ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 25 marzo 2016

Pro sua conscientia Christianus.

PONZIO PILATO: FU FORSE 'CRISTIANO NEL CUORE''?


In “Ponzio Pilato” lo storico Aldo Schiavone ricostruisce con rigore la figura del controverso governatore della Giudea. Che, secondo lo storico di diritto romano, non fu un ‘ponziopilato’ e neanche si lavò le mani né consegnò Gesù ai notabili ebrei perché lo crocifiggessero. E’ un testo appassionante che pone seriamente in dubbio alcuni punti fondamentali dello svolgersi della Passione di Gesù.

Chi fu Ponzio Pilato? Certo una figura fondamentale nella storia della Passione di Cristo, di cui è indizio anche il fatto che il suo nome è tra i sette citati dalla tradizione cristiana: Giuda, Anna, Caifa, Barabba, Erode Antipa, Giuseppe di Arimatea e appunto Pilato. Unico tra i cinque personaggi storici citati (Giuda e Barabba non lo sono) ad aver – secondo i Vangeli – dialogato con Gesù. Di lui è prevalsa nei secoli un’immagine non esaltante, tanto è vero che quando nel nostro dire tacciamo qualcuno di essere “un Ponzio Pilato” esprimiamo su di lui una valutazione negativa: è uno che, pur potendo influire in misura incisiva su tal o tal’altra vicenda, rinuncia a farlo, lavandosene le mani.
Aldo Schiavone, noto studioso di diritto romano, scuote certe nostre ‘certezze’ nel suo libro “Ponzio Pilato”, recentemente uscito presso Einaudi. Tanto che alla fine evidenzia la possibilità che il governatore della Giudea sia stato addirittura un “cristiano nel cuore”: richiama qui quello che di lui scriveva Tertulliano alla fine del II secolo nell’ Apologeticum 21, 24, citando un rapporto che lo stesso Pilato avrebbe inviato all’imperatore Tiberio sulla vicenda della condanna di Gesù: “Et super omnia Christo Pilatus, et ipse iam pro sua conscientia Christianus, Caesari tunc Tiberio nuntiavit”.
Per giungere a prospettare seriamente tale possibilità Schiavone ripercorre con rigore la Passione di Cristo, proponendosi di “descrivere e spiegare ciò che potrebbe essere accaduto” . Già questo solo “potrebbe” – come ha rilevato Anna Foa durante la recente presentazione del libro presso l’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede – indica che il metodo utilizzato dallo storico per la sua ricostruzione è del tutto “straordinario”, divaricandosi da quello classico del ricostruire “ciò che è accaduto”. Per fare questo Schiavone si abbevera soprattutto alle fonti evangeliche – Giovanni più di Luca, Marco e Matteo – e alle brevi citazioni di Giuseppe Flavio e di Tacito.
Chi era Pilato? Schiavone ne traccia un ritratto credibile: “Era un romano del I secolo, un uomo dell’establishment imperiale”. Il governatore “era abbastanza colto da interrogarsi sulla verità, abbastanza curioso da lasciarsi stupire da Gesù, abbastanza intelligente e lucido per ricoprire incarichi politici (e prima, quasi certamente, militari) che comportavano responsabilità, discernimento e prontezza di decisioni”. Interessante anche quel che segue: “E’ probabile che non avesse alcun solido convincimento religioso; semmai qualcosa di molto vicino a uno sfumato eclettismo politeista, forse venato di scetticismo: era l’aria del tempo. Questo non gli avrà impedito di essere superstizioso e suggestionato dal soprannaturale, come molti romani, non solo della sua epoca”.
Nel libro di Schiavone tante le pagine di spessore. Ne citiamo almeno qualcuna.

La cattura di Gesù 
Fu un’operazione ispirata dai notabili ebrei (Caifa, Anna, il sinedrio), ma condivisa – pur se con le cautele del caso - anche da Pilato. Nel Getsemani Gesù fu arrestato (di notte, onde evitare eventuali reazioni dei suoi seguaci) da uomini agli ordini del sinedrio, sostenuti dalla ‘polizia del Tempio’ (“unità giudaica in servizio permanente con compiti di sorveglianza e repressione, generalmente all’interno e intorno al luogo di culto”). A vegliare, non in prima fila, un distaccamento romano. Un’operazione del genere non si sarebbe potuta sviluppare, spiega bene Schiavone, senza il consenso del governatore, certo al corrente di quello che stava accadendo, frutto di un’intesa con i notabili ebrei. Pilato però non voleva comparire da protagonista: infatti lasciò il compito dell’arresto agli uomini del sinedrio, che portarono Gesù non nel pretorio romano, ma a casa di Anna e di Caifa. Pur non volendo dispiacere per tante ragioni politiche ai notabili ebrei, il governatore scelse di stare in un primo tempo alla finestra, attendendo gli sviluppi dell’operazione: soprattutto chiedeva che Gesù – certo conosciuto e anche temuto per il seguito popolare di cui aveva dimostrato di godere – fosse portato da lui con un’accusa precisa.

Chi voleva la morte di Gesù? 
Qui Schiavone tocca un tema di grande rilevanza per le tragedie che nella storia ha comportato. Fu veramente il popolo ebraico a condannare Gesù? C’era veramente il popolo di Gerusalemme quella mattina fuori del pretorio a invocare la crocifissione del Nazareno? L’Autore risponde fondandosi in particolare su quello che ritiene il Vangelo razionalmente più credibile nel racconto della vicenda: il Vangelo di Giovanni. Gli altri tre invece per Schiavone sono venati nel merito da un forte anti-giudaismo che stravolge la verità dei fatti.
Secondo Giovanni fuori del pretorio ci sono i “giudei”, nominati cinque volte in poche righe. Quali “giudei”? Osserva Schiavone: per l’evangelista – che non scrive mai di “popolo” – sono “i componenti del sinedrio, semmai accompagnati dai loro servi e da un distaccamento della Guardia del Tempio. Nessun altro”. Ovvero “per Giovanni tutto si compie all’interno di una cerchia ristretta: Pilato, Gesù e i sinedriti – una triangolazione serrata ed esclusiva”. Di “popolo” dunque non c’è traccia né ci sarebbe potuta essere considerati da un lato la ristrettezza dello spazio pubblico davanti al pretorio, dall’altro la difficoltà di una “convocazione di massa” in tempi ristretti, per di più temuta dai sacerdoti data la popolarità acquisita da Gesù (accolto pochi giorni prima dalla folla che innalzava le palme).
Ma allora Marco, Matteo, Luca?  Agli altri evangelisti – annota Schiavone – “premeva molto ricordare ai lettori come la morte di Gesù fosse responsabilità dell’intero popolo ebraico e non solo di un piccolo gruppo di sacerdoti e dei loro accoliti”. Sono questi ultimi del resto a preferire  Barabba (“un nemico, un uomo che, probabilmente, non aveva esitato a prendere le armi contro gli aristocratici vicini al potere romano”) a Gesù, intuito come un pericoloso sovvertitore della stessa identità ebraica di cui si sentivano custodi. Superfluo ricordare a quante tragedie nella storia ha portato l’allargamento al “popolo” ebraico dell’accusa di aver voluto la crocifissione di Gesù.  Sinottici: in questo la responsabilità dei Vangeli sinottici (Luca. Marco, Matteo) è tanto pesante quanto ineludibile.  

Pilato tenta di salvare Gesù e poi si arrende all’Ineluttabile. E non se ne lava le mani. 


Nel corso dell’interrogatorio il governatore - che matura man mano la convinzione di trovarsi di fronte non a un volgare ciarlatano o a un comune bandito, ma a un uomo tanto innocente quanto misterioso nella sua personalità – tenta, rileva Schiavone, di salvare Gesù per due volte: proponendone dapprima la liberazione in alternativa con Barabba e poi presentandolo ai notabili dopo la flagellazione. In ambedue i casi la mossa fallì. Ma la decisione finale, di vita o di morte per l’accusato, spettava sempre al governatore, rappresentante di Roma. Fu allora per Schiavone che Pilato si convinse che Gesù “doveva” incontrare il destino che già era scritto. E più non s’oppose. Nemmeno si lavò le mani : “E’ impensabile che un prefetto romano avesse scelto, per proclamare la propria estraneità rispetto alla vicenda che si stava svolgendo, di affidarsi a un rituale come la lavanda delle mani, specificamente ebraico e del tutto estraneo alla propria cultura, sia religiosa sia giuridica, e che peraltro, secondo la tradizione biblica, avrebbe dovuto essere compiuto dopo l’uccisione della vittima e non prima”. Così, concludendo, torniamo a Tertulliano: (Pilatus) pro sua conscientia Christianus. 
PONZIO PILATO: FU FORSE ‘CRISTIANO NEL CUORE’? – di GIUSEPPE RUSCONI –www.rossoporpora.org – 25 marzo 2016

Il luogo del processo di Gesù dinanzi a Pilato


È stato scoperto il luogo dove Gesù fu processato da Pilato?
A questo interrogativo nel dicembre 2014, forse, si è data una risposta, venendo resa nota la scoperta dei resti del palazzo di Erode, nel quale Gesù fu processato da Pilato. La notizia è stata diffusa in Italia ed all’estero nei primi giorni del 2015 (cfr. Gerusalemme, gli archeologi scoprono il luogo del processo a Gesù, in La Stampa, 5.1.2015Ivan Francese,Scoperto il palazzo di Erode: qui venne processato Gesù?, in Il Giornale, 5.1.2015; F.Q.,“Gesù fu processato qui?”. Per gli archeologi Usa trovato il palazzo di Erode, in Il Fatto quotidiano, 5.1.2015Mario IannaconeIl luogo del processo a Gesù: nuove ipotesi, inAvvenire, 6.1.2015Cfr. anche Site of Jesus’ trial unearthed? Archaeologists believe they have found remains of Herod’s palace in Jerusalem, under former Turkish prison near Tower of David Museum, in The Columbian, Jan. 9th 2015Ruth EglashArchaeologists find possible site of Jesus’s trial in Jerusalem, in The Washington Post, Jan 4th, 2015;Robin NgoTour Showcases Remains of Herod’s Jerusalem Palace—Possible Site of the Trial of Jesus, in Bible History Daily, Oct. 12, 2015).

«Questo è il luogo dove Gesù è stato processato»

di Chiara Rizzo

Da pochi giorni sono visitabili i resti del palazzo di Erode a Gerusalemme. Intervista all’archeologo statunitense Shimon Gibson, che ci spiega cosa spinge gli studiosi a ritenerlo il luogo del processo a Cristo
Da neanche una settimana nella città vecchia di Gerusalemme, accanto alla porta di Giaffa, sono visibili al pubblico per la prima volta i resti del palazzo di Erode il Grande, scoperti nel 2000 durante gli scavi alla Torre di David. Avvolto per anni nel mistero, quel palazzo (costruito nel 25 a.C.) sarebbe stato occupato all’epoca in cui visse Gesù dal procuratore romano a Gerusalemme Ponzio Pilato, e proprio qui Cristo potrebbe essere stato processato e condannato alla crocifissione. Ne è convinto per esempio l’archeologo statunitense Shimon Gibson, da anni impegnato a Gerusalemme in diversi scavi: «Mancano le iscrizioni che confermino con certezza cosa sia successo in quel luogo, ma tutti gli indizi, archeologici, storici ed evangelici, fanno pensare che fosse proprio questo il luogo del processo a Gesù», dice. Gibson, docente di Archeologia all’Università del North Carolina e capo del dipartimento archeologico dell’Università della Terra Santa, racconta a tempi.it il lungo lavoro con cui ha unito uno per uno, in quindici anni, i tasselli della ricerca storica fino a convincersi che il palazzo di Erode «sia il luogo dove Gesù è stato processato».

Lei ha svolto un’ampia indagine, incrociando testi evangelici e di storici. Quali indizi l’hanno convinta?
Tito Flavio Giuseppe (37-100 d.C.), uno storico romano di origine ebraica, nel 70 d.C. scriveva: «Pilato, dopo aver sentito che costui (Gesù) era accusato dagli uomini di più alto rango, lo aveva condannato». Il più celebre Tacito, intorno al 115 d.C., cioè 80 anni circa dopo la morte di Cristo conferma: «Cristo era stato condannato alla pena di morte durante il regno di Tiberio, per sentenza del procuratore Ponzio Pilato, e la rovinosa superstizione (il cristianesimo, ndr) fu momentaneamente soffocata». Passiamo alla descrizione nei documenti dei luoghi di questa condanna. Anzitutto sappiamo, da tutti i Vangeli, che dopo l’arresto al Getsmani Gesù fu portato nella casa del sacerdote Caifa per essere interrogato. Nel vangelo di Giovanni (18; 15-19) si apprende che «lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno». L’esatta locazione della casa di Caifa non è nota: tuttavia, la tarda tradizione bizantina l’ha collocata nella zona occidentale della città, proprio non lontano dai resti del palazzo abitato dall’allora governatore romano. Il vangelo di Marco non dice molto sul luogo in cui si tenne il processo, se non che la folla «accorse» da Pilato, «mentre egli sedeva in tribunale» (Mc, 15; 8). Matteo aggiunge però che Pilato «sedeva sul suo scranno in tribunale», in greco il “bema”. È un primo indizio. Lo scranno di Pilato potrebbe essere della stessa specie di quello usato dal figlio di Erode il Grande, il tetrarca Filippo, descritto dallo storico romano Flavio Giuseppe che raccontava si trovasse nel palazzo di Erode: «Il trono su cui sedeva quando emetteva giudizi lo seguiva ovunque egli andasse».

Una cartina elaborata dal professor Gibson
mostra sull’angolo a sinistra l’area del palazzo di Erode,
comprendente un 
praetorium.
Con i trattini viene indicato il
probabile percorso della via verso il Golgota

Passiamo al secondo indizio.
Nel Vangelo di Marco si ha l’impressione che il processo a Gesù si sia tenuto in un’area all’aperto, dato che leggiamo: «Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la corte» (Mc 15; 16). La stessa impressione si ha nel testo di Matteo: «Allora i soldati condussero Gesù nel pretorio, e radunarono attorno tutta la coorte» (Mt 27; 27). Alcuni studiosi hanno in passato ritenuto che ilpretorium fosse un edificio interno. Ma una coorte romana in media raggruppava 600 soldati e sarebbe servito un luogo più ampio, aperto. In effetti, secondo Flavio Giuseppe il palazzo di Erode aveva un’area residenziale verso nord, protetta da tre alte torri (i resti di una delle quali sono oggi stati recuperati) e da un muro di difesa, con un largo e meraviglioso giardino, e un accampamento militare, cioè proprio un “praetorium”. Accanto al palazzo sono stati ritrovati i resti di una porta, che io ritengo essere quella “degli Esseni”: una porta che avrebbe rappresentato una via d’accesso speciale per il re Erode, poi per il Governatore, e per i soldati e accanto alla quale sono stati ritrovati i resti di un’ampia corte dove potrebbe essersi radunata la folla all’epoca del processo. Il palazzo consisteva di due ali gemelle, cioè due palazzi squadrati. Le zone di servizio, come le cucine o i magazzini, si trovavano a nord del palazzo nell’area attualmente occupata dalla corte della cittadella e corrispondono con i resti visibili oggi. Il palazzo era elevato proprio su un imponente piattaforma, parte della quale ora è stata scoperta con gli scavi archeologici sotto il Giardino Armeno. Si tratta di un terzo importante indizio.

Perché?
I governatori romani, nei territori controllati, dispensavano la giustizia in un’arena pubblica, come una corte, o una piazza adiacente il praetorium, con uno scranno del giudice posto su una piattaforma rialzata, cui si accedeva da una scalinata. È questo che in latino viene definito “tribunale”, con la stessa parola usata nei vangeli. Il palazzo di Erode calzerebbe perfettamente a questa descrizione del tribunale, ma anche a quella evangelica. Il vangelo di Giovanni offre infatti ulteriori informazioni sul luogo in cui si è tenuto il processo: «Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi (i sacerdoti, ndr) non vollero entrare per non contaminarsi. Uscì dunque Pilato verso loro»; «Pilato allora rientrò nel pretorio» (Gv 18; 28-29). Ci suggerisce che il processo ebbe luogo in uno spazio aperto dove si trovava la folla dei Giudei infiammata, con Pilato che interrogava Gesù all’interno del palazzo, al piano del pretorio, dove Cristo fu anche flagellato. Poi Giovanni aggiunge: «Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale (in greco “bema”, cioè lo scranno), nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà». Gabbatà, secondo lo storico Flavio Giuseppe, in aramaico significava “luogo elevato”, ed è così che egli descriveva il tribunale usato dai romani proprio in una parte del palazzo di Erode. Uno strato di roccia su una parte del sito corrisponde esattamente al luogo elevato descritto come tribunale dallo storico e dall’evangelista Giovanni. Litòstroto in greco significa invece pavimento lastricato di pietre. Il luogo scoperto oggi contiene proprio una corte interna pavimentata in pietre. In effetti il palazzo sarebbe stato il luogo ideale per condurre un processo pubblico, seppur sommario, perché l’accampamento militare o “praetorium” e le tre torri consentivano ai romani di monitorare la folla accalorata radunata nella vicina corte. Molto probabilmente Gesù fu caricato della croce nelpraetorium accanto al palazzo, e da lì condotto verso la Porta Gennath o del Giardino, da cui fu fatto salire al Golgota.

Tuttavia nella via crucis attuale, sin dal medioevo si considera come tribunale il luogo chiamato “Fortezza Antonia”. Perché secondo lei non sarebbe quello giusto?
È molto difficile che fosse quello dal momento che serviva principalmente come torre di osservazione militare. Si affacciava sul Monte Tempio, l’attuale spianata delle moschee, e i soldati potevano da lì tenere sempre d’occhio la folla dei fedeli, per evitare insurrezioni o proteste. La torre era sì elevata, ma era troppo stretta per servire da residenza del governatore e da quartier generale dei soldati. Della struttura non è sopravvissuto quasi nulla se non la base in roccia, che ho misurato personalmente: 90 metri per 40, contro i 140 metri per 140 del palazzo di Erode che hanno convinto maggiormente la quasi unanimità degli archeologi.

Fonte: Tempi, 12.1.2015
http://www.scuolaecclesiamater.org/2016/03/il-luogo-del-processo-di-gesu-dinanzi.html

1 commento:

  1. Mi pare che la figura di Pilato sia il pretesto per limare altre responsabilità. Gesù conosce la volontà dei capi e la ricorda al governatore della Giudea. Ciò che lo addolora è proprio l'adesione del popolo , certo non tutto ma una parte sì "Figlie di Gerusalemme non piangete su di me " ecc.

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