ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 5 aprile 2016

Nihil sub sole novum*?

La nuova spada barbarica

Non è solo il fondamentalismo jihadista a minacciare l’esistenza del cristianesimo nel mondo. La persecuzione in guanti bianchi ha rinverdito i fasti del giacobinismo

Con la croce sulle spalle: nel vicino oriente, nella sua culla, non sembra esserci più posto per il cristianesimo
La persecuzione religiosa nel mondo è prima di tutto una persecuzione contro i cristiani”, scriveva lo scorso dicembre il vaticanista americano John Allen, enumerando l’ormai infinita teoria di nuovi martirii che da un capo all’altro del mondo scandiscono e segnano il tempo corrente. Una persecuzione praticata con tutte le armi che l’ingegno umano ha potuto affinare, dalla più sottile e ammantata dall’ipocrita alone legale a quella rozza e impietosa del fanatismo religioso. Basta aprire un atlante per rendersene conto.
Osservare una cartina qualunque per trovare un luogo in cui la croce è disprezzata o – nella migliore delle ipotesi – tollerata. Non c’entra solo il jihadismo califfale che stringe come un giogo diabolico il vicino oriente, distruggendo ogni traccia di cristianesimo in quelle terre, arrivando persino a prendere a martellate le tombe, insulto ultimo al morto che non può difendersi. Non v’è solo lo scempio delle antiche chiese dove si pregava in aramaico, con gli altari addobbati da nere bandiere islamiste e amboni scavati nella pietra grezza fatti a pezzi per il gusto di dire al crociato superbo che quella non è più casa sua. Certo, la “n” di nazareno dipinta sulle case dei cristiani a Mosul ha contribuito molto a circoscrivere la persecuzione alla caccia avviata dal cosiddetto Stato islamico, e le immagini dell’esodo di intere comunità verso le tendopoli del Kurdistan iracheno non hanno fatto altro che acclarare tale desolante quadro. Eppure, questo è uno spaccato limitato. L’Africa, culla del nuovo cristianesimo, continente con vocazioni record e fedeli entusiasti, è al contempo l’arena dove più fedeli a Gesù vengono macellati da quelle che il Papa, nella preghiera finale dell’ultima Via Crucis al Colosseo, ha definito “spade barbariche”. La Nigeria ne è l’emblema: “Più di cinquecento villaggi cristiani sono caduti in una notte”, diceva il 2 marzo scorso Emmanuel Ogebe, avvocato per i diritti umani. Un rapporto recente del Gatestone Institute, think tank conservatore basato a New York che accoglie personalità del calibro di Alan Dershowitz, sottolineava che “quanto i cristiani stanno sperimentando in Nigeria è la fotografia dal vivo di ciò che milioni di cristiani e altri non musulmani hanno sperimentato fin dal settimo secolo, da quando cioè l’islam migrò entro i loro confini: violenza, persecuzione, schiavitù, distruzione di chiese”. Riassunto che dà credito e sostegno a quel filone di pensiero robusto – ma assai poco politicamente corretto – che vede nella stessa essenza della religione islamica, incapace di riformarsi, la causa della tempesta che sconvolge il mondo di oggi. “L’Amministrazione Obama rifiuta di associare Boko Haram – un’organizzazione che si definisce in termini puramente islamici – con l’islam, così come rifiuta di associare l’Isis all’islam”, osservava ancora il Gatestone Institute.

