ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 22 aprile 2016

La coscienza è una proprietà del cervello?


Raymond Arroyo di EWTN pone domande difficili su Amoris laetitia                                 

La scorsa settimana Raymond Arroyo, direttore di EWTN, il potente network fondato da Madre Angelica, in una delle trasmissioni live più seguite del canale televisivo cattolico americano, ha affrontato il tema dell’esortazione Amoris laetitia. Per l’occasione ha convocato in studio un affermato canonista, P. Gerlard Murray, e Robert Reale, presidente del Faith and Reason Institute e noto opinionista. La discussione in studio, pur rispettosa, non ha esitato ad affrontare gli aspetti più problematici del testo post-sinodale.

Sul paragrafo 3, quello che parla di soluzioni non preconfezionate ma da cercare “in ogni paese o regione” in modo da inculturarle con attenzione alle diverse “tradizioni e alle sfide locali”, Murray ha detto: “E’ un’affermazione pericolosa, soprattutto perché si sta parlando della legge universale della Chiesa sull’amministrazione dei Sacramenti”. Pensare che l’inculturazione fatta in Germania possa essere diversa da quella fatta in Polonia o in Africa “è veramente inquietante, perché i Sacramenti non sono un possesso di alcuna cultura”.
Raymond Arroyo fa notare che il linguaggio dell’Esortazione Apostolica è piuttosto impreciso e questo può generare problemi. P. Murray riconosce che questo è certamente un problema; occorre perciò precisare che “la ragione per cui la Chiesa non permette che si dia la Comunione a coloro che vivono un secondo matrimonio illegittimo è perché il secondo matrimonio implica atti di adulterio; il problema sta nella natura pubblica della questione”. Chi si trova in questa situazione “vive pubblicamente in un modo che offende l’insegnamento di Nostro Signore. Perciò non c’è un giudizio sulla coscienza delle persone, ma ciò che possiamo dire alle persone è che le tue azioni contraddicono l’insegnamento del Signore e la Chiesa non vuole contribuire ulteriormente a farti del male spiritualmente permettendoti di ricevere la Comunione o scandalizzando i fedeli lasciando che tu riceva la Comunione mentre stai vivendo un secondo matrimonio invalido. Ciò è molto serio e di questo sono molto preoccupato”.
Di seguito altri passaggi importanti della discussione in studio su alcuni passaggi importanti di Amoris laetitia.
Sul paragrafo 298: “Il Papa utilizza l’espressione ‘le persone che vivono in un secondo matrimonio si trovano in questa situazione’. No, esse si mettono in questa situazione e continuano a vivere in questa situazione”. La Chiesa riconosce tutte le situazioni che rendono sconveniente la separazione, “ma occorre interrompere gli atti di adulterio e vivere come fratello e sorella. Questo è presente nella prima parte del documento, ma qui non è riportato. E non si può dire: ‘Non posso smettere di commettere adulterio perché andrei a commettere un altro peccato. No. Smetti di commettere adulterio e poi cerca di porre rimedio alle altre situazioni”. Secondo Murray il linguaggio finisce per deresponsabilizzare le persone nelle loro scelte, mentre il linguaggio della Chiesa è sempre stato questo: “tu stai agendo liberamente, tu sei responsabile delle tue decisioni morali e le scelte hanno un impatto pubblico e sono regolate dal Diritto Canonico perché è implicato anche il bene degli altri”.
Sul paragrafo 308: Anche in questo caso “il linguaggio è molto problematico. Per me il matrimonio cristiano non è un ideale; è una norma, una realtà, un sacramento, un modo di vivere…” che Dio ha voluto fin dalle origini e che rende possibile per tutti. Su altri temi, quali la povertà e l’immigrazione, il Papa usa un linguaggio molto forte “per scuotere le coscienze” e fare in modo che ciascuno assuma la responsabilità delle proprie azioni. Per le persone divorziate risposate, il meglio che la Chiesa può dire è: “smettete di peccare, ponete fine ad un modo di vivere che dispiace al Signore e per questo siate disposti ad ogni sacrificio”. L’affermazione del Papa che non bisogna più presumere che coloro che vivono in situazioni irregolari vivano in peccato “è problematica”. La Chiesa presume che quando si conosce il Vangelo e lo si accetta “allorché lo si contraddice liberamente, questo è uno stato di peccato”. Anche in questo contesto di liberalizzazione e rivoluzione sessuale “le parole del Signore hanno un significato e quando Egli dice che quando desideri una donna nel tuo cuore, commetti adulterio contro di lei” non possiamo cercare scuse o diminuzioni di responsabilità
Sui paragrafi 304-305: Secondo Murray, è vero che molto spesso occorre andar piano con le persone per cercare di persuaderle, “ma alla fine le persone devono ascoltare l’insegnamento non perché sono state convinte dalla mia spiegazione, ma perché credono in ciò che Cristo ha detto”. Le indicazioni di Cristo nel Vangelo sull’adulterio “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei” non sono riduttive “e chi non è d’accordo con questo, chi lo rifiuto è in un a situazione problematica e dev’essere scosso”.
Sulle note a piè di pagina che aprono ai sacramenti: il riferimento all’apertura ai sacramenti ritorna due volte nelle note. “Il fatto è che il Papa desidera che le persone, in casi particolari… abbiano l’opportunità di ricevere la Comunione e ciò è in diretta contraddizione con ciò che Giovanni Paolo affermava in Familiaris Consortio ed altri documenti, come il Catechismo della Chiesa Cattolica”. Questo è il vero problema: “Qui abbiamo qualcosa che non è in accordo con quanto la Chiesa ha insegnato fino ad ora”. Questa apertura, secondo p. Murray, sarebbe una “falsa misericordia”, perché non si possono illudere le persone di poter ricevere l’Eucaristia mentre commettono adulterio: “occorre smettere di commettere adulterio, entrare in sintonia con l’insegnamento del Signore e quindi ricevere la Comunione”.
Sebbene questa Esortazione Apostolica non cambi la dottrina, “perché la dottrina non può essere cambiata, resta però il problema “degli effetti sociali del cambiamento di questa prassi”. “E’ tutto molto allarmante. Non si può cambiare l’insegnamento della Chiesa ma si può causare una prassi problematica”. (L.S.)
Pubblicato il  in sinodo2015.


