ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 25 aprile 2016

Sancte Marce, ora pro nobis.

25 aprile. San Marco Evangelista

zzzzsnmrcPoiché oggi siamo sommersi dalla retorica di una festa pagana che celebra l’odio tra compatrioti e fa il possibile e l’impossibile perché questo odio perduri e imbestialisca sempre più l’uomo, è opportuno ricordare le ricorrenze della Santa Chiesa Cattolica, che ogni giorno, nel ricordo dei Santi, ci arricchisce con esempi edificanti.
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Calendario tradizionale. Lunedì 25 aprile 2016 – San Marco Evangelista
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Martirologio – 25 aprile 2016
A Roma le Litanie maggiori nella Basilica di san Pietro.
Ad Alessandria il natale del beato Marco Evangelista. Questi, discepolo ed interprete dell’Apostolo Pietro, pregato in Roma dai fratelli, scrisse il Vangelo, col quale se ne andò in Egitto, e per primo annunziando Cristo in Alessandria, vi fondò la Chiesa. Poi, preso per la fede di Cristo, legato con funi e trascinato fra i sassi, fu gravemente tormentato; quindi, chiuso in carcere, prima fu confortato da un’angelica visione, e finalmente, apparendogli lo stesso Signore, fu chiamato ai gaudii celesti, nell’anno ottavo di Nerone.

Così pure ad Alessandria sant’Aniàno Vescovo, il quale, discepolo del beato Marco e suo successore nell’Episcopato, illustre per virtù si riposò nel Signore.
Ad Antiochia santo Stefano, Vescovo e Martire, il quale dagli eretici, che impugnavano il Concilio Calcedonese, dopo aver molto sofferto, fu precipitato nel fiume Oronte, al tempo dell’Imperatore Zenone.
A Siracusa, in Sicilia, i santi Martiri fratelli Evódio, Ermógene e Callista.
A Lobbes, in Belgio, il natale di sant’Ermino, Vescovo e Confessore.
Ad Antiochia i santi Filone e Agatópode Diaconi, dei quali fa degna menzione nelle sue lettere il beato Ignazio, Vescovo e Martire.
V. Ed altrove molti altri santi Martiri e Confessori, e sante Vergini.
R. Grazie a Dio.
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Il Martirologio può essere scaricato in formato pdf cliccando qui  

Celebrazioni del 25 aprile. Un libro di Roberto Beretta ci ricorda la tragica mattanza di preti uccisi dai partigiani

admin
Premessa: Il libro di Roberto Beretta fu pubblicato da Piemme, casa editrice acquisita dal gruppo Mondadori. Nel catalogo Mondadori il libro non esiste più. Figura come “non disponibile” su Amazon e come “fuori catalogo” su LaFeltrinelli. E’ reperibile nel Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale.
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Un martirologio del Novecento: i preti vittime della violenza comunista in italia tra il 1941 e il 1951

