Misericordia for all
… ossia, come abolire Dio e abolire il cattolicesimo attraverso la contraffazione della Sua misericordia. Dal papa emerito al vescovo di Roma e ritorno
di Patrizia Fermani
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L’atto di misericordia mira ad alleviare la sofferenza dell’altro, e normalmente ha il proprio antecedente logico e cronologico nella compassione, che significa comprensione e partecipazione, vicinanza emotiva e sentimentale, ma anche razionale, a chi soffre. Così ho compassione del mio simile perché sono capace di sentire su di me il suo dolore, in ragione del senso di appartenenza ad un’unica umanità sofferente e ad un’unica natura, ma ho anche compassione dell’uccello con l’ala spezzata. In ogni caso la compassione mi induce poi ad agire in modo “misericordioso”.
Tuttavia il cristianesimo ha riconosciuto la differenza profonda tra l’atto misericordioso gratuito, richiesto agli uomini verso i propri simili o dagli uomini a Dio, a Maria e ai Santi come aiuto per il male che li sovrasta, da quello redentivo di Dio verso il peccatore che ha violato la Sua legge ma si è pentito perché consapevole della propria colpa.
Infatti con la venuta di Cristo la misericordia di Dio ha assunto la forma specifica del perdono dei peccati che solleva dalla punizione eterna, invocato col miserere. Questo è sempre stato il senso del pentimento in punto di morte : si riconosce di avere violato la legge e si chiede di sfuggire al rigore del castigo . L’atto di misericordia rientra così nella “amministrazione della giustizia” divina, e ovviamente lascia intatto il comandamento violato di cui vengono emendate soltanto le conseguenze. Presuppone un rapporto di dipendenza tra beneficante e beneficato, e il fatto stesso che misericordia sia stato chiamato il pugnale col quale si dava il colpo di grazia o si otteneva la resa in qualche modo esprime questo particolare rapporto di subordinazione, lo stesso sotteso all’atto regale con cui il sovrano concede la grazia al condannato e che non per nulla chiamiamo “atto di clemenza”. Di questa fece esperienza Dostoevskij cogliendone anche il profondo significato redentivo.
La misericordia di Dio, a differenza di quella che invochiamo per alleviare le nostre sofferenze terrene è stata sempre preordinata alla salvezza ultraterrena, promessa dal Vangelo e predicata per secoli dalla Chiesa.
La tensione del cristiano verso tale salvezza per lungo tempo ha fatto sublimare anche il peso della sofferenza morale e materiale contingente, sentita anche come espiazione anticipata del peccato. Ma ha pure contribuito ad assicurare la vita buona di quaggiù perché la legge divina, indicando all’uomo la via del bene, riconoscibile con la retta ragione, prepara le condizioni oggettive migliori per la convivenza comune.
Col tempo la tensione verso la vita ultraterrena ha però lasciato il posto all’interesse per una salvezza tutta terrena, con un effetto ulteriore; infatti, osservava Ratzinger: “non appena si intiepidì la speranza nel ritorno immediato di Cristo ci fu la tentazione di attribuire alla stessa Chiesa la possibilità di costruire quaggiù un mondo perfettamente redento”.
Questa idea che già nel dodicesimo secolo si era fatta strada con Gioacchino da Fiore, ha continuato a scorrere come un fiume carsico pronto sempre a riaffiorare fino alla sostituzione in tempi recenti, della dottrina cattolica con la eresia marxista penetrata in profondità in tutte le nuove teologie del progressismo ecclesiastico.
Ma si era fatta strada presto anche la ribellione contro la sofferenza umana, in particolare per quella dell’innocente, che neppure l’idea del peccato originale era capace di giustificare e che risultava sempre più difficile da accordare con l’immagine di un Dio Provvidente e Onnipotente. Il problema di questa conciliazione ha afflitto anche i grandi santi. Della sofferenza del bambino, Sant’ Agostino chiedeva conto al Dio cristiano che aveva mandato il Figlio a salvare l’uomo, e per superare questo dubbio lacerante, egli finì per collegare tutto il dolore dell’uomo alla sua colpa. Ad ogni modo il tema ha continuato a riproporsi sempre più assillante specie nella teologia contemporanea.
