protocollo, l’uso dell’utilitaria, l’abitare a Santa Marta, quella «normalità» distante dalle abitudini consolidate della corte pontificia. Tutti elementi che hanno certo contribuito ad avvicinare il Papa alla gente ma che rappresentano soltanto dei segni. Il cuore del messaggio di Francesco è la testimonianza di una Chiesa che mostra il volto di un Dio misericordioso e accogliente. «Serve una Chiesa - diceva il Papa ai vescovi del Brasile nel luglio 2013 - capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di “feriti”, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore». E durante il suo recente viaggio in Messico ha detto: «L’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, che è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia».
Costruire ponti
Anche sulla scena internazionale, il pontificato di Francesco è caratterizzato da quella «cultura dell’incontro» che caratterizza il suo rapporto con le persone, cioè dal tentativo di costruire ponti con chiunque lasci balenare ogni minimo spiraglio di dialogo. È del Papa la realistica constatazione di un mondo che si avvia a grandi passi verso una terza guerra mondiale, anche se ancora «a pezzi».
Dai tentativi di non isolare il leader russo Putin, al dialogo con i capi di Stato e le autorità religiose musulmane, dai viaggi a Cuba e negli Stati Uniti fino a quelli in Estremo Oriente Francesco ha parlato dell’«ecumenismo del sangue» che unisce i cristiani di diverse confessioni, ha abbracciato il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo ed è riuscito a coronare il sogno di incontrare per la prima volta il Patriarca di Mosca. L’unità dei cristiani non ha un valore soltanto per la vita delle Chiese, è un segno importante per la pace nel mondo.
Gli ultimi
Il magistero di Francesco ha messo in discussione l’attuale modello di sviluppo, attualizzando pagine dimenticate della dottrina sociale della Chiesa. Nell’enciclica «Laudato si’» ha spiegato
come la custodia del creato sia legata alla soluzione dei gravi problemi di povertà che affliggono una parte consistente della popolazione del globo. Le parole sull’«economia che uccide» hanno riportato al centro dell’attenzione il dramma del sottosviluppo e delle conseguenze disastrose delle guerre, insieme alle occulte motivazioni economiche che le muovono. La sua insistenza sull’accoglienza ai profughi richiama innanzitutto l’Europa a non dimenticare i suoi valori fondativi.
Il rischio slogan
A tre anni dal suo inizio, il pontificato è caratterizzato da «cantieri aperti»: se la riforma del sistema economico-finanziario vaticano è già entrata nella sua fase attuativa, più lento appare il processo di riforma della Curia, mentre è ancora agli inizi quello riguardante la riorganizzazione del sistema mediatico d’Oltretevere. Dalle parole del Papa appare chiaro che la riforma dei cuori, la «conversione pastorale», è condizione necessaria per le riforme strutturali. C’è infatti il rischio che il messaggio del pontificato sia ridotto a slogan, come se bastasse cambiare qualche parola-chiave: oggi vanno di moda le «periferie». La testimonianza del Papa, in realtà, suggerisce a tutti - ai collaboratori, ai vescovi, ai preti, come pure ai laici d’ogni latitudine - ben altra radicalità evangelica, senza la quale anche le riforme rischiano di ricalcare criteri aziendalistici e di rinchiudersi in tecnicismi che non tengono conto della natura della Chiesa, mai sovrapponibile a quella di una delle tanti multinazionali, come ha spesso ripetuto anche Benedetto XVI.
Un tempo limitato per tracciare veri bilanci, ma sufficiente per individuare alcune linee.
Misericordia e tenerezza
A tre anni di distanza da quel 13 marzo, in primo piano non sono più i piccoli o grandi cambiamenti di protocollo, l’uso dell’utilitaria, l’abitare a Santa Marta, quella «normalità» distante dalle abitudini consolidate della corte pontificia. Tutti elementi che hanno certo contribuito ad avvicinare il Papa alla gente ma che rappresentano soltanto dei segni. Il cuore del messaggio di Francesco è la testimonianza di una Chiesa che mostra il volto di un Dio misericordioso e accogliente. «Serve una Chiesa - diceva il Papa ai vescovi del Brasile nel luglio 2013 - capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di “feriti”, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore». E durante il suo recente viaggio in Messico ha detto: «L’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, che è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia».