Redazione
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Centotrenta uomini uccisi. Il primo omicidio è datato 7 agosto 1941, l’ultimo 4 febbraio 1951. In alcuni casi, rari, i killer sono stati scoperti; ma su moltissimi altri casi regna il buio, anche perché l’omertà, sembra incredibile, copre ancora le colpe a tanti decenni di distanza. E quando non si tratta di omertà, c’è però una – non meno riprovevole – indifferenza su cose frettolosamente accantonate, perché ormai vecchie, passate. In molti casi all’omicidio si è aggiunto un ulteriore oltraggio, impedendo addirittura che si tenessero pubbliche esequie per le vittime, o anche propalando su di loro dicerie infamanti, quasi a giustificarne l’uccisione. La mano omicida ha colpito in tutta Italia, dalla Val d’Aosta al Friuli, arrivando fino alla Calabria. Tanti i sicari, pochi, come dicevamo, quelli puniti, uno solo il mandante. Conosciuto, ma impunito.
Le vittime hanno una caratteristica che le accomuna: sono tutti sacerdoti, secolari o religiosi, parroci o cappellani militari, o semplici preti senza incarichi specifici, o cura d’anime. Molti, moltissimi di loro sono stati uccisi due volte: la prima volta dagli assassini materiali, la seconda volta dall’oblio e dalla negligenza di chi non può o non vuole ricordare.
Sembra la trama di un racconto poliziesco nato dalla fantasia un po’ troppo sbrigliata di qualche scrittore in vena di fornire emozioni «forti» ai lettori. E invece quanto ho descritto è tutto, purtroppo, realmente accaduto e lo racconta Roberto Beretta nel suo libro “Storia dei preti uccisi dai partigiani”, edito da Piemme.
Nella semplicità del suo titolo, diretto, chiarissimo, Beretta affronta uno dei capitoli più oscuri della storia nazionale nel periodo della guerra civile: la strage dei sacerdoti, operata da partigiani comunisti. Si tratta della prima opera che tratta in modo organico e approfondito una realtà, in verità arcinota, ma della quale «non» si doveva parlare, perché poteva minare l’immagine fin da subito oleografica della lotta di Liberazione, e soprattutto l’immagine del partito comunista quale vera avanguardia della lotta medesima.
Beretta tocca uno degli argomenti tabù, uno dei capitoli più tragici della tragica situazione in cui visse il Paese, dilaniato di fatto da due guerre, quella contro i tedeschi e quella civile scatenata dai comunisti. Questi ultimi non combattevano solo contro tedeschi e fascisti, ma anche contro i compatrioti antifascisti, se questi si opponevano alle loro pretese egemoniche e rivoluzionarie o se, comunque, sempre a insindacabile giudizio comunista, potevano essere considerati elementi sospetti. Porzus docet – potremmo dire – o, almeno, dovrebbe farci imparare che il Partito Comunista ebbe la «sua» politica da seguire e che i Gruppi di Azione Partigiana (Gap) e le Brigate «Garibaldi» agirono il più delle volte con assoluto disprezzo della pur ufficialmente accettata autorità del Cln.
I preti. Perché ucciderli? La guerra ha una sua spietata logica, nella quale rientra l’uccisione del nemico. Dal momento in cui si attua quella «sospensione della moralità» che è la situazione di conflitto, l’uccisione del nemico comporta però anche la difesa dell’amico, dell’alleato, e la fine delle ostilità comporta anche la fine di quella «licenza di uccidere». La società rientra nella normalità.
Perché dunque uccidere i preti? E perché le uccisioni andarono ben oltre la fine della guerra?
Roberto Beretta si pone, e ci pone, appunto, queste domande.
Nel primo capitolo, “Gli epurati”, leggiamo: «Erano colpevoli? E, se lo erano, meritavano di morire come sono stati uccisi, per giustizia sommaria, senza processo, talvolta “prelevati” e mai più ritrovati, tal altra seppelliti senza alcun funerale, fatti fuori anche vari mesi dopo la guerra sulla base di sospetti mai verificati, o anche di vendette personali fatte passare per motivi politici, diffamati in vita e ancor più in morte, perché più l’accusa era importante, più si sarebbe digerito il delitto? Non so, ciascuno giudichi. In me (che la guerra non ho vissuto) ha finito per prevalere la pietà per queste figure, tanto spesso innocenti o al massimo colpevoli quanto può esserlo qualunque uomo messo alle strette dalle circostanze della vita. Ma proprio per questo il viaggio vuol partire dagli “epurati”: ovvero dai sacerdoti uccisi per una colpa tutto sommato facile da comprendere, una collusione più o meno spinta col passato regime, che può lasciar capire (mai giustificare!) la loro eliminazione nella concitazione e tra le passioni di un contesto di guerra. Cominciamo dunque dai più “cattivi”, dai più “neri”» (p. 14).
Infatti il libro è redatto come una sorta di «catalogo» delle vittime.
Nel primo ci parla dei preti più compromessi con il fascismo, partendo proprio da quel don Tullio Calcagno (1899-1945), prima sospeso a divinis, poi addirittura scomunicato per la sua intensa attività politica di indiscutibile fede fascista, andata ben oltre il consentito dalle norme ecclesiastiche. La foto dei cadaveri di don Calcagno e dell’ex prefetto – medaglia d’oro, nonché cieco di guerra – Carlo Borsani (1917-1945), appena fucilati in piazzale Susa a Milano il 29 aprile 1945, dopo la condanna decretata da un tribunale del popolo, appare in prima di copertina, con opportuna crudezza, perché vale più di mille parole per introdurre al viaggio che Beretta propone di fare insieme a lui.