Lo stesso Benedetto XVI, durante la visita ad Auschwitz, ebbe a chiedersi in modo sconcertante dove fosse Dio quando si compiva quello scempio immane. Parole in cui riecheggiava palesemente il pensiero centrale, eppure combattuto in passato, di un G.B. Metz, il padre della teologia politica.
Col tempo dunque il peso della sofferenza umana così difficile da accettare e giustificare, ha messo in discussione il senso della misericordia provvidente, offuscando la stessa immagine della giustizia divina, mentre è andata crescendo la fiducia nella capacità dell’uomo di creare le condizioni per una salvezza tutta materiale intraterrena, e di costruire un mondo nuovo in cui il male è identificato sempre più col disagio materiale, e con bisogni insoddisfatti, e il bene col benessere, miscela di soddisfazione fisica, alleggerimento morale e sazietà economica. La funzione regolatrice e moralizzatrice, essenziale per il vivere comune, viene lasciata dai moderni alla legge dello Stato, svincolata da qualunque legge superiore che la preceda. L’uomo, buono e libero per natura, è quello che osserva le leggi votate democraticamente.
La Chiesa conciliare per potersi inginocchiare davanti al mondo ha rinunciato pudicamente a presentarsi depositaria di verità, ha abdicato alla propria missione salvifica e per mettersi a rimorchio dello Stato, da cui attende le linee guida da fornire al popolo cattolico, ha messo da parte una legge divina diventata troppo ingombrante. Baget Bozzo osservava a questo proposito che quando la Chiesa è rimasta fedele al proprio mandato è sempre entrata in conflitto con il potere politico. Quando invece è scivolata nella eresia, si è fatta complice e partecipe delle finalità di questo.
La rinuncia al proprio sistema normativo è cominciata già con la insistenza sulla distinzione tra peccato e peccatore, tanto cara a Roncalli, tutta mirata a spostare l’attenzione sul secondo per sbiadire il senso della legge che definisce il primo. Sicché il peccato può rimanere un’idea astratta di mera rappresentanza, mentre il peccatore è il soggetto in carne ed ossa che detta le condizioni della propria salvezza terrena in nome della misericordia di un dio dalla immagine sempre più evanescente, ma tendente a confondersi con quella desiderata dall’uomo.
In questa prospettiva la stessa percezione del male che investe il mondo capovolge la visione agostiniana, fino ad escludere del tutto la colpa dell’uomo. Infatti senza quella legge superiore le azioni si equivalgono e anche il male ha un’unica forma: non c’è differenza tra quello che deriva dal peccato da quello che è subito a causa del peccato, perché l’uomo nuovo per antonomasia è l’individuo nietzschiano che naviga liberamente in mare aperto al di là del bene e del male. Così, non a caso, anche la sofferenza che affligge l’esistenza umana è considerata genericamente indipendentemente dalle sue cause, che viene da cause estranee all’uomo e l’altra che questi infligge volontariamente ai propri simili. E la sofferenza dell’innocente non trova alcuno spazio privilegiato. Ci si dimentica appunto della responsabilità umana nel creare condizioni squilibrate di vita proprio con la violazione dei precetti della legge naturale divina.
Dunque la misericordia divina invocata non ha più nulla a che fare con la clemenza regale che presuppone la violazione della legge, ma è quella di pura liberalità, che lenisce un disagio individuale o collettivo, sullo sfondo dell’indifferentismo etico. Bergoglio, suggestionato dalla profondità di pensiero contenuta nel motto “vietato vietare”, ha deciso che Dio non giudica e non punisce perché tutto ciò che appartiene alla realtà dell’uomo è accettabile per definizione, in quanto “ Dio è in tutti”, come dice il prete comune aggiornato ed emancipato dalla legge e dai comandamenti, per il quale il peccato è solo una opinione.
Bergoglio è per questo l’interprete ufficiale e autorevole della sottomissione della propria chiesa alle esigenze mondane del mondo. Della deriva ormai apocalittica, che travolge una umanità in balia dei padroni del mondo, la “sua” misericordia è diventata il micidiale catalizzatore, perché porta a compimento in modo esplicito quel processo di abolizione della legge e della giustizia divine divenute incompatibili con il programma umano autosalvifico.
