ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 13 aprile 2016

Dall' 11 Ottobre all'11 Settembre..

I PROFETI DI SVENTURA

Forse tutto è cominciato l’11 ottobre 1962 con la deplorazione dei profeti di sventura. Anche Gesù Cristo deve essere annoverato fra i profeti di sventura? Qual è la missione di un profeta: rassicurare la gente o metterla in guardia 
di F. Lamendola


L’11 ottobre 1962 si apre il Concilio Vaticano II, in un clima di aspettative esagerate, sobillato dalla pressione dei media.
Vi assistono 85 ambasciatori straordinari di Stati e organizzazioni mondiali, come la F.A.O. e l’U.N.E.S.C.O, e anche gli inviati di quegli Stati che non intrattengono regolari rapporti diplomatici con il Vaticano, come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. Il discorso di apertura viene tenuto dal pontefice, Giovanni XXIII, in persona: intitolato Gaudet Mater Ecclesia, risuona nella Basilica di San Pietro, nel corso di una cerimonia quanto mai solenne. E in quel discorso c’è già l’indirizzo che il Concilio poi assumerà: una dichiarata volontà di rinnovamento, di dialogo, di apertura verso il “mondo”. Come se la Chiesa, da secoli, sia rimasta ferma a rovistare fra le sue memorie; come se abbia disimparato a dialogare e abbia bisogno di riprendere il filo interrotto di un discorso rivolto agli uomini, sia dentro che fuori di sé.

Giovanni XXIII dice chiaramente che la Chiesa non intende rimproverare al mondo moderno i suoi errori, allusione fin troppo trasparente al pontificato di Pio IX e al Sillabo nel quale, quasi cent’anni prima (1864), questi aveva accomunato, in una stessa condanna, tutte le nuove correnti del pensiero – liberalismo, democrazia, socialismo, libertà di stampa e di pensiero, pluralismo religioso – ed i nuovi stili di vita, i nuovi “valori” della cultura borghese e della civiltà industriale. Tuttavia, il passaggio che, probabilmente, fa più scalpore, al punto da divenire proverbiale e da essere poi ripreso e citato infinite volte, per anni, per decenni, è quello in cui Giovanni XXIII si scaglia contro i “profeti di sventura”, ossia contro quanti, paventando i pericoli della modernità, vorrebbero arroccarsi a difesa di una tradizione che a suo dire, pur essendo eterna e immutabile nella sostanza, non lo è, però, nelle forme, per cui egli si dice certo e convinto che la Chiesa possa e debba avviare un profondo processo di revisione e di riforma delle forme liturgiche e pastorali, in modo da renderle capaci di entrare in relazione con la mentalità degli uomini moderni, che è rapidamente mutata nel corso delle ultime generazioni.
Ebbene, forse tutto è incominciato in quel giorno, in quel momento, quando un Pontefice romano se la prende con i “profeti di sventura” e traccia la via obbligata alle riforme imminenti; dimenticando che tutti i profeti, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, da Isaia, Geremia ed Ezechiele, fino a Giovanni il Battista, agli Apostoli e allo stesso Gesù Cristo, non hanno profetato un roseo futuro per l’umanità, qualora essa non si converta e non ascolti la parola d Dio, ma, ben al contrario, un futuro di rovine, distruzioni, sofferenze: a cominciare da quelle famose parole del Salvatore sulla via del Calvario (Luca, 23, 28-31): Non piangete su di me, figlie di Gerusalemme, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! E ai colli: Copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”.
Pertanto non possiamo fare a meno di chiederci: anche Gesù Cristo deve essere annoverato fra i profeti di sventura? E ancora: qual è il compito, qual è la missione di un profeta: rassicurare la gente o metterla in guardia? Quale fu il compito che Dio affidò a Giona: rassicurare gli abitanti di Ninive, o annunciar loro l’imminente distruzione della loro città, a meno che non avessero cambiato vita e si fossero ravveduti dei loro molti peccati, che gridavano vendetta al Cielo?
Crediamo sia opportuno, a questo punto, riportare le parole precise del discorso Gaudet Mater Ecclesia (Gioisce la Madre Chiesa), nel quale Giovanni XXIII dichiarava quale fosse lo scopo generale del Concilio; lo facciamo riportando anche il commento di una importante biografia di papa Roncalli, pur se scritta poco dopo la sua morte, quando il Concilio non si era ancora concluso (da: Leone Algisi, Giovanni XXIII, Marietti, Torino, 1964, pp. 326-327):

“Nell’esercizio quotidiano del Nostro ministero pastorale arrivano al Nostro orecchio certe insinuazioni provenienti da uomini, brucianti certo di zelo, ma mancanti di larghezza di spirito, di discrezione e di misura. Questi uomini non vedono nei nostri tempi che provocazione e rovine: vengono a dirci che la nostra epoca è molto peggiorata rispetto ai temi passati. Si comportano come se non avessero appreso nulla dalla storia, la quale è tuttavia maestra della vita, e come se al tempo dei concili ecumenici precedenti trionfassero pienamente il pensiero e la vita cristiana e la giusta libertà religiosa. Certo, ci sembra necessario affermar eil nostro disaccordo con questi profeti di sventura che annunciano continuamente catastrofi, quasi la imminenza della fine del mondo. Allo stato attuale delle cose, la buona Provvidenza ci conduce verso un nuovo ordine di rapporti umani che attraverso il lavoro degli uomini e spesso fuori delle loro attese, si orienta verso il compimento dei suoi disegni supremi e inattesi. E tutto, anche la diversità umana, è disposto per il più gran bene della Chiesa..”
Il Papa passava poi a parlare dello scopo del concilio, affermando concetti che egli aveva lasciato più volte indovinare. Il primo era quello della sua importanza pastorale. Non si trattava, diceva “di una discussione su questo o quell’articolo d fede”, e lasciava così comprendere che non era il caso di pensare a qualche nuova definizione di dogmi. Si trattava invece “di presentare più efficacemente” questa dottrina, attraverso un adattamento al presente, alle “nuove condizioni e forme di vita introdotte nel mondo moderno, che hanno aperto un nuovo cammino all’apostolato cattolico”.
Penetrava qui l’idea luminosa di uno sviluppo omogeneo della dottrina e di una formulazione nuova di verità immutabili nella loro sostanza: “Lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un netto avanzamento nella penetrazione della dottrina e nella formazione della coscienza, in accordo più perfetto con la fedeltà professata vero la dottrina autentica, una dottrina studiata ed esposta secondo i metodi di ricerca e di presentazione usati dal pensiero moderno. Altra è la sostanza della fede antica contenuta nel deposito della fede, e altra la formulazione di cui la si riveste, regolandosi, per la forma e le proporzioni, sui bisogni di un magistero e di uno stile specialmente pastorali”.
Veniva allora la dichiarazione moto netta che il concilio non avrebbe anatemi contro gli errori attuali: “Oggi la Chiesa di Cristo preferisce adoperare la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità. Essa pensa di andare incontro ai bisogni dell’ora presente mostrando il valore del suo insegnamento più che servendosi di condanne” contro errori, quali il materialismo, la volontà di potenza, l’esaltazione della forza, l’idolatria della tecnica, che si dimostrano funesti già attraverso la nemesi delle loro conseguenze tragiche.