Per dieci capitoli, leggiamo episodi di cruda monotonia. Un nome, una data, una località, e poi la descrizione dell’evento, più o meno dettagliata, a seconda dei documenti esistenti, della memoria più o meno rimossa, della volontà, o meno, di parenti e amici, di ricordare l’ucciso. Leggiamo le vicende dei cappellani – due soli cappellani di milizia fascista, gli altri semplici assistenti spirituali dell’esercito -, dei «sospettati», dei «padroni» – preti ai quali si poteva imputare la colpa di essere possidenti -, dei «traditi» – preti che aiutavano i partigiani, alcuni addirittura cappellani di formazioni partigiane -; abbiamo i «dimenticati e gli insepolti», i «beatificati», fino ad arrivare ai preti «infoibati», uccisi nella terribile mattanza che vide partigiani comunisti e truppe titine «lavorare» insieme, riempiendo le cavità carsiche di migliaia di vittime, la cui colpa principale era l’italianità e l’anticomunismo.
Abbiamo parlato di episodi di «cruda monotonia» non certo perché il libro di Beretta sia monotono. Piuttosto colpisce la ripetitività di determinati atti: il prete che viene chiamato fuori casa con l’inganno – in genere, chiedendo l’assistenza per un morente -; le intimidazioni e le minacce, nel più classico stile malavitoso, contro chi può aver visto o sentito troppo; il divieto addirittura di celebrare un funerale in forma pubblica; la diffamazione postuma della vittima – con netta preferenza per le «questioni di donne» -, per rendere – come dice Beretta stesso – più «digeribile» il delitto.
Il tono volutamente dimesso con cui Beretta apre il suo lavoro potrebbe trarre in inganno il lettore più disattento. «Erano colpevoli? Non so, ciascuno giudichi», dice, come se volesse disfarsi del problema.
Ma poi pone davanti al lettore i fatti, l’unica cosa che conti laddove si voglia fare della storia e non dell’agiografia, di una parte o dell’altra. E i fatti parlano: parlano di una crudeltà cieca, non giustificata da alcuna esigenza militare, che trova nell’odio ideologico e nel fanatismo i suoi alimenti.
Un altro fatto è di estremo interesse: leggendo nelle «schede» che chiudono il libro la «Lista cronologica delle vittime» vediamo che le uccisioni continuano ben oltre il 25 aprile 1945. Fino al dicembre di quell’anno la lista è ancora lunga, così come è corposa anche la lista del 1946. Quattro uccisioni sono registrate nel 1947. L’ultimo prete ucciso per «motivi politici» è don Ugo Bardotti, pievano di Cevoli, nella diocesi di San Miniato in provincia di Pisa. Verso le ore 22 di domenica 4 febbraio 1951 tre persone bussano alla canonica e l’anziana zia del prete, che gli fa da perpetua, apre perché sente un cognome conosciuto in zona. Poi tre colpi di pistola: don Bardotti cade, ultima vittima di una malattia tremenda, l’odio, senza il quale, del resto, non possono sussistere le ideologie che hanno devastato il secolo scorso.
Beretta, come si è visto, lascia parlare i fatti. Tuttavia il suo libro venne tacciato di «revisionismo», parola che per certa sinistra suona come infamante – non essendo più di moda dare tout court del «fascista» all’avversario -, ma che per le persone di buon senso rappresenta l’atteggiamento che deve avere sempre lo storico, sempre pronto a riscrivere ogni riga, laddove nuovi documenti, nuove testimonianze, possano arricchire la conoscenza dei fatti. In questi ultimi anni si sono fatti passi avanti su questa strada, e il libro di Beretta rappresenta una tappa fondamentale per rileggere correttamente la nostra Storia patria. Egli stesso, nella conclusione del libro, parlando della Resistenza, mette in guardia contro i pericoli del mito e della falsificazione, che sono destinati comunque a crollare nel tempo, trascinando nella loro rovina anche quanto di buono e positivo vi fu in quel pur tragico periodo.
Roberto Beretta, sempre con la forza dei fatti e riportando anche le ricerche di altri studiosi – Norberto Bobbio (1909-2004), per citare il più illustre; e poi Claudio Pavone, Elena Aga Rossi, e altri ancora – dimostra la falsità anche di un altro assunto, fin qui ufficialmente cristallizzato come la «Verità»: le uccisioni di preti, non potendo essere negate, vengono contrabbandate come opera di pochi masnadieri, sconfessati dal Partito Comunista, che lealmente collaborava con gli altri partiti democratici per la costruzione della nuova Italia. Resta però da spiegare perché le formazioni comuniste furono le ultime a riconsegnare le armi dopo la fine delle ostilità, peraltro conservando buoni quantitativi di scorta; resta da spiegare perché la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, all’epoca paesi di stretta osservanza moscovita, furono generoso rifugio di quei «pochi masnadieri». Restano da spiegare tante cose, fra le quali il clima di terrore che si visse almeno fino al 1948 nel famoso «Triangolo rosso» o «Triangolo della morte», fra Emilia e Romagna, in città e regioni dove i comunisti avevano acquisito il controllo di prefetture e delle forze di polizia. E il discorso si allarga fatalmente, oltre ai poveri preti uccisi – che finalmente vengono restituiti alla memoria e, quindi, alla pietà -, per spostarsi su migliaia di altre vittime, anch’esse spesso cadute dopo la fine ufficiale del conflitto civile: quegli «sconosciuti 1945» (e oltre), di cui finalmente si può parlare dopo le opere coraggiose di Giampaolo Pansa. I «pochi masnadieri» in realtà non furono pochi, di certo per la massa di «lavoro» che riuscirono a sbrigare e per essere «pochi» furono anche molto ben organizzati.