I tre anni della sua predicazione alberghiera e aerea sono stati impiegati per convincere la gente a disfarsi dell’idea del peccato e del male morale prodotto dall’uomo, nonché dal timore del giudizio divino, che non esiste, perché è dubbia l’esistenza stessa di un unico Dio.
Non per nulla l’abolizione della legge divina naturale è il perno sul quale è stato fatto ruotare il sinodo sulla famiglia, mentre la questione dei divorziati è stata prefabbricata con l’intento plateale di desacralizzare la promessa matrimoniale per distruggere così l’istituzione. La contraffazione della misericordia divina serve a sollevare dalla difficoltà di obbedire a comandamenti che mortificano il desiderio individuale di felicità, o i desideri tout court, guadagnando la simpatia popolare. E qui si innesta un paradossale non senso: viene innalzata la bandiera della misericordia di Dio per alleviare la insofferenza verso la Sua legge e il disagio creato dalla eventuale violazione. Insomma siamo di fronte alla appropriazione indebita della misericordia di Dio usata per cancellare la Sua legge che va sostituita con quella umana più in voga. Anzi, non basta più neppure sollevare gli umani dalla fatica di osservare una legge troppo impegnativa per chi è troppo occupato a coltivare il proprio “benessere” (il valore messo al centro anche delle pensose pagine del magistero bergogliano). Si deve tenere conto anche del disagio che la legge divina può procurare per il solo fatto di essere stata formulata. Quasi che essa possa offendere di per sé la sensibilità e la libertà individuale, facendo riaffiorare a tradimento quel senso di colpa, quella atavica coscienza del male, che freudianamente ingenera sofferenza in chi lo compie minando un equilibrio interiore. Questo sembra essere il senso della particolare delicatezza che, secondo la sensibilità bergogliana e kasperiana, deve essere usata verso quanti contravvengono ai precetti evangelici. Anzitutto verso quel mondo omosessista che è lanciato a marce forzate alla conquista di tutta la compagine sociale, e al cui diabolico e ben attrezzato attivismo non viene minimamente opposto dalla chiesa bergogliana il terribile anatema evangelico sullo scandalo dato ai più piccoli. La nuova misericordia contraffatta riguarda i carnefici ma non le vittime, secondo le direttive della teologia di Pannella e Bonino, per cui nessuno tocchi Caino e neppure lo disturbi: il dio di Bergoglio si cura soltanto di costui.
Ma ultimamente qualcosa di inaspettato è venuto ad aggiungersi a questo quadro desolante, che lascia poco spazio alla speranza di un risanamento attraverso la fede della società in dissoluzione.
Si tratta di una recente intervista rilasciata al teologo Servais da Benedetto XVI. Egli ricorda come già Giovanni Paolo II abbia visto nella misericordia l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male, e come su questa linea si sia posto l’attuale pontefice che parla continuamente della misericordia di Dio perché è “essa che ci muove verso Dio mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto”. Infatti l’uomo contemporaneo si riconosce ora come non mai bisognoso di misericordia, e come nella parabola famosa, aspetta che “il samaritano venga in loro aiuto, si curvi su di lui, versi olio sulle sue ferite, si prenda cura di lui e lo porti al riparo. In ultima analisi egli sa di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza”. Dunque sembra emergere una adesione personale a quella idea della misericordia intesa soltanto come “beneficenza” di Dio, che prescinde dallo assolvimento di qualunque dovere e dal rispetto di qualunque legge, una misericordia immemore del peccato dell’uomo e che ancora una volta mette da parte la legge. Tuttavia con la legge si mette da parte anche la verità. Quella che pure ha costituito un leit motiv di tutta la teologia ratzingeriana. Per tale consonanza inaspettata tra papa emerito e vescovo di Roma, la misericordia si preoccupa solo del disagio dell’uomo e non del male e della sofferenza che questi compie a danno dei propri simili.