ARTICOLI CORRELATI “In Pakistan si insegna ai bambini che i cristiani contaminano l’acqua” "L'islamismo è un pericolo enorme". Parla il presidente degli imam di Francia Quando si riempiono le piazze per Asia Bibi? Silete politologi! Quando si coccolava il Belgio, “democrazia mite e serena”“In ogni caso”, aggiungeva il dossier, “l’Amministrazione sceglie un’altra strada, insistendo che il jihad è un prodotto dell’iniquità, della povertà e della mancanza di possibilità lavorative. Non dice mai che è il prodotto dell’insegnamento islamico”. Opportunità politica, si dirà. Un necessario equilibrismo che consente di tenere le porte aperte quasi con chiunque, evitando di gonfiare petto e muscoli, annullando ogni più o meno forte manifestazione d’orgoglio, ricacciando nell’oblio teorie sulla democrazia da esportare e favole sulla città splendente in cima alla collina di reaganiana memoria. Eppure, il memoriale delle vittime parla chiaro, senza attendere le acrobazie della diplomazia benpensante: Boko Haram ha mietuto più vittime dello Stato islamico. In quindici anni, fin da quando cioè nel nord della Nigeria si iniziò a guardare con interesse alla possibilità di fondare la società interamente sulla Sharia, sono stati uccisi tra i novemila e gli undicimilacinquecento cristiani, “e la stima è al ribasso”, si premette. Basta un kamikaze imbottito di tritolo da mandare a farsi saltare in aria in mezzo a un mercato, magari una bambina convinta con chissà quale stratagemma.

Niente di mediaticamente orripilante, comunque: all’attentatore suicida il telespettatore occidentale si è abituato, ora anche tante serie tv trasmesse on demand hanno fatto del kamikaze il parvenu d’obbligo. In Nigeria non si ammazzano i cristiani bruciandoli vivi in scatole di ferro; non li si maciulla investendoli con un carrarmato così da mettere subito su YouTube il video al fine di terrorizzare il globo e adescare adepti da mandare al massacro. La Nigeria è quasi come il Pakistan, dove da sette anni una madre di famiglia accusata di blasfemia attende di essere impiccata. Le folle becere alternano invocazioni al Dio misericordioso e al severo giudice secolare affinché si appenda al più presto a una gru Asia Bibi, rea d’essere cristiana in un paese che i cristiani li tratta come neanche gli ottomani facevano con le loro minoranze due, tre, quattro secoli fa. I talebani hanno subito rivendicato la strage di Lahore, in un parco giochi affollato di famiglie che festeggiavano la Pasqua. L’obiettivo erano i cristiani, recita il comunicato del boia. Ma allo statistico cui prude chiamare le cose con il loro nome poco importa: già da un paio di giorni fa sapere al mondo che, in base al dna, i pezzi di carne recuperati tra le giostre sono forse ricoperti di sangue più musulmano che cristiano. Come se questo dovesse in qualche modo acquietare le coscienze e ridimensionare la vicenda. Nella realtà pazzotica contemporanea succede che siano i musulmani, quelli illuminati, a dire la verità, e cioè che l’islamismo – ossia l’islam politico, che alimenta wahabismo e salafismo – è il male assoluto, un cancro che mina sì la convivenza intramusulmana, ma che è una bomba a orologeria messa nel ventre sempre più molle dell’occidente.