Il discorso di papa Roncalli suscitò, o meglio alimentò (a suscitarle ci avevano già pensato i media e le correnti cattoliche progressiste) enormi aspettative: parve a tutti che egli annunciasse un rinnovamento che, d'improvviso, appariva non solo necessario, ma estremamente urgente: ci si chiedeva come la Chiesa avesse fatto a rimandare così a lungo un passo tanto ovvio e palesemente improcrastinabile, addirittura vitale. E ciò a dispetto del fatto che, cosa mai accaduta in precedenza, e per bocca stessa del Pontefice, si dichiarasse che il Concilio non era chiamato a dirimere qualche difficoltà teologica, a confermare o meno qualche verità di fede, ma semplicemente a rendere più moderna, cioè più conforme ai tempi, la trasmissione della fede, precisando, però, che tale "aggiornamento" avrebbe riguardato, appunto, solo e unicamente la forma, non i contenuti, che restavano perenni ed eterni, perché ancorati al deposito della Fede, una e intangibile. In altre parole, si dichiarava e si riconosceva che non esisteva alcuna ragione teologia, alcuna urgenza dottrinale che avessero reso opportuno e necessario convocare un Concilio ecumenico; ma che si voleva rispondere agli errori del mondo moderno (che rimanevano tali) con la medicina della misericordia invece che con quella della severità. Un mutamento di prospettiva pedagogica, insomma, e null'altro.
Molte cose, però, fin dal discorso inaugurale Gaudet Mater Ecclesia, parevano smentire questa interpretazione riduttiva del fatto del Concilio. Davvero era necessario convocare un concilio ecumenico, con la partecipazione di oltre 2.500 vescovi da ogni parte del mondo, con la presenza di decine di ambasciatori e rappresentanti stranieri, con una attenzione senza precedenti da parte della stampa e degli altri mezzi d'informazione, soltanto per modificare le forme della pastorale cattolica, la liturgia, il modo di dialogare con il mondo e con le altre religioni? E, se era così, come mai al concilio erano stati invitati, non certo in posizione marginale, appunto dei teologi, alcuni dei quali (come Maritain) non erano neppure sacerdoti? Strano: in nessun concilio della storia della Chiesa i teologi avevano svolto un ruolo decisivo, ma questo era toccato sempre ai padri conciliari, ai cardinali e ai vescovi, pastori delle rispettive diocesi; ora, e proprio in occasione del primo concilio che non veniva convocato per ragioni teologiche, i teologi erano chiamati a darvi un apporto determinante, come sarebbe apparso in maniera sempre più evidente nel corso dei lavori; al punto che non è inesatto o fuorviante affermare che Maritain e Karl Rahner hanno svolto un ruolo decisivo nell'orientare il concilio in una certa direzione, diciamo di segno marcatamente "progressista" (anche se Maritain, poi, avrebbe fatto ammenda e lo avrebbe dichiarato apertamente, nel Contadino della Garonna).
E che significato aveva, poi, quel prendersela coi "profeti di sventura", lasciando intendere a chiare note che Giovanni XXIII stava parlando del partito dei conservatori, stigmatizzandoli come uomini di animo ristretto, privi di misura e discrezione, e schierandosi in tal modo, anticipatamente, preventivamente, dalla parte dei "progressisti", sì da indicare chiaramente entro quale orizzonte, in quale prospettiva i lavori conciliari avrebbero dovuto svolgersi? Da un lato, il papa mostrava di non volersi ingerire nella realtà concreta dei lavori conciliari, rispettando pienamente la "libertà" dell'assemblea (una libertà intesa in senso democratico, cioè libertà soggettiva da qualcosa, piuttosto che in senso teologico, cioè come libertà oggettiva, al servizio della Verità); dall'altro, con quell'anatema contro i "profeti di sventura", prendeva esplicitamente posizione,  in modo molto forte e persino offensivo, contro quanti fossero orientati a intralciare, ostacolare, ritardare l'avanzata del "nuovo".
Eppure, ragioni di preoccupazione ce n'erano, e non solo da una prospettiva religiosa, ma anche da un punto di vista puramente umano. Il mondo viveva col fiato sospeso per via della risi dei missili a Cuba: mai come allora, dicono gli storici, l'umanità è stata ad un passo dall'olocausto nucleare; mai come allora le due superpotenze giunsero ad un passo dalla decisione fatale di lasciare la parola alle armi, cioè alle testate nucleari, già pronte all’impiego e dirette verso i rispettivi bersagli. In tali condizioni, l'uomo cristiano non poteva non interrogarsi sul senso di una intera civiltà, che si spingeva fin sull'orlo del baratro, avendo ignorato e calpestato la legge divina per fare dell’uomo, orgogliosamente, il Dio di se stesso. E a che servono i profeti, se non devono far sentire la loro voce ammonitrice in frangenti di così estrema gravità? Forse che un profeta, ispirato da Dio, deve preoccuparsi di piacere agli uomini, e sforzarsi di dire cose ad essi gradite? Forse che nemmeno davanti a un pericolo così grande per l'umanità intera, per il mondo intero, un profeta deve ricordare agli uomini le loro responsabilità di fronte a Dio e di fronte ai loro simili, richiamarli alla conversione, rimproverarli per la loro superbia e per la loro durezza di cuore, esortarli ad abbandonare i vizi e le passioni dell'uomo vecchio, chiuso alla Grazia?