Ma non basta… Infatti subito dopo leggiamo che se “aumenta l’attesa di un amore salvifico donato gratuitamente, nel tema della misericordia divina si esprime in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza”. Ora qui appare in modo sorprendente anzitutto una concezione della fede come tensione e come speranza che, se assolutizzata, cancella ogni differenza religiosa e soprattutto elimina quella ragione, che lo stesso Ratzinger, già in scritti giovanili, aveva indicato come essenziale per la fede, tanto che in un saggio degli anni settanta sulla idea della salvezza cristiana, aveva scritto: “la miseria dell’attuale teologia si fonda in larga parte sulla mancanza di coraggio che essa dimostra nel risvegliare la ragione integrale”, perché “il primo compito di un teologo è quello di informare in modo corretto, direi quasi meccanico, ciò che la fede insegna” e ancora “la fede ha bisogno della ragione per essere capita e realizzata”. Del resto il tema dell’incontro imprescindibile tra fede e ragione è rimasto sempre l’asse portante del pensiero ratzingeriano, riproposto nella enciclica giovanpaolina Fides et Ratio fino al discorso di Ratisbona. Inoltre egli ha sempre ritenuto che essendo il contenuto dottrinale l’elemento distintivo imprescindibile di una religione, quello della fede cristiana definisca in modo inconfutabile anche il suo valore veritativo.
Invece ogni altro elemento oggettivo qualificante della fede qui sembra sbiadirsi di fronte alla coscienza dell’individuo che, qualunque sia il suo credo religioso, avverte il proprio bisogno della misericordia di Dio. Questo bisogno esprime l’essenza della fede, e diventa mezzo di giustificazione. Eppure la giustificazione, per usare le parole di Brunero Gherardini, nella prospettiva cattolica dovrebbe indicare quel “processo di rinascita e rigenerazione in senso cristico in cui viene reintegrata la giustizia originale dell’uomo distrutta dal peccato originale”. E se ad assicurare un esito salvifico basta l’anelito ad ottenere la misericordia di Dio, possiamo immaginare che si tratti della stessa misericordia che, per il buon fine dell’operazione, gli assassini di Lahore hanno invocato dal dio di quelli cui sono stati lavati e baciati i piedi un giovedì di marzo da uno venuto con tale alto compito dalla fine del mondo. Che questa nuova e distorta dottrina della misericordia possa servire soltanto ad alimentare un male sempre più prepotente, non sembra essere tenuto in gran conto.
Del resto poco dopo lo stesso papa emerito afferma apertamente la necessità di una profonda evoluzione del dogma sul tema della salvezza, perché questa “può estendersi a tutti indipendentemente dalla appartenenza religiosa”. Eppure sempre negli anni settanta a proposito del rapporto tra dogma e predicazione aveva scritto: “se si lasciasse da parte il dogma, la predicazione si trasformerebbe in un parlare in nome proprio e perderebbe ogni interesse oggettivo. L’intima tensione della predicazione dipende dall’oggettiva tensione dell’arco dogma-scrittura-chiesa: nessuno di questi pilastri può essere tolto senza che a lungo andare non crolli il tutto”. Non gli si poteva certo dare torto allora, e neppure oggi che la insistita concezione della misericordia di Dio messa in campo da Bergoglio senza un vero riferimento a Dio appare solo come un parlare in nome proprio, tutto funzionale ad una strategia demagogica dalle dubbie finalità, che può solo preludere al crollo di tutto.
L’intervista si conclude con questa proposizione: “quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui”. Solo che forse non sappiamo più, hinc et nunc, di quale Lui stiamo parlando. Ovvero non sappiamo in nome di quale Lui hanno parlato da qualche decennio a questa parte quelli che si sono avvicendati fino ad oggi sul trono di Pietro.
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L’atto di misericordia mira ad alleviare la sofferenza dell’altro, e normalmente ha il proprio antecedente logico e cronologico nella compassione, che significa comprensione e partecipazione, vicinanza emotiva e sentimentale, ma anche razionale, a chi soffre. Così ho compassione del mio simile perché sono capace di sentire su di me il suo dolore, in ragione del senso di appartenenza ad un’unica umanità sofferente e ad un’unica natura, ma ho anche compassione dell’uccello con l’ala spezzata. In ogni caso la compassione mi induce poi ad agire in modo “misericordioso”.
Tuttavia il cristianesimo ha riconosciuto la differenza profonda tra l’atto misericordioso gratuito, richiesto agli uomini verso i propri simili o dagli uomini a Dio, a Maria e ai Santi come aiuto per il male che li sovrasta, da quello redentivo di Dio verso il peccatore che ha violato la Sua legge ma si è pentito perché consapevole della propria colpa.
Infatti con la venuta di Cristo la misericordia di Dio ha assunto la forma specifica del perdono dei peccati che solleva dalla punizione eterna, invocato col miserere. Questo è sempre stato il senso del pentimento in punto di morte : si riconosce di avere violato la legge e si chiede di sfuggire al rigore del castigo . L’atto di misericordia rientra così nella “amministrazione della giustizia” divina, e ovviamente lascia intatto il comandamento violato di cui vengono emendate soltanto le conseguenze. Presuppone un rapporto di dipendenza tra beneficante e beneficato, e il fatto stesso che misericordia sia stato chiamato il pugnale col quale si dava il colpo di grazia o si otteneva la resa in qualche modo esprime questo particolare rapporto di subordinazione, lo stesso sotteso all’atto regale con cui il sovrano concede la grazia al condannato e che non per nulla chiamiamo “atto di clemenza”. Di questa fece esperienza Dostoevskij cogliendone anche il profondo significato redentivo.
La misericordia di Dio, a differenza di quella che invochiamo per alleviare le nostre sofferenze terrene è stata sempre preordinata alla salvezza ultraterrena, promessa dal Vangelo e predicata per secoli dalla Chiesa.
La tensione del cristiano verso tale salvezza per lungo tempo ha fatto sublimare anche il peso della sofferenza morale e materiale contingente, sentita anche come espiazione anticipata del peccato. Ma ha pure contribuito ad assicurare la vita buona di quaggiù perché la legge divina, indicando all’uomo la via del bene, riconoscibile con la retta ragione, prepara le condizioni oggettive migliori per la convivenza comune.
Col tempo la tensione verso la vita ultraterrena ha però lasciato il posto all’interesse per una salvezza tutta terrena, con un effetto ulteriore; infatti, osservava Ratzinger: “non appena si intiepidì la speranza nel ritorno immediato di Cristo ci fu la tentazione di attribuire alla stessa Chiesa la possibilità di costruire quaggiù un mondo perfettamente redento”.
Questa idea che già nel dodicesimo secolo si era fatta strada con Gioacchino da Fiore, ha continuato a scorrere come un fiume carsico pronto sempre a riaffiorare fino alla sostituzione in tempi recenti, della dottrina cattolica con la eresia marxista penetrata in profondità in tutte le nuove teologie del progressismo ecclesiastico.
Ma si era fatta strada presto anche la ribellione contro la sofferenza umana, in particolare per quella dell’innocente, che neppure l’idea del peccato originale era capace di giustificare e che risultava sempre più difficile da accordare con l’immagine di un Dio Provvidente e Onnipotente. Il problema di questa conciliazione ha afflitto anche i grandi santi. Della sofferenza del bambino, Sant’ Agostino chiedeva conto al Dio cristiano che aveva mandato il Figlio a salvare l’uomo, e per superare questo dubbio lacerante, egli finì per collegare tutto il dolore dell’uomo alla sua colpa. Ad ogni modo il tema ha continuato a riproporsi sempre più assillante specie nella teologia contemporanea.
Lo stesso Benedetto XVI, durante la visita ad Auschwitz, ebbe a chiedersi in modo sconcertante dove fosse Dio quando si compiva quello scempio immane. Parole in cui riecheggiava palesemente il pensiero centrale, eppure combattuto in passato, di un G.B. Metz, il padre della teologia politica.
Col tempo dunque il peso della sofferenza umana così difficile da accettare e giustificare, ha messo in discussione il senso della misericordia provvidente, offuscando la stessa immagine della giustizia divina, mentre è andata crescendo la fiducia nella capacità dell’uomo di creare le condizioni per una salvezza tutta materiale intraterrena, e di costruire un mondo nuovo in cui il male è identificato sempre più col disagio materiale, e con bisogni insoddisfatti, e il bene col benessere, miscela di soddisfazione fisica, alleggerimento morale e sazietà economica. La funzione regolatrice e moralizzatrice, essenziale per il vivere comune, viene lasciata dai moderni alla legge dello Stato, svincolata da qualunque legge superiore che la preceda. L’uomo, buono e libero per natura, è quello che osserva le leggi votate democraticamente.
La Chiesa conciliare per potersi inginocchiare davanti al mondo ha rinunciato pudicamente a presentarsi depositaria di verità, ha abdicato alla propria missione salvifica e per mettersi a rimorchio dello Stato, da cui attende le linee guida da fornire al popolo cattolico, ha messo da parte una legge divina diventata troppo ingombrante. Baget Bozzo osservava a questo proposito che quando la Chiesa è rimasta fedele al proprio mandato è sempre entrata in conflitto con il potere politico. Quando invece è scivolata nella eresia, si è fatta complice e partecipe delle finalità di questo.
La rinuncia al proprio sistema normativo è cominciata già con la insistenza sulla distinzione tra peccato e peccatore, tanto cara a Roncalli, tutta mirata a spostare l’attenzione sul secondo per sbiadire il senso della legge che definisce il primo. Sicché il peccato può rimanere un’idea astratta di mera rappresentanza, mentre il peccatore è il soggetto in carne ed ossa che detta le condizioni della propria salvezza terrena in nome della misericordia di un dio dalla immagine sempre più evanescente, ma tendente a confondersi con quella desiderata dall’uomo.
In questa prospettiva la stessa percezione del male che investe il mondo capovolge la visione agostiniana, fino ad escludere del tutto la colpa dell’uomo. Infatti senza quella legge superiore le azioni si equivalgono e anche il male ha un’unica forma: non c’è differenza tra quello che deriva dal peccato da quello che è subito a causa del peccato, perché l’uomo nuovo per antonomasia è l’individuo nietzschiano che naviga liberamente in mare aperto al di là del bene e del male. Così, non a caso, anche la sofferenza che affligge l’esistenza umana è considerata genericamente indipendentemente dalle sue cause, che viene da cause estranee all’uomo e l’altra che questi infligge volontariamente ai propri simili. E la sofferenza dell’innocente non trova alcuno spazio privilegiato. Ci si dimentica appunto della responsabilità umana nel creare condizioni squilibrate di vita proprio con la violazione dei precetti della legge naturale divina.
Dunque la misericordia divina invocata non ha più nulla a che fare con la clemenza regale che presuppone la violazione della legge, ma è quella di pura liberalità, che lenisce un disagio individuale o collettivo, sullo sfondo dell’indifferentismo etico. Bergoglio, suggestionato dalla profondità di pensiero contenuta nel motto “vietato vietare”, ha deciso che Dio non giudica e non punisce perché tutto ciò che appartiene alla realtà dell’uomo è accettabile per definizione, in quanto “ Dio è in tutti”, come dice il prete comune aggiornato ed emancipato dalla legge e dai comandamenti, per il quale il peccato è solo una opinione.
Bergoglio è per questo l’interprete ufficiale e autorevole della sottomissione della propria chiesa alle esigenze mondane del mondo. Della deriva ormai apocalittica, che travolge una umanità in balia dei padroni del mondo, la “sua” misericordia è diventata il micidiale catalizzatore, perché porta a compimento in modo esplicito quel processo di abolizione della legge e della giustizia divine divenute incompatibili con il programma umano autosalvifico.
I tre anni della sua predicazione alberghiera e aerea sono stati impiegati per convincere la gente a disfarsi dell’idea del peccato e del male morale prodotto dall’uomo, nonché dal timore del giudizio divino, che non esiste, perché è dubbia l’esistenza stessa di un unico Dio.
Non per nulla l’abolizione della legge divina naturale è il perno sul quale è stato fatto ruotare il sinodo sulla famiglia, mentre la questione dei divorziati è stata prefabbricata con l’intento plateale di desacralizzare la promessa matrimoniale per distruggere così l’istituzione. La contraffazione della misericordia divina serve a sollevare dalla difficoltà di obbedire a comandamenti che mortificano il desiderio individuale di felicità, o i desideri tout court, guadagnando la simpatia popolare. E qui si innesta un paradossale non senso: viene innalzata la bandiera della misericordia di Dio per alleviare la insofferenza verso la Sua legge e il disagio creato dalla eventuale violazione. Insomma siamo di fronte alla appropriazione indebita della misericordia di Dio usata per cancellare la Sua legge che va sostituita con quella umana più in voga. Anzi, non basta più neppure sollevare gli umani dalla fatica di osservare una legge troppo impegnativa per chi è troppo occupato a coltivare il proprio “benessere” (il valore messo al centro anche delle pensose pagine del magistero bergogliano). Si deve tenere conto anche del disagio che la legge divina può procurare per il solo fatto di essere stata formulata. Quasi che essa possa offendere di per sé la sensibilità e la libertà individuale, facendo riaffiorare a tradimento quel senso di colpa, quella atavica coscienza del male, che freudianamente ingenera sofferenza in chi lo compie minando un equilibrio interiore. Questo sembra essere il senso della particolare delicatezza che, secondo la sensibilità bergogliana e kasperiana, deve essere usata verso quanti contravvengono ai precetti evangelici. Anzitutto verso quel mondo omosessista che è lanciato a marce forzate alla conquista di tutta la compagine sociale, e al cui diabolico e ben attrezzato attivismo non viene minimamente opposto dalla chiesa bergogliana il terribile anatema evangelico sullo scandalo dato ai più piccoli. La nuova misericordia contraffatta riguarda i carnefici ma non le vittime, secondo le direttive della teologia di Pannella e Bonino, per cui nessuno tocchi Caino e neppure lo disturbi: il dio di Bergoglio si cura soltanto di costui.
Ma ultimamente qualcosa di inaspettato è venuto ad aggiungersi a questo quadro desolante, che lascia poco spazio alla speranza di un risanamento attraverso la fede della società in dissoluzione.
Si tratta di una recente intervista rilasciata al teologo Servais da Benedetto XVI. Egli ricorda come già Giovanni Paolo II abbia visto nella misericordia l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male, e come su questa linea si sia posto l’attuale pontefice che parla continuamente della misericordia di Dio perché è “essa che ci muove verso Dio mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto”. Infatti l’uomo contemporaneo si riconosce ora come non mai bisognoso di misericordia, e come nella parabola famosa, aspetta che “il samaritano venga in loro aiuto, si curvi su di lui, versi olio sulle sue ferite, si prenda cura di lui e lo porti al riparo. In ultima analisi egli sa di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza”. Dunque sembra emergere una adesione personale a quella idea della misericordia intesa soltanto come “beneficenza” di Dio, che prescinde dallo assolvimento di qualunque dovere e dal rispetto di qualunque legge, una misericordia immemore del peccato dell’uomo e che ancora una volta mette da parte la legge. Tuttavia con la legge si mette da parte anche la verità. Quella che pure ha costituito un leit motiv di tutta la teologia ratzingeriana. Per tale consonanza inaspettata tra papa emerito e vescovo di Roma, la misericordia si preoccupa solo del disagio dell’uomo e non del male e della sofferenza che questi compie a danno dei propri simili.
Ma non basta… Infatti subito dopo leggiamo che se “aumenta l’attesa di un amore salvifico donato gratuitamente, nel tema della misericordia divina si esprime in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza”. Ora qui appare in modo sorprendente anzitutto una concezione della fede come tensione e come speranza che, se assolutizzata, cancella ogni differenza religiosa e soprattutto elimina quella ragione, che lo stesso Ratzinger, già in scritti giovanili, aveva indicato come essenziale per la fede, tanto che in un saggio degli anni settanta sulla idea della salvezza cristiana, aveva scritto: “la miseria dell’attuale teologia si fonda in larga parte sulla mancanza di coraggio che essa dimostra nel risvegliare la ragione integrale”, perché “il primo compito di un teologo è quello di informare in modo corretto, direi quasi meccanico, ciò che la fede insegna” e ancora “la fede ha bisogno della ragione per essere capita e realizzata”. Del resto il tema dell’incontro imprescindibile tra fede e ragione è rimasto sempre l’asse portante del pensiero ratzingeriano, riproposto nella enciclica giovanpaolina Fides et Ratio fino al discorso di Ratisbona. Inoltre egli ha sempre ritenuto che essendo il contenuto dottrinale l’elemento distintivo imprescindibile di una religione, quello della fede cristiana definisca in modo inconfutabile anche il suo valore veritativo.