Ma la persecuzione non può essere ridotta banalmente a una guerra santa tra cristianesimo e islam. In India a dar la caccia al cristiano è il fondamentalismo indù, in Cina e Corea del nord sono le politiche dello stato. Perfino nell’America latina da cui proviene il Pontefice regnante i governi non è che siano in piena sintonia con la visione cristiana delle cose. Ed è questo il problema, il moloc invisibile che rende ancora più grave la questione. Perché la persecuzione più infida e di maggior successo è quella in guanti bianchi, perpetrata con i sottili strumenti del presunto Stato di diritto, codici e cavilli, tribunali e direttive.
“Ci si accorge che non ci sono solo le guerre di religione ma anche la guerra alla religione, e in particolare alla religione cattolica”, ha scritto nell’Introduzione al libro “Le nuove guerre di religione” (Cantagalli) il vescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân sulla dottrina sociale della chiesa, Giampaolo Crepaldi. “Non si tratta di una guerra dichiarata, convenzionale, con uso di armi e strategie militari. E’ possibile chiamarla guerra solo in senso traslato. E’ un conflitto, una lotta tramite leggi, politiche, interventi degli organismi internazionali, licenziamenti, intimidazioni, l’uso dei media, la destinazione di ingenti risorse alla propaganda contro la religione cattolica e i suoi presupposti”. Una guerra combattuta in occidente, che ineluttabilmente si lega al ribollire terrorista che ne minaccia valori (a patto di comprendere quale sia oggi il sostrato valoriale dell’Europa), princìpi e confini. Un occidente che, diceva ancora Crepaldi, “è troppo preoccupato di recidere i propri legami con la religione proclamando l’indifferenza alle religioni, indebolendosi e rendendosi non più capace di difendere nel mondo nemmeno il diritto alla libertà di religione, che in un certo senso è una sua invenzione”. Quell’occidente che “non dice una parola verso le persecuzioni dei cristiani” e che non ha “trovato finora la spinta morale per intervenire a proteggere le popolazioni vittime dei califfati o dei regimi dispotici a fondamento religioso”. L’occidente che per decenni ha appoggiato, esaltato e finanziato moderne satrapie ovunque nel mondo, salvo poi indignarsi per qualche ora dinanzi alla repressione di manifestazioni di piazza, addobando i profili personali di Facebook con pietosi simboli colorati e lacci neri a testimoniare una più o meno consapevole vicinanza al caos. E’ l’occidente che poi s’arrovella per mesi sulla scelta di riconoscere che tra la Siria e l’Iraq è in atto un genocidio contro i cristiani, con gli Stati Uniti che attendono l’ultimo giorno disponibile fissato dal calendario per dire che sì, le circostanze ci sono tutte per parlare di genocidio. Il cardinale Angelo Scola, scriveva qualche giorno fa sul Corriere della Sera che la dichiarazione del Segretario di stato americano, John Kerry, che ha ammesso l’esistenza di una persecuzione genocida nel vicino oriente, “adempie già una funzione essenziale, la memoria ‘senza la quale – ha ricordato Papa Francesco parlando alla nazione armena – il male tiene ancora aperta la ferita’”. Citava, l’arcivescovo di Milano, “quella nuda lista di 1.131 cristiani iracheni uccisi dal 2003 al 9 giugno 2014 (cioè prima della conquista di Mosul da parte dell’Isis)”, la rappresentazione più veritiera del fatto che “gli attentati e le violenze che sconvolgono oggi alcune metropoli europee sono l’appendice di quell’amaro pane quotidiano di cui intere popolazioni, dall’Iraq alla Siria, dall’Afghanistan alla Somalia, per non parlare della Nigeria, si nutrono ormai da anni. Prenderne coscienza – aggiungeva Scola – produce un moto di compassione che non sostituisce ma allarga la riflessione sulla sicurezza”. Tuttavia, chiosava il cardinale ambrosiano, “memoria e compassione non sono sufficienti a cancellare il male”.

Che si tratti di mattanza armata o di persecuzione sub lege, la guerra al cristianesimo mira a sradicarlo ovunque esso abbia dato frutti. L’Europa pacificata del Terzo millennio, che s’è dotata di istituzioni comuni, inno, bandiera blu con le stelle gialle, tenta così di compiere il sogno rimasto utopia dei rivoluzionari giacobini, che fecero della cattedrale di Notre-Dame un deposito per armi, granaglie e cavalli; un luogo dove dall’altare si declamavano odi alla dea ragione, prima che al filosofo Henri de Saint-Simon venisse in mente il proposito (poi scongiurato) di comprarsi l’edificio per raderlo al suolo.
Secondo il Pew Forum, il maggior istituto del pianeta per gli studi sulla demografia, tra il 2006 e il 2010 i cristiani sono stati a vario titolo discriminati, “de jure o de facto”, in 139 paesi. Cioè nei tre quarti degli stati presenti sulla faccia della terra. Il Gordon-Conwell Theological Seminary, in Massachusetts, ha stimato che ogni anno (nell’ultima decade) sono stati assassinati più o meno centomila cristiani in quella che è stata definita “martirio”. Undici morti per la propria fedeltà a Cristo ogni ora, sette giorni su sette, sottolineava Allen.