Un’altra Storia è possibile. Rubrica di studi storici di Massimo Viglione

25 aprile: la festa della sconfitta e dell’odio

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È fin troppo facile far notare che il 25 aprile è la festa più insensata e ridicola che sia mai esistita nella storia, visto che di fatto si festeggia una sconfitta militare di un popolo distrutto e caduto nella guerra civile e nell’odio ideologizzato. E che è ancora più insensata perché si continua a festeggiarla dopo oltre settant’anni! Una tipica follia democratica.
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25 aprile: la festa della sconfitta e dell’odio
di Massimo Viglione
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pzzlrtÈ fin troppo facile far notare che il 25 aprile è la festa più insensata e ridicola che sia mai esistita nella storia, visto che di fatto si festeggia una sconfitta militare di un popolo distrutto e caduto nella guerra civile e nell’odio ideologizzato. E che è ancora più insensata perché si continua a festeggiarla dopo oltre settant’anni! Una tipica follia democratica.
Naturalmente diciamo questo non certo per nostalgismo pro sconfitti, né perché riteniamo che qualora la guerra fosse stata vinta dal nazional-socialismo noi italiani ce la saremmo passata meglio. Forse nei primissimi anni della vittoria; ma, personalmente ritengo che, specie alla lunga – e questo al di là delle follie razziste dell’hitlerismo – sempre servi saremmo stati, e sempre del Paese che oggi domina l’Europa non con le armi e la Gestapo ma con la finