ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 27 marzo 2016

Sembra di leggere di un’altra religione,

Abbiamo bisogno degli eremiti di una volta!

Si legga, nel giorno della crocifissione di Cristo, “Gli eremiti del deserto” (Quodlibet) in cui con stile piano e per nulla devozionale Ermanno Cavazzoni racconta le autopunizioni dei Santi che dimoravano solitari nei deserti di Egitto, Palestina e Siria.
Santi che non mangiavano o non bevevano o non dormivano, che vivevano in cima a colonne o in fondo a cisterne vuote, magari appesantiti da ottanta chili di catene, Santi che non avevano indulgenza per sé stessi e nemmeno per gli altri: Sant’Ilarione rimproverò un’indemoniata, dopo averla liberata, perché pur essendo vergine qualche spiraglio a Satana l’aveva offerto di sicuro. Negli eremiti di quei lontani secoli era fortissimo il senso del peccato, il timore del Male, l’incombere del giudizio. Leggendo le loro vite sembra di leggere di un’altra religione, molto più efficace del cristianesimo senza croce che va per la maggiore. Innanzitutto quei campioni della fede guarivano i malati, e inoltre, all’occorrenza, ammansivano le belve feroci. “Questa guerra si argina solo con una politica di integrazione” ha detto il vescovo Galantino: chiedendo il soccorso dello Stato, e non di Dio, ha dimostrato di non saper ammansire nemmeno una zanzara. Prego perché dal deserto arrivi un eremita del tipo di colui che veniva morso dalle vipere e si curava con un segno di croce e si salvava.
di Camillo Langone | 25 Marzo 2016 
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Una folla nel deserto degli eremiti
Ermanno Cavazzoni «Il Sole 24 Ore. Domenica» 31-01-2016
Oggi il fisco è un forte ostacolo per «stiliti», «ipetri» e altri meditatori isolati che proliferavano tra il III e il V secolo

Queste vite di eremiti sono cavate da libri un tempo molto conosciuti e diffusi in tutto l’Occidente; sono eremiti vissuti tra il III e il V secolo dopo Cristo; nelle zone dell’attuale Medioriente fatte di deserti sabbiosi o pietrosi, e montagne dirupate e aride. Fuggivano dal consorzio umano, specialmente dalle città, per vivere in solitudine col minimo indispensabile. Era un’epoca in cui questa fuga era possibile. Oggi un eremita non saprebbe più dove andare; non ci sono più luoghi senza proprietario e senza Stato che li controlli; un eremita oggi sarebbe soggetto al fisco, e l’eremitaggio una professione con iscrizione all’albo professionale, il reddito e le spese da documentare, e moduli da compilare con l’ausilio di almeno un commercialista.
Non è più possibile scappare. E di conseguenza anche i demoni che popolavano i luoghi deserti, si sono trovati disoccupati (minacciati essi pure dal fisco, nel caso siano considerati persone fisiche o associazioni); per venire alla fine scacciati dalle missioni archeologiche, dalle automobili, dai turisti, dai nuovi hotel e dai pozzi petroliferi, di cui non sopportano neppure l’odore.
Ho sempre letto queste vite con ammirazione e invidia, per quei tempi di libertà, di povertà volontaria non sindacalizzata, di avventure interiori e incontri fantastici straordinari (...). Numerose le stravaganze, specie negli eremiti siriani, che si davano regole particolari: c’erano gli ìpetri, che non avevano tetto e vivevano all’aria. Gli stiliti, in piedi su una colonna. Gli stazionari, immobili in una posizione, con pesi e catene addosso. E i reclusi, costretti in una tomba, in una cassa o in una cavità. Teodoreto di Ciro li paragona ad atleti, in lotta contro se stessi (...).
Or. Sul monte della Nitria ha vissuto Or: mangiava solo erba. Era analfabeta. Ma un giorno i confratelli gli diedero in mano un libro e lui lo lesse dall’inizio alla fine.
Beno. Eccelleva nella mansuetudine, né aveva mai detto una parola che fosse inutile. C’era lì attorno un ippopotamo che devastava i campi. I contadini chiamarono Beno, che venne dov’era l’ippopotamo; lo guardò fisso negli occhi e gli disse: «Nel nome di Gesù non continuare a rovinare queste terre». L’ippopotamo scappò via e non tornò mai più. Nello stesso modo Beno fece scappare anche un coccodrillo.
Teone. Visse nella sua cella presso Ossirinco per trent’anni in perfetto silenzio. Venivano a trovarlo molti ammalati; lui metteva fuori un braccio da un finestrino, poneva la mano sul capo e l’ammalato andava via sano. Una notte vennero i ladri, ma per via delle sue preghiere restarono incollati alla porta, senza riuscire a muoversi. Quando usciva e andava a bere lo seguiva una compagnia numerosa di bestie selvatiche; lui cavava l’acqua dal pozzo anche per loro. Apollonio. Si era ritirato nella Tebaide in solitudine a quindici anni e c’era rimasto per quarantacinque. «Signore – disse Apollonio – togli la presunzione dal mio cuore». Una voce disse: «Metti una mano sulla tua nuca e stringi». Apollonio mise la mano e vi trovò una specie di nano etiope che gridava: «Sono il demonio della superbia». Lui lo seppellì nella sabbia. In Egitto abbondano i monaci perché là abbonda l’empietà: gli egiziani venerano i cani e le scimmie, venerano l’aglio, la cipolla e l’insalata; oltre che il bue, l’acqua e la terra.
Padremuzio. Il presbiterio Coprete racconta che Padremuzio aveva molta cura e rispetto dei morti, che vestiva per bene; quando un giovinetto suo allievo morì, Padremuzio lo rivestì degli abiti funebri, poi gli chiese: «Ti bastano gli abiti o ne vuoi degli altri?» Il giovinetto davanti a tutti alzò la testa e disse: «Basta così». Tutti restarono attoniti e sbigottiti, mentre Padremuzio tranquillamente lo prese, lo seppellì e tornò al suo eremo. Eleno. Un giorno che aveva addosso un gran peso vide nel deserto una fila di asini selvatici. «Ehilà – disse – c’è qualcuno che mi dà una mano?» Un asino uscì dalla fila e si mise a disposizione di Eleno. Un giorno che doveva traversare il Nilo infestato da un coccodrillo, lo chiamò e il coccodrillo mansueto come un agnellino lo portò di là. Poi bastava che lo chiamasse e il coccodrillo veniva per traghettarlo. Ma nessun altro si fidava a montare con lui. Allora lo chiamò e gli disse: «Forse è meglio tu muoia, piuttosto che ti prenda la voglia di compiere ancora reati e omicidi». Così detto il coccodrillo si afflosciò morto.
Abba. Ha passato trentotto anni nel deserto; non si è mai messo le scarpe; quando
gela sta all’ombra, quando fa caldo d’estate sta al sole e considera i raggi infuocati come un soffio di zefiro. Si è sempre rifiutato di bere. Sta in piedi la maggior parte del giorno e della notte con una pesante catena sui fianchi; qualche volta in ginocchio. Quanto al dormire, vi ha rinunciato completamente e nessuno l’ha mai visto sdraiato.
Ascepsima. Stava chiuso in una casupola dove ha passato sessant`anni. Una volta la settimana, di notte, usciva per prendere un po’ d’acqua a una sorgente vicina. Un pastore una notte lo scambiò per un lupo perché camminava tutto chinato; prese un sasso per tirarglielo, ma gli restò la mano paralizzata.
Salamane. Si era consacrato alla vita silenziosa. Stava chiuso in un casottino senza porte né finestre, su una riva dell’Eufrate. Una notte gli abitanti dell’altra parte del fiume, lo presero e lo trasportarono in spalla di là, e gli costruirono attorno un casottino identico all’altro. Ma poche notti dopo gli abitanti della riva opposta lo riportarono di qua, senza che lui si opponesse o si dibattesse o si esprimesse a favore o contro. Durante questi traslochi si comportò sempre come se fosse un morto.
Giacomo. Fu allievo del famoso Marone. Era salito su una montagna tutta pelata, dove stava esposto alle intemperie: ora sommerso da un violento acquazzone, ora bruciato dai raggi del sole. A volte la neve cadeva per tre giorni e tre notti di seguito e Giacomo sdraiato con la faccia a terra ne era sepolto a tal punto che non si vedeva neppure un brandello dei cenci che portava addosso. Spesso i vicini, spianando con rastrelli la neve accumulata, lo tiravano su e lo svegliavano.
Giovanni. Abita sulla cresta frastagliata di un monte, battuta da continue tempeste. Sta lì da venticinque anni in balìa degli eventi meteorologici. Sulla cima di un’altra montagna c’è un tale Mosè. E su un’altra montagna completamente desertica, c’è il vecchio Antonino, su un’altra ancora l’anziano Antioco chiuso dentro a un recinto. E ce ne sono altri, ognuno sulla cima di un monte, e non è facile raccontare la vita di ognuno. Asclepio che era dello stesso gruppo, preferiva stare due chilometri lontano dagli altri.
Zebina. Era giunto all’estrema vecchiezza, che non gli consentiva di sopportare la posizione eretta costantemente; perciò portava come sostegno un bastone, e appoggiato a questo cantava giorno e notte. La sera faceva restare presso di sé molti di quelli che venivano da lui. Ma questi, per timore di dover stare tutta la notte in piedi con lui, trovavano pretesti, o impegni già presi, pur di evitare quella fatica. Il suo allievo Policronio si era fatto portare un’enorme radice di quercia; di notte se la mette sopra le spalle e stando in piedi pregava; la teneva anche di giorno quando non aveva nient’altro da fare. Teodoreto dice che con due mani era riuscito a malapena a spostarla.
Eliodoro. Visse fino a sessantacinque anni, e ne aveva passati sessantadue rinchiuso in una cella dove era entrato a tre anni. Non aveva visto perciò nulla del mondo. Diceva di non sapere com’è fatto un maiale o un pollo, o altre bestie consimili.
Baradato. Stava in cima a un’altura, dentro una cassa di legno che aveva fabbricato con le sue mani; e doveva stare tutto curvo perché la cassa era più corta di lui; ma a parlargli ragiona meglio di chi ha studiato Aristotele.
Taleleo. Aveva fabbricato una specie di gabbia di legno, con due assi rotonde, una sopra e una sotto; e l’aveva appesa a tre lunghi pali legati in cima. Lui sta dentro questa gabbia cilindrica, alta novanta centimetri e larga quaranta. E sta lì da dieci anni sospeso per aria, piegato in due, conia faccia sulle ginocchia. I vicini dicono che compie molti miracoli, non solo sugli uomini, ma anche su cammelli, asini e muli.
Domnina. La meravigliosa Domnina ha fatto costruire in giardino una capanna di steli di miglio. E vi abita mangiando lenticchie. La sua pelle è come una membrana che ricopre le ossa; tutti la possono vedere, ma lei non vede nessuno perché ha la testa coperta da un telo. Si sentono solo venire dei suoni impercettibili, è lei che piange sempre; si esprime solo così.
Digiuni ed esorcismi. Gli eremiti cristiani spiegati da Cavazzoni
Claudia Gualdana «Libero» 18-02-2016
Ritratti di santi «folli»