CHE COS'E' LA COSCIENZA ?

    La coscienza è una proprietà del cervello o un’entità indipendente? Non tenendo conto dell’abbandono del concetto di anima le possibili risposte sono essenzialmente 2: o la coscienza è un’entità oppure è una proprietà di Francesco Lamendola  





Che cos’è la coscienza? Che cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo della coscienza, non in senso generico - ad esempio quando diciamo di “avere coscienza” di qualcosa o “possedere una coscienza” (morale) – ma in senso specifico, tecnico, ossia quando vogliamo indicare il fatto che l’uomo è suscettibile della consapevolezza di sé e dei propri atti, cosa che non avviene, a quel che ne sappiamo, per gli altri esseri viventi?
Le possibili risposte sono essenzialmente due: o la coscienza è un’entità, oppure è una proprietà. Se è un’entità, può essere sia interna, sia esterna all’Io; se è una proprietà, deve essere una proprietà della mente che la pensa e, pensandola, la rende attuale. Sia chiaro che, nel porre in questi termini la questione, stiamo cercando un compromesso con la cultura moderna, la quale non vuol  neppure sentir parlare di anima; mentre l’abbandono del concetto di anima, che ha sorretto la grande filosofia greca e, poi, quella cristiana, crediamo si sia risolto in un serio danno per la comprensione del reale e, in particolare, per la auto-comprensione dell’uomo. D’altra parte, se avessimo impostato la nostra presente riflessione partendo dal concetto di anima, avremmo reso impossibile qualunque dialogo con le correnti più moderne del pensiero filosofico, che tale concetto non ammettono in alcun modo; per cui, pur consapevoli di partire con un bagaglio concettuale dimezzato e con una prospettiva speculativa compromessa fin dall’inizio, abbiamo voluto gettare questo ponte verso le forme di pensiero oggi predominanti, allo scopo di vedere se sia possibile, anche servendoci di un orizzonte di pensiero che non è il nostro, e che non condividiamo affatto, trovare un terreno comune per dispiegare un confronto costruttivo.
Dunque: se la coscienza è una entità, allora può essere un qualcosa che sussiste in maniera parzialmente autonoma rispetto all’Io, oppure in maniera sostanzialmente indipendente, come cosa ontologicamente diversa e superiore ad esso. È chiaro, infatti, che, se la coscienza può includere la coscienza dell’Io, l’Io non può includere la coscienza, perché la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, cioè il presupposto di qualsiasi pensiero e, dunque, anche di qualsiasi inclusione (o, eventualmente, esclusione). Al massimo, l’Io e la coscienza potrebbero essere una cosa sola: ma è altrettanto chiaro che nemmeno questo è possibile, perché la coscienza non sempre è desta e, quindi, non sempre è coscienza dell’Io; e ciò dimostra che essa e l’Io sono due cose distinte, non una sola. Se fossero una cosa sola, la coscienza sarebbe perennemente desta; eppure vi sono momenti e situazioni nei quali, palesemente, essa non lo è.
Se, viceversa, la coscienza è una proprietà, allora non si tratta tanto di chiedersi cosa essa sia, ma come funzioni, in quanto non si tratterebbe di un elemento primario, ma derivato, cioè un epifenomeno. Anche in questa seconda ipotesi, comunque, tale proprietà potrebbe essere essenziale o derivata, interna o esterna all’Io: sarebbe essenziale se fosse inseparabile dal modo di essere dell’Io; derivata, se suscettibile di attività autonoma.
Ora, che la coscienza sia una entità, è una ipotesi che urta, prima che contro dei fatti, contro un pregiudizio ideologico che è tipico della cultura moderna: perché, ammettendo una tale ipotesi, si introdurrebbe una visione dell’uomo, e del reale, di tipo dualista: da una parte la coscienza, fenomeno spirituale; dall’altra le cose, fenomeni materiali. Ammettendo, invece, che essa sia una proprietà, resta da capire che cosa sia l’Io, di cui essa sarebbe manifestazione o, parlando più propriamente, modo di essere.
Ha scritto Ingo Haberl, classe 1942, fisico e filosofo austriaco trapiantato in Italia, a Pordenone, e prematuramente scomparso in un incidente aereo a Maroua, in Camerun, nel 2001 (da: I. Haberl, Cervello e mente, un connubio incompreso; in: A.A.V.V., Responsabilità del pensiero, a cura della Società Filosofica Italiana, sezione del Friuli-Venezia Giulia, Pordenone, Libreria Al Segno Editrice, 2000, pp. 40-42):