Invece ogni altro elemento oggettivo qualificante della fede qui sembra sbiadirsi di fronte alla coscienza dell’individuo che, qualunque sia il suo credo religioso, avverte il proprio bisogno della misericordia di Dio. Questo bisogno esprime l’essenza della fede, e diventa mezzo di giustificazione. Eppure la giustificazione, per usare le parole di Brunero Gherardini, nella prospettiva cattolica dovrebbe indicare quel “processo di rinascita e rigenerazione in senso cristico in cui viene reintegrata la giustizia originale dell’uomo distrutta dal peccato originale”. E se ad assicurare un esito salvifico basta l’anelito ad ottenere la misericordia di Dio, possiamo immaginare che si tratti della stessa misericordia che, per il buon fine dell’operazione, gli assassini di Lahore hanno invocato dal dio di quelli cui sono stati lavati e baciati i piedi un giovedì di marzo da uno venuto con tale alto compito dalla fine del mondo. Che questa nuova e distorta dottrina della misericordia possa servire soltanto ad alimentare un male sempre più prepotente, non sembra essere tenuto in gran conto.
Del resto poco dopo lo stesso papa emerito afferma apertamente la necessità di una profonda evoluzione del dogma sul tema della salvezza, perché questa “può estendersi a tutti indipendentemente dalla appartenenza religiosa”. Eppure sempre negli anni settanta a proposito del rapporto tra dogma e predicazione aveva scritto: “se si lasciasse da parte il dogma, la predicazione si trasformerebbe in un parlare in nome proprio e perderebbe ogni interesse oggettivo. L’intima tensione della predicazione dipende dall’oggettiva tensione dell’arco dogma-scrittura-chiesa: nessuno di questi pilastri può essere tolto senza che a lungo andare non crolli il tutto”. Non gli si poteva certo dare torto allora, e neppure oggi che la insistita concezione della misericordia di Dio messa in campo da Bergoglio senza un vero riferimento a Dio appare solo come un parlare in nome proprio, tutto funzionale ad una strategia demagogica dalle dubbie finalità, che può solo preludere al crollo di tutto.
L’intervista si conclude con questa proposizione: “quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui”. Solo che forse non sappiamo più, hinc et nunc, di quale Lui stiamo parlando. Ovvero non sappiamo in nome di quale Lui hanno parlato da qualche decennio a questa parte quelli che si sono avvicendati fino ad oggi sul trono di Pietro.
Nel corso dei secoli dc.si sono verificate molte nuove posizioni eretiche.Tipo catari, albigesi,teosofi,etc.etc.Ogni tanto qualcuno legge la Santa Bibbia a proprio uso e consumo, togliendo o aggiungendo a secondo del proprio prurito. Queste persone eleggono un dio a propria immagine e somiglianza e quindi presentano a se stessi e agli altri un dio sbagliato. Ora è il tempo di un dio bonaccione, piacione, che fa un calderone di tutto e tutto perdona . Chi dovrebbe difendere la purezza della Fede Cattolica non lo fa, anzi spinge coloro che la difendono ai margini e all'isolamento. Poi ci sono i vari don Abbondio, che come al solito, o per paura di perdere il loro posticino al sole, o per deficenza o per altri motivi fanno finta di non vedere ne' sentire.E'una situazione tremenda ed equivoca, che ci porterà a momenti terribili. jane
RispondiEliminaVero.
EliminaI primi, i manipolatori, mentono sapendo di mentire.
I secondi, i don Abbondio, fanno i pesci in barile. Della serie: non coinvolgiamoci che procediamo benino.
E a proposito di tremenda situazione che porterà a momenti terribili... cosa dice l'Apocalisse in merito ai tiepidi?? (a meno che non si voglia continuare con la favoletta pro minus dell'inferno vuoto).
Non so chi mi disgusta di più, Marisa, se i primi o i secondi. certo è che che rivolgo ad entrambi il mio più deciso e definitivo NO ! (come faceva Jean Madirain), mai con voi, mai con le eresie vaticansecondiste, mai con gli apostatia i traditori di Cristo !.
RispondiEliminaCondivido.
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