Nulla di inedito, scriveva già tempo fa ne “La storia perduta del cristianesimo” (edito in Italia da Emi, 2016) lo storico americano Philip Jenkins: “Le religioni muoiono. Nel corso della storia, alcune religioni svaniscono del tutto, altre si riducono da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci”. Gli esempi non mancano: “Il manicheismo, una religione che un tempo attirava adepti dalla Francia alla Cina, non esiste più in alcuna forma organizzata o funzionale; né esistono più le fedi che, mezzo millenio fa, dominavano il Messico e l’America centrale”. E anche il cristianesimo non è sfuggito a tale destino: “In diverse occasioni è stato distrutto in regioni dove un tempo aveva prosperato” e “nella maggior parte dei casi, l’eliminazione è stata tanto meticolosa da cancellare ogni memoria dei cristiani sul territorio, al punto che oggi qualsiasi presenza cristiana da quelle parti è guardata come una sorta di specie invasiva arrivata dall’occidente”.
di Matteo Matzuzzi | 04 Aprile 2016

*

Asia Bibi condannata a morte per fede. Ma in Vaticano il suo caso è tabù

Ogni volta che c'è di mezzo l'islam, Francesco è estremamente cauto. Ma sul Pakistan la sua reticenza è massima. Ecco la storia della madre cristiana su cui egli tace. È in prigione da sette anni e la sua sorte si intreccia con la strage di Pasqua a Lahore

di Sandro Magister


ROMA, 5 aprile 2016 – Nel commentare la Pasqua di sangue di Lahore papa Francesco è stato attentissimo a non chiamare in causa gli autori dell'attentato e a non esplicitare il senso di quel crimine, che, anzi, ha definito "insensato":

> "Regina coeli" del 28 marzo 2016

Facendo ciò si è inchinato ai canoni di quella diplomazia minimale che guida tradizionalmente i passi della Santa Sede sui terreni più minati, giustificata dalla volontà di non esporre a ulteriori pericoli le cristianità più vulnerabili, come appunto quella pakistana.

E fin qui nessuna sorpresa. Ogni volta che c'è di mezzo l'islam, Jorge Mario Bergoglio è estremamente cauto. Una sola volta ha compiuto uno strappo, e tutto d'iniziativa sua, con la Turchia riguardo al "genocidio" degli armeni, mettendo non poco in affanno la segreteria di Stato vaticana, che ha dovuto faticare mesi per ricucire con le autorità turche:

> Genocidio armeno. Francesco tra diplomazia e "parresìa" (24.4.2015)

Ma sul Pakistan il papa è ancor più riservato e silenzioso che mai, molto al di sotto delle attese dei cristiani di quel paese. In segreteria di Stato il dossier Pakistan è tra quelli più voluminosi e dolenti, eppure niente di esso affiora in ciò che Francesco dice e fa, le rare volte in cui si trova obbligato a intervenire.

L'emblema di questa reticenza è nei 12 secondi – non uno di più – del faccia a faccia che il papa ha avuto in piazza San Pietro, il 15 aprile di un anno fa, col marito e la figlia più piccola di Asia Bibi, la cattolica pakistana condannata a morte nel 2010 con la pretestuosa accusa di aver offeso il profeta Maometto, e da allora in carcere in attesa di una nuova sentenza che le salvi la vita.

Nel fugace incontro lungo le transenne – come si può osservare nel video – il papa appena sfiora i due, accompagnati dal loro tutore. Non li ascolta, non parla, non li benedice. La fanciulla lo guarda stupita di tanta freddezza. Tutto avviene come se a Francesco il nome di Asia Bibi non dica nulla:

> Rome Reports. Francisco saluda...