 Di più: dalle parole di Giovanni XXIII traspariva una lettura ottimistica della storia umana, che né alla luce del pensiero razionale, né, meno ancora, alla luce della fede, appare teologicamente sostenibile e condivisibile. Il fatto che il mondo sia aperto all'azione della Provvidenza non significa che ogni cosa andrà bene, sempre e comunque; non garantisce, preventivamente, il lieto fine, come se la Provvidenza fosse un Deus ex machina, che si sostituisce alla libertà umana. Quest'ultima, infatti, resta piena ed intatta, e, con essa, resta la responsabilità dell'uomo nei confronti di se stesso e dei suoi simili; resta la tragica possibilità che il Male prevalga - certo, sul piano del finito, ossia dell'esistenza terrena. Se così non fosse, il libero arbitrio sarebbe spento: e allora avrebbe avuto ragione Martin Lutero contro Erasmo da Rotterdam (e contro la Chiesa cattolica).
Peggio ancora: Giovanni XXIII afferma chetutto, anche la diversità umana, è disposto per il più gran bene della Chiesa. Affermazione che, non ulteriormente precisata, si presta a un gravisismo equivoco: perché se è vero che “tutto è Grazia”, è anche vero che, nel mondo della storia, ove agisce la libertà umana, la Provvidenza non è in grado di aiutare e salvare l’uomo contro la sua stessa volontà: se così fosse, ripetiamo, il libero arbitrio sarebbe cancellato. Bisognava precisare il senso di quella frase: bisognava ribadire che la Provvidenza conduce ogni cosa al bene, ma giammai contro il volere dell’uomo; e che al’uomo, pertanto, resta l’ultima parola quanto alla sua salvezza o alla sua perdizione. Perché non dirlo? E perché non ricordare la presenza, sempre minacciosa, del Diavolo, nella vita del singolo uomo così come in quella dei popoli e delle nazioni; di quel Diavolo che, ammonisce San Pietro nella sua Prima epistola, si aggira in mezzo a noi come leone ruggente, in cerca di anime da divorare? Forse per non offendere gli orecchi troppo sensibili degli ottimisti di professione e dei progressisti a tutto campo, i quali identificano Bene e Progresso e si dimenticano che il mondo terreno è solo una realtà fugace e transitoria, destinata a svanire al cospetto dell’Eternità?
Ancora. Giovanni XXIII, a un certo punto, pur precisando che le verità cristiane, nella loro sostanza, sono “immutabili”, subito dopo dichiara che lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un netto avanzamento nella penetrazione della dottrina e nella formazione della coscienza, in accordo più perfetto con la fedeltà professata vero la dottrina autentica, una dottrina studiata ed esposta secondo i metodi di ricerca e di presentazione usati dal pensiero moderno. Ma “avanzare”, anzi, “avanzare in modo netto” nella penetrazione della dottrina e nella formazione della coscienza, non equivale a contraddire quanto appena sostenuto?Avanzare non è sinonimo di approfondire: è sinonimo di andare oltre, dunque di cambiare. Cambiare cosa? La dottrina cattolica e la formazione della coscienza cattolica. Dunque la dottrina, così come era stata professata fino al giorno innanzi, non era realmente esatta? E la formazione della coscienza non era stata curata nella maniera giusta? Porre tali questioni, non equivale forse a entrare a tutto campo nell’ambito della teologia, del dogma, della Verità?
Per finire: che cosa significa sostenere che l’accordo con la “dottrina autentica” deve essere più perfetto? Dunque, durante il pontificato di Pio XII, o quello di Pio XI, e durante gli ultimi cinque secoli della sua storia (dal Concilio di Trento in poi), la Chiesa non ha saputo custodire e insegnare la dottrina, cioè la Verità, in modo perfetto? Ma dire che una cosa deve essere attuata in modo più perfetto, non equivale a negare che quella cosa sia perenne e immutabile? E non è della Verità cristiana che stiamo parlando? Dunque, la Verità cristiana è soggetta a modifiche, a seconda degli orientamenti teologici e pastorali di questo o quel momento storico, di questo o quel papa, di questo o quel concilio? E che dire della conclusione: che l’autentica (e perenne, e veritiera, e immutabile) dottrina cattolica deve essere studiata ed esposta secondo i metodi di ricerca e di presentazione adoperati dal pensiero moderno? Il pensiero moderno è irreligioso, materialista, anticristiano: come è possibile che l’eterna Verità cristiana sia travasata negli otri dell’uomo vecchio, l’uomo non cristiano, dominato dalla superbia intellettuale e dalle passioni disordinate, come ammonisce il Vangelo e come ribadisce San Paolo nella fondamentale Lettera ai Romani?
Non vogliamo nemmeno provare a rispondere. A rispondere, forse, sono i fatti: i fatti della realtà odierna, della Chiesa odierna, della odierna persecuzione anticristiana, sanguinosa in tante parti del mondo; incruenta, ma implacabile e silenziosa, nella culla della stessa civiltà cristiana: la nostra Europa. 

Forse tutto è cominciato l’11 ottobre 1962, con la deplorazione dei profeti di sventura...

di Francesco Lamendola

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.