È innegabile che la coscienza esiste perché esiste il cervello. Constatiamo la dipendenza delle  nostre capacità mentali. Perfino della percezione dell’Io, dal nostro cervello. I suoi limiti funzionali rappresentano  quindi anche vincoli per il modo in cui la coscienza  si può manifestare. Alcune sostanze chimiche  possono influire sul nostro umore e la visione più o meno positiva  o negativa della nostra vita.  La narcosi indotta da sostanze chimiche sospende  la nostra coscienza.
Questo legame innegabile fra attività mentale e neuronale  può essere interpretato in vari modi e a dato luogo a scuole di pensiero fortemente condizionate dall’ideologia confessata dai vari pensatori. […]
Confrontiamo due ipotesi.
 - La coscienza è un’ENTITÀ indipendente  che si associa con aggregato materiali di sufficiente complessità.
- La coscienza è una PROPRIETÀ indipendente  che appartiene in forma rudimentale anche alla singola particella elementare.
Ambedue le ipotesi vedono nella coscienza un’entità  o proprietà autonoma.  Alcuni autori la collocano al di fuori del mondo fisico, altri la considerano una componente indipendente  facente parte del mondo fisico. […]
L’ipotesi che corpo e mente siano presenti ambedue  nell’uomo, ma che la mente abbia esistenza indipendente dal corpo, si chiama dualismo. Corpo e mente sono però interagenti, uno può influenzare l’altro. Postulare che la mente possa causare eventi fisici semplifica la spiegazione del fatto che noi ci sentiamo dotati di libero arbitrio nelle nostre azioni. Il problema nascosto nella spiegazione dualistica sta nell’impossibilità di una dimostrazione scientifica dell’esistenza di azioni che non abbiano una causa fisica. Supponiamo che esista un meccanismo a livello molecolare  oppure al livello del sistema complesso “cervello” con cui la mente riesca a interagire. L’esistenza   di questo meccanismo potrebbe essere dimostrata  sperimentalmente, se si potesse escludere  come causa di un’azione tutte le cause fisiche.
Una strada che sembra a prima vista percorribile è la sperimentazione con azioni che hanno come causa UN’INFORMAZIONE proveniente dall’esterno. Potrebbe trattarsi di un segnale assolutamente arbitrario, per esempio un lampo di luce, che, secondo una convenzione stabilita prima dell’esperimento, ci fa alzare una mano. La totale arbitrarietà del tipo di segnale sembra suggerire che l’azione debba essere causata da una nostra azione mentale dopo il riconoscimento del segnale, non dal segnale stesso.
In realtà questa conclusione è criticabile. Infatti, stabilire  una convenzione per un’azione in seguito alla ricezione  di un segnale significa prestabilire una certa connessione fisica nel cervello che, al ricevimento del segnale, provoca  una sequenza di azioni fisiche. Non è possibile fare risalire l’azione al significato del segnale, perché anche senza riferimento al significato la macchina cervello può reagire in modo deterministico e produrre la reazione. L’azione seguente è deterministica, scorrendo sui binari della convenzione prestabilita.