A leggerlo, si capisce perché Federico Fellini per il film La voce della luna si sia ispirato a un suo libro del 1987, Il poema dei lunatici. Ermanno Cavazzoni racconta con un'ironia quasi priva di intenzione, trasformando cose serie in semiserie senza mai tradire la verità. È così anche ne Gli eremiti del deserto (Quodlibet, pp. 134, euro 14), in cui scartabella fonti millenarie per restituirci personaggi in grado di far sbiadire la figura di Milarepa, il celebre anacoreta buddhista. A leggerne le storie, si stenta a credere di averli dimenticati nel nome di un esterofilia più occidentale che italiana, la quale sacrifica la grandezza del culto tradizionale in favore di altri.
Cavazzoni non ci fa pesare di aver scomodato le opere di San Girolamo, Atanasio, Rufino, l'Historia Lausiaca, e poi ancora Teodoreto. Tutti vissuti tra il IV e il V secolo d.C., li a raccontarci di uomini che scelsero la solitudine e la miseria per consacrare la propria vita a Dio. Storie da far impallidire Siddharta che si macera per anni sotto un albero in attesa dell'illuminazione. Molti, tra i nostri santi, neanche lo avevano un albero. E neppure lo volevano.
Si rintanavano nei luoghi più impervi del deserto, in Palestina, in Egitto e in Siria, per sfuggire alle moltitudini e pregare, resistendo alle tentazioni del demonio. Rincorsi, loro malgrado, da genti ansiose di essere guarite da malanni. Alcuni sono, alleggeriti dalla penna dell'autore, addirittura divertenti. Soprattutto gli eremiti siriani, i più eccentrici, tra i quali ricordiamo Simeone, famosissimo già ai tempi suoi. La fama di guaritore aveva raggiunto i sudditi dell'impero romano, ma anche persiani, medi, etiopi e sciti. Tuttavia lui non voleva nessuno intorno e alla fine, lasciata la vetta dove si era legato a una pietra con una catena di ferro standosene a pregare con gli occhi fissi al cielo, si era trasferito in cima a una colonna. Gli piaceva stare vicino a Dio, ma soprattutto lontano dagli uomini.
Altri ancora sono celebri. Come Antonio con le sue tentazioni. Egiziano, un giorno in chiesa sentì dire: «Vendi tutto e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo». E così fece. Se ne andò tra i sepolcri lontano dalla città, mangiando solo pane all'imbrunire e dormendo sulla terra dura. Alla fine trovò rifugio in una tomba vuota, ma persino li i demoni che lo tormentavano lo raggiunsero per picchiarlo.
Quindi si trasferì in una fortezza abbandonata. II suo peregrinare tra tentazioni e amor di Dio durò oltre cento anni, perché i digiuni e le privazioni non avevano minato né il suo corpo né la sua anima. Una volta lo raggiunsero dei filosofi, e lui diede prova di logica e lucidità mentale sparigliando i loro sillogismi: Dio era più forte di tutto.
L'elenco è lungo e non annoia mai. Tra gli altri, ci sono llarione che recitava a memoria le Sacre Scritture e si cibava di radici crude. Paolo che aveva trovato rifugio in una zecca clandestina di Antonio e Cleopatra: passò la vita in solitudine cibandosi dei datteri di una palma. Macario di Alessandria che «traversava il deserto come fosse un mare, orientandosi con gli astri» e aveva liberato molti indemoniati e guarito una paralitica di nobili origini venuta a lui fin da Tessalonica. C'è anche il semisconosciuto Didimo, buono al punto da potersi permettere di camminare sugli scorpioni e sui serpenti, poiché questi non gli facevano niente.
Cavazzoni: «Racconto gli eremiti perché c'è tanto bisogno di silenzio»
Cesare Sughi «Il Resto del Carlino» 21-02-2016
Presenta il suo nuovo libro domani al San Leonardo con musicisti in scena
«Se proprio devo scegliere», esclama, a domanda, ErmannoCavazzoni, «il mio preferito è Simeone, che per isolarsi dal mondosi stabilì su una colonna, prima una alta tre metri, poi sei, poidieci, fino a diciotto, ma era un accorrere continuo di gente che imploravano la sua benedizione o li presentavano dei paralitici da guarire. Non mangiava e non dormiva, e la notte conversava conDio».
Sono una sessantina le figure di asceti che l'autore del Poema deilunatici e delle Leggende dei santi raccoglie adesso nel volumettoGli eremiti del deserto, edito da Quodlibet, al centro della letturadi domani sera – ore 20.30, Teatro San Leonardo –, con cui Cavazzoni aprirà la rassegna Lune del Lunedì. Letture stravaganti per strumenti altrettanto da lui stesso curata.

Perché tanto interesse per queste figure?
«Io ho una certa predilezione per i comportamenti di chi sta decisamente fuori dal coro e dall'ovvietà. Tipi stralunati, strampalati il più delle volte. Ma il guaio del nostro tempo è l'impossibilità di trovare un poco di solitudine dal resto degli uomini. Non si può più scappare, né dalle città né dai luoghi meno frequentati».

E questo sarebbe tanto grave?
«Innanzitutto chi non socializza finisce fuori dal gioco. Viene ritenuto un malato. E invece potere isolarsi, poter riassaporare il silenzio è una pratica psicologica preziosissima, uno strumento di autoanalisi. Ho avuto per un po' una casa a Venezia, e posso testimoniarlo».

Come ha scoperto questi personaggi?
«Ho preso spunto dalle vite narrate da Atanasio, da san Girolamo e, per gli eremiti della Siria, dalle pagine di Teodoreto di Ciro. La cosa che mi ha colpito è che, all'atto pratico, chi cercava la solitudine nel deserto finiva circondato da una quantità di persone, sia perché i deserti si riempivano di eremiti desiderosi starsene in pace con le loro preghiere, sia perché arrivavano da ogni parte folle di devoti, di oranti, con le loro richieste di qualche miracolo».

Una fuga continua, come se non ci fosse mai un posto per fermarsi...
«C'è un caso che spicca tra tutti gli altri, quello di Ilarione, natopochi chilometri a sud di Gaza. Per seguire l'esempio di Antonio,uno dei più famosi eremiti, che visse 105 anni fra il terzo e il quarto secolo, si ritirò anche lui nel deserto fin da giovane. Ma non ebbe modo di trovar pace. Tutti lo cercavano, lo imploravano, giungevano fin dalla Germania, girò dovunque nel vano tentativo di restare solo, fino alla Sicilia e a Cipro dove finalmente trovò un luogo inaccessibile tutto per sé».