Il 17 novembre 2010, pochi giorni dopo la sua condanna a morte, Benedetto XVI invocò pubblicamente che ad Asia Bibi fosse restituita la libertà. Ma questa è rimasta la prima e ultima volta in cui un papa ha pronunciato in pubblico il suo nome, nonostante la mobilitazione di tanti a sostegno di lei e nonostante la sua vicenda si sia intrecciata a tutti i successivi eventi di odio anticristiano in Pakistan, fino alla strage di quest'ultima Pasqua, con 74 morti e 350 feriti, in gran parte donne e bambini.

Asia Bibi fu arrestata il 19 giugno 2009 e condannata a morte l'11 novembre 2010, con l'accusa, non sorretta da prove, di aver violato la legge che in Pakistan punisce con l'esecuzione capitale l'offesa della religione islamica.

La famiglia presentò ricorso e in molti si mossero per la liberazione della condannata e per la revisione della legge contro la blasfemia, tra i quali l'allora governatore del Punjab e futuro possibile primo ministro, Salmaan Taseer, musulmano, che si recò anche a visitarla in carcere.

Ma il 4 gennaio 2011 Taseer fu ucciso da una delle sue guardie del corpo, Mumtaz Qadri, proprio per rappresaglia contro questo suo impegno.

E due mesi dopo, il 2 marzo, fu assassinato per lo stesso motivo Shahbaz Bhatti, cattolico, ministro per le minoranze e paladino dei diritti umani. Benedetto XVI lo conosceva di persona, lo aveva incontrato a Roma nel settembre dell'anno precedente e provava per lui grande stima.

Il 10 gennaio 2011, pochi giorni dopo l'uccisione di Taseer e poco prima di quella di Bhatti, Benedetto XVI dedicò alla questione questo passaggio del suo discorso d'inizio d'anno al corpo diplomatico:

"Tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le autorità di quel paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose. Il tragico assassinio del governatore del Punjab mostra quanto sia urgente procedere in tal senso: la venerazione nei riguardi di Dio promuove la fraternità e l’amore, non l’odio e la divisione".

Il fratello di Shahbaz Bhatti, Paul, ha cercato da allora di animare una mobilitazione nazionale e internazionale a sostegno della libertà religiosa, con Asia Bibi come caso emblematico.

In patria, Paul Bhatti ha fondato e presiede la All Pakistan Minorities Alliance ed è stato ministro per l'armonia nazionale. E oggi rivendica i passi avanti ottenuti nella difesa delle minoranze, nel controllo delle scuole coraniche in cui si instilla odio contro gli "infedeli", nelle correzioni legalitarie apportate dalla corte suprema ai processi per blasfemia e soprattutto in un più deciso impegno delle autorità non solo politiche ma militari nel combattere il radicalismo islamico, specie dopo il tremendo attentato del 16 dicembre 2014 alla scuola militare di Peshawar, con l'uccisione deliberata di 132 scolari d'età tra i 7 e i 18 anni.

Un effetto di questa evoluzione è stato, a giudizio di Bhatti, proprio l'accoglimento da parte della corte suprema del Pakistan, il 22 luglio del 2015, del ricorso di Asia Bibi. La quale, in attesa di un nuovo processo che la riconosca innocente, continua dal carcere a far sentire la sua voce, con lettere e appelli.

Ad esempio con questa lettera aperta del dicembre 2012, nella quale ringrazia Benedetto XVI per aver parlato in suo favore:

> "Scrivo da una cella senza finestre…"

Come anche con le due lettere da lei indirizzate personalmente a papa Francesco, che non hanno ricevuto risposta.

Asia Bibi è dal 2010 custodita in celle di massima sicurezza, in un isolamento giustificato dalle continue minacce alla sua vita. Perfino il cibo le viene controllato, per evitare che sia avvelenata.