Questa obiezione è inoppugnabile, ma pare artificiosa. Ci sembra poco credibile che in brevissimo tempo possiamo concordare una convenzione e agire di conseguenza. L’avviamento di un’azione fisica nel cervello è estremamente complessa e questa complessità contrasta con la facilità con cui noi sentiamo di poter cambiare le convenzioni di reazione a un segnale. È molto più facile e naturale postulare che la mente recepisca nel segnale un significato e che quest’ultimo sia capace di avviare un’azione fisica nel cervello. Si tratta però di una nostra sensazione di plausibilità, non di una dimostrazione. […]
Se la tesi del dualismo fosse vera,  dovremmo introdurre una distinzione fra coscienza ed Io, finora trattati come sinonimi. Il nostro Io spirituale esisterebbe anche senza il corpo. La coscienza sarebbe la sua manifestazione nel corpo.  Di conseguenza la coscienza potrebbe riprodurre l’Io  solo molto parzialmente, limitatamente alle proprietà compatibili con lo stadio di sviluppo del cervello. Io sarei quindi molto di più e sarei anche molto diverso dalla mia coscienza.[…]
Di fronte alle tante domande senza risposta posteci dalle scoperte della fisica moderna sembra plausibile  che la coscienza ci costringerà ad aggiungerne un’altra; come le leggi di simmetria hanno portato i fisici a formulare l’esistenza dei quark “top”, così l’esercizio delle facoltà mentali ci fa postulare l’esistenza di nuovo fenomeno NATURALE, la coscienza, che interagisce con certe configurazioni di materia, appunto il cervello. Accettiamo cioè la coscienza come nuova entità elementare accanto alla massa, la carica elettrica, il tempo ecc. Ciò non è tanto strano perché  usiamo anche le teorie della materia senza sapere  che cos’è veramente!
Questa ipotesi è dualistica, ma si tratta di un dualismo immanente. Lo spirito esiste come componente indipendente DEL mondo fisico. Dobbiamo osservare che dal punto di vista ontologico ciò è ovvio: non esiste una  trascendenza ontologica (il Tutto tautologicamente comprende tutto; la trascendenza ha quindi valenza epistemologica, non ontologica). Ogni componente della realtà dovrebbe poter interagire  con le altre componenti, cioè con la realtà  di tipo fisico (principio di causazione  fondamentale di Seager) e quindi non è epifenomenale. […]
Secondo questa tesi lo spirito  è un fenomeno naturale di tipo NON fisico, a cui abbiamo per ora accesso solo attraverso la percezione di “qualia”. I fenomeni mentali interagiscono però con il mondo fisico  tramite nuove leggi che potremmo chiamare psicofisiche. Più precisamente si potrebbe ipotizzare che una certa struttura materiale, organizzata in modo opportuno,  dia vita alla coscienza. Per esempio stati mentali sono stati fisici del sistema cervello. La stessa ORGANIZZAZIONE FUNZIONALE realizzata con componenti in silicio o anche con dispositivi meccanici  mostrerebbe coscienza.  La coscienza non si identifica con l’organizzazione formale, ma la accompagna per motivi ignoti, quando questa organizzazione  viene implementata in qualsiasi sistema  fisico (cervello, computer, ecc.). Le interrelazioni FORMALI del modello organizzativo diventano CAUSALI nel modello reale: il suo comportamento dinamico genera la coscienza. La coscienza così evocata  è una proprietà fondamentale dell’universo  che deve essere accettata come dato primitivo.

Partendo da una critica al ragionamento di Haberl, proviamo a esporre il nostro punto di vista sulla natura della coscienza.
Secondo il filosofo austriaco, è difficile pensare alla coscienza come ad una entità indipendente, perché ciò introdurrebbe il dualismo, e, nel dualismo, riesce difficile spiegare in che modo l’elemento spirituale (la coscienza) influenzi l’elemento materiale (il corpo). Egli sostiene che non vi sono prove scientifiche del fatto che la mente possa influenzare il corpo: e già da questo modo di porre il problema, e anche dal tipo di linguaggio che adopera. Per esempio, allorché definisce il cervello una “macchina”, egli si pone da scienziato, cioè da fisico, ma non da filosofo: perché limita lo spettro del suo ragionamento a ciò che è, appunto, scientificamente spiegabile e dimostrabile, il che equivale a escludere che vi sia qualcosa suscettibile di sfuggire ad una percezione fisica e quantitativa. Il che è filosoficamente gratuito.
Si potrebbe anche contestare l’affermazione in se stessa, perché i miracoli esistono, e alcuni di essi sono attestati da fior di scienziati: esistono, cioè, dei fenomeni nei quali si verifica una azione fisica di origine puramente spirituale e indipendente dalla “macchina” (se vogliamo chiamarla così) del cervello. Tuttavia, non vogliamo portare la discussione su questo terreno, che è un terreno empirico e, anch’esso, quantitativo: ci basta aver evidenziato che, se la scienza può e deve limitarsi a lavorare sulla materia e sulla quantità, la filosofia ha un altro orizzonte e un’altra prospettiva: essa non deve escludere nulla, né dare nulla per scontato, ma, soprattutto, deve sforzarsi di ragionare a trecentosessanta gradi, senza far suo il modo di porsi delle scienze positive, a meno che sia intenzionata a tradire il proprio statuto epistemologico. Il filosofo, a differenza dello scienziato, non deve stabilire cosa sia possibile e cosa impossibile, sulla base delle osservazioni empiriche; in questo senso, le proposte di Haberl relative a degli esperimenti aventi lo scopo di provare, o escludere, la possibilità che la mente eserciti una azione diretta sul corpo, sono, filosoficamente parlando, del tutto irricevibili.
D’altra parte, Haberl non accoglie nemmeno il punto di vista secondo cui la coscienza sarebbe una proprietà in senso classico; e propone che essa sia da concepire come una entità/proprietà, ma immanente e non trascendente, evitando così il dualismo corpo/mente; per la precisione, egli propone che la si consideri alla stregua di un fenomeno naturale, come lo sono la massa o la carica elettrica di una particella fisica. Poi, dalla nozione di coscienza, Haberl passa a quella di spirito (passaggio, a nostro avviso, non adeguatamente spiegato) e sostiene che la coscienza/spirito è un fenomeno immanente di tipo non fisico, capace, però, di interagire con il mondo fisico, attraverso delle leggi psicofisiche non ancora sufficientemente note. E qui viene la parte più stupefacente del suo ragionamento: una volta definita la coscienza in questo modo, egli ne trae la conclusione, invero abbastanza logica, chesi potrebbe ipotizzare che una certa struttura materiale, organizzata in modo opportuno,  dia vita alla coscienza. A titolo di esempio, egli dice che gli stati mentali sono stati fisici del sistema cervello. E prosegue, ampliando sempre più l’area delle conclusioni del suo ragionamento, che la stessa organizzazione funzionale realizzata con componenti in silicio o anche con dispositivi meccanici  mostrerebbe coscienza.  Per giungere alla affermazione, paradossale ma perfettamente in linea con le definizioni precedenti, che la coscienza non si identifica con l’organizzazione formale, ma la accompagna per motivi ignoti.
Ecco dunque che il concetto di “ignoto” fa capolino nel contesto di una speculazione che pretendeva di essere rigorosamente scientifica: dopo aver costruito un castello, Haberl ne  mina le fondamenta, dichiarando candidamente che non sa come tutto ciò sia possibile, come si spieghi quel che ha ipotizzato; però se la cava dicendo che, dopotutto, anche le teorie scientifiche della materia si sbizzarriscono, pur non sapendo dare una definizione univoca e soddisfacente di che cosa sia la materia. Eppure, se è lecito introdurre il concetto di “forze ignote”, non si capisce perché, poco prima, aveva affermato che non è possibile una dimostrazione scientifica dell’esistenza di azioni che non abbiano una causa fisica; e aveva rincarato la dose, dichiarando che solo se si potesse escludere tutte le cause fisiche come causa di un’azione esercitata direttamente dal cervello su di un sistema fisico, se ne potrebbe inferire la realtà d’una interazione direttamente/corpo. Se le forze ignote esistono, allora esse potrebbero consentire una tale azione, senza che essa sia rilevabile scientificamente, cioè materialmente e quantitativamente; inoltre, la loro esistenza renderebbero non valido l’approccio scientista al problema della coscienza, perché aprirebbe la porta alla possibilità che la coscienza stessa sia, o funzioni, come una di tali forze, o entità, o proprietà, di natura ignota. In tal caso, noi potremmo inferirne l’esistenza da certi fenomeni che non sono scientificamente spiegabili o dimostrabili, ma tuttavia accadono, e sembrano indicare che, effettivamente, l’azione dello spirito sulla sostanza corporea avviene, o, comunque, è possibile.
Quante difficoltà, quante aporie discendono dalla impostazione, intrinsecamente contraddittoria, di Haberl, che è, poi, quella di gran parte della filosofia moderna. Si pretende che lo spirito non esista, o che sia semplicemente un prodotto del cervello, ossia di una serie di fenomeni fisici, neuronali; poi, però, davanti a una serie di altri fenomeni, diversamente inspiegabili, si ammette ch’esso esista, ma che sia qualcosa di immanente, non di trascendente. Il logico corollario di tale concezione, da cui neppure Haberl rifugge, è che anche una macchina costruita dall’uomo, a questo punto, può essere definita come “coscienza”, ossia come una funzione di tipo spirituale. Una coscienza al silicio, o una coscienza informatica, sarebbero pur sempre coscienza, o avrebbero una dimensione coscienziale. Non importa che ciò sovverta e annienti ciò che, da sempre, l’uomo ha ritenuto essere il concetto di coscienza; bisogna essere democratici e non spaventarsi davanti alle estreme conseguenze dei propri (sofistici) ragionamenti: perché soltanto l’uomo dovrebbe essere dotato di coscienza? Perché non un computer, a patto che venga opportunamente programmato?
Nemmeno davanti a tali stranezze, a tali follie, il pensiero moderno, positivo, scientista, è capace di quel semplice atto di umiltà intellettuale, che consiste nel tornare al “vecchio” concetto di anima…

La coscienza è una proprietà del cervello o un’entità indipendente?

di Francesco Lamendola
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