Lei sarà accompagnato dalle musiche di Vincenzo Vasi eValeria Sturba. Perché?
«Nel deserto gli eremiti erano assediati dai demoni, marron si trattava sempre di serpenti o di donne discinte. Per loro c'erano delle tentazioni rappresentate dai disturbi sonori: vagiti, un soldato morente che chiede aiuto, un bimbo nero che si lamenta. Suoni stravaganti. Come quelli che si ascolteranno lunedì».

Gli eremiti del deserto di Cavazzoni? Circondati dalla folla
Raffaele Aragona «Il Mattino» 29-02-2016
Sono trascorsi quasi trent'anni dall'anno del primo libro di Ennanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici (1987), quello che colpì l'attenzione di Fellini che invitò lo scrittore a collaborare alla sceneggiatura di «Le voci della luna». È da allora che gli scritti dell'autore emiliano viaggiano sul filo dell' essere lunatico, il cui senso si ritrova in molte delle opere successive: a cominciare da I sette cuori (1992), che rivela anche quella che sarà la sua partecipazione all'Oplepo (l'Opificio di Letteratura Potenziale), per continuare con Vite brevi di idioti (1994), Gli scrittori inutili (2002),Storia naturale dei giganti (2007), Guida agli animali fantastici(2011), La valle dei ladri (2014) che descrivono mondi immaginari ai margini della follia e dell'assurdo. E, se la sua scrittura, funambolica, ha il carattere del sogno che naviga attraverso
Insoliti e stravaganti confini, la lettura delle sue pagine, specie quando è fatta in diretta, scatena un sottile, irrefrenabile e intelligente sorriso.
Cavazzoni pratica una forma di letteratura che travalica i confini ordinari legati al giudizio estetico e artistico; egli preferisce andare oltre, invadendo il territorio delle fantasticazioni
(Il limbo delle fantasticazioni è proprio il titolo di un suo libro del 2009). Così anche in questo suo ultimo lavoro, Gli eremiti del deserto (Quodlibet, pagine 136, euro 14), il registro e il tono sono riconducibili a quelli degli scritti precedenti, ma questa volta il contenuto è veritiero; è soltanto la forma che fa immaginare una sorta di invenzione. Le storie di 60 eremiti, per un verso leggende, ma per altri versi reali, partono da fonti certe, come le opere di San Girolamo, di Atanasio, Rufino e Teodoreto, le quali narrano di tanti che dedicarono la propria vita a Dio scegliendo la solitudine.
La penna di Cavazzoni è leggera e conferisce alle storie una veste leggera, tanto da far
dubitare della loro veridicità. Come la storia di Simeone, un eremita siriano la cui fama di guaritore fece sì che fosse tanta e tanta la gente ad accorrere da ogni parte per chiedere benefici cercando di toccare il suo famoso mantello di cuoio: stanco di tutto ciò, Simeone pensò di stabilirsi su di una colonna altissima sulla quale rimase a condurre la propria vita di preghiera poiché gli piaceva stare vicino al cielo. E così accade per molti degli «eremiti» di queste storie: cercavano solitudine e finivano per essere assediati da folle di fedeli imploranti; come per Ilarione, nato in Palestina, il quale si ritirò nel deserto tentando di trovare la pace fuggendo a tentazioni di ogni genere come l'apparizione di donne nude o la visione di piatti succulenti; lo cercavano in tanti, però, sempre a supplicare grazie e guarigioni. Se ne andò allora in giro alla ricerca di solitudine, fino alla Sicilia dove pure in tanti continuarono am seguirlo, e ancora fino a Cipro dove finalmente raggiunse un luogo inaccessibile tutto per sé.
Tutte storie d'altri tempi. Lo riconosce Cavazzoni stesso in un suo scritto parallelo a proposito dell'impossibilità di un qualsiasi eremitaggio al giorno d'oggi, quando le difficoltà sarebbero tante e con costi altissimi a partire dall' accumulo di tutte le tasse e le bollette non pagate che l'eremita diventerebbe un evasore; se proprio insistesse nel proposito, l'aspirante eremita avrebbe da programmare tutto per tempo ma ce ne vorrebbe tanto e tanta fatica che, chissà, finirebbe per rinunciare!
Ancora una volta Cavazzoni mostra di prediligere una scrittura che si discosta dal concetto di una letteratura «forte», trasmettitrice di esperienze fondamentali e utili per la vita.

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