Ma anche i suoi famigliari, il marito Ashiq Masih e i cinque figli Imran, Nasima, Isha, Sidra e Isham, devono nascondersi in località segrete per ragioni di sicurezza. È quanto hanno dovuto fare, in particolare, alla fine dello scorso febbraio, in concomitanza con l'esecuzione capitale di Mumtaz Qadri, l'autore dell'assassinio nel 2011 del governatore del Punjab Salmaan Naseer.

L'impiccagione di Qadri, avvenuta il 29 febbraio, ha suscitato la reazione di massa dei suoi sostenitori e dei gruppi islamici radicali, che sono scesi in piazza a Lahore, Karachi, Peshawar e altre città, qua e là con esplosioni di violenza.

Per tutti costoro Qadri è un "eroe nazionale", ne chiedono la riabilitazione e ne innalzano l'effigie. Mentre per Asia Bibi reclamano incessantemente la morte.

Il giorno di Pasqua, a un mese dall'esecuzione di Qadri, in 30 mila sono scesi in piazza a Islamabad, la capitale, e hanno tentato di sfondare la "zona rossa" dei palazzi delle istituzioni. Ma sono stati respinti. Nel pomeriggio dello stesso giorno, a Lahore, un islamista ventenne si faceva esplodere nel parco giochi Gulshan-i-Iqbal, facendo strage di donne e bambini che stavano trascorrendo la festività, introdotta per la prima volta quest'anno dal governo.

La strage è stata rivendicata da un’organizzazione islamica chiamata Jamaat-ul-Aharar, una fazione del Tehreek-e-Taliban Pakistan, come un attacco deliberato contro i cristiani che celebravano la Pasqua.

E non è il primo attentato compiuto in Pakistan con questo obiettivo dichiarato, di domenica e davanti a delle chiese affollate. È accaduto così il 22 settembre 2013 a Peshawar, con 126 vittime, e il 15 marzo 2015 a Yuhannabad, con 26 morti e numerosi feriti, tutti cristiani.

Il 31 marzo scorso i musulmani radicali hanno lasciato le piazze, millantando di aver avuto dal governo l'assicurazione che Asia Bibi sarà presto impiccata. Le autorità pakistane hanno smentito.

Mercoledì 2 marzo, al termine dell'udienza generale in piazza San Pietro, papa Francesco aveva brevemente incontrato due ministri pakistani, quello della marina Kamran Michael e quello degli affari religiosi Sardar Muhammad Yousaf. I due avevano trasmesso al papa l'invito del primo ministro Nawaz Sharif a visitare il Pakistan. E avevano interpretato la risposta del papa come un "sì", facendo immaginare che egli avrebbe fatto tappa in Pakistan nel prossimo settembre, in occasione del viaggio a Calcutta per la canonizzazione di madre Teresa.

In realtà, come precisato da padre Federico Lombardi, il papa non si recherà quest'anno né a Calcutta né tanto meno in Pakistan.

Né ha finora dedicato una sola parola ad Asia Bibi. Il cui supplizio si riverbera sul marito e i figli, che da quando lei è in prigione, da quasi 2500 giorni, devono continuamente trovar riparo nella clandestinità, essendo anche loro in pericolo di vita.

Dal loro villaggio di Ittanwali si sono trasferiti a Lahore, una grande metropoli dove è più facile l'anonimato. Ma presto anche lì sono stati riconosciuti e minacciati. Per nascondersi, il marito ha dovuto smettere di lavorare. L'estate scorsa sono stati cacciati di casa e oggi trovano riparo in una scuola della Renaissance Education Foundation.

Il direttore di questa fondazione, Joseph Nadeem, è il signore con la cravatta a fianco della figlia di Asia Bibi, nel video dell'incontro con papa Francesco.

Al quale ha tentato inutilmente di dire in spagnolo chi fossero l'uomo e la bambina. E neppure è riuscito a mettergli in mano il dossier che aveva in animo di dargli.

Per altri particolari sul calvario del marito e dei cinque figli di Asia Bibi:

> Asia Bibi, in fuga anche tutta la sua famiglia


http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351264

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.