Costruire ponti
Anche sulla scena internazionale, il pontificato di Francesco è caratterizzato da quella «cultura dell’incontro» che caratterizza il suo rapporto con le persone, cioè dal tentativo di costruire ponti con chiunque lasci balenare ogni minimo spiraglio di dialogo. È del Papa la realistica constatazione di un mondo che si avvia a grandi passi verso una terza guerra mondiale, anche se ancora «a pezzi».
Dai tentativi di non isolare il leader russo Putin, al dialogo con i capi di Stato e le autorità religiose musulmane, dai viaggi a Cuba e negli Stati Uniti fino a quelli in Estremo Oriente Francesco ha parlato dell’«ecumenismo del sangue» che unisce i cristiani di diverse confessioni, ha abbracciato il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo ed è riuscito a coronare il sogno di incontrare per la prima volta il Patriarca di Mosca. L’unità dei cristiani non ha un valore soltanto per la vita delle Chiese, è un segno importante per la pace nel mondo.
Gli ultimi
Il magistero di Francesco ha messo in discussione l’attuale modello di sviluppo, attualizzando pagine dimenticate della dottrina sociale della Chiesa. Nell’enciclica «Laudato si’» ha spiegato
come la custodia del creato sia legata alla soluzione dei gravi problemi di povertà che affliggono una parte consistente della popolazione del globo. Le parole sull’«economia che uccide» hanno riportato al centro dell’attenzione il dramma del sottosviluppo e delle conseguenze disastrose delle guerre, insieme alle occulte motivazioni economiche che le muovono. La sua insistenza sull’accoglienza ai profughi richiama innanzitutto l’Europa a non dimenticare i suoi valori fondativi.
Il rischio slogan
A tre anni dal suo inizio, il pontificato è caratterizzato da «cantieri aperti»: se la riforma del sistema economico-finanziario vaticano è già entrata nella sua fase attuativa, più lento appare il processo di riforma della Curia, mentre è ancora agli inizi quello riguardante la riorganizzazione del sistema mediatico d’Oltretevere. Dalle parole del Papa appare chiaro che la riforma dei cuori, la «conversione pastorale», è condizione necessaria per le riforme strutturali. C’è infatti il rischio che il messaggio del pontificato sia ridotto a slogan, come se bastasse cambiare qualche parola-chiave: oggi vanno di moda le «periferie». La testimonianza del Papa, in realtà, suggerisce a tutti - ai collaboratori, ai vescovi, ai preti, come pure ai laici d’ogni latitudine - ben altra radicalità evangelica, senza la quale anche le riforme rischiano di ricalcare criteri aziendalistici e di rinchiudersi in tecnicismi che non tengono conto della natura della Chiesa, mai sovrapponibile a quella di una delle tanti multinazionali, come ha spesso ripetuto anche Benedetto XVI.
Un tempo limitato per tracciare veri bilanci, ma sufficiente per individuare alcune linee.
Hai solo sei mesi ancora, Misericordio. Poi farai lo splendido nell'Ade.
RispondiEliminaMa come si fa a dire che Bergoglio non è eretico ma sono i parroci che traducono le sue ambiguità in eresie? Bergoglio non è per niente ambiguo! Dice eresie sopra eresie una dietro l'altra! Ma chi scrive simili idiozie?
RispondiEliminaAthanasius
Sulla scelta 'umile' di papa Bergoglio di risiedere a S. Marta: dopo Vatileaks1 a danno di papa Benedetto, era inevitabile dedurre (e scoprire?) che il palazzo apostolico fosse stato farcito di microspie.
RispondiEliminaLeggevo di recente che l'appartamento occupato dal papa in S. Marta viene fatto ispezionare dai bonificatori di microspie ogni paio di mesi (l'articolo riferiva inoltre che il papa, a buon conto, si è fatto installare una linea telefonica diretta con l'esterno, scavalcando così ogni centralino vaticano).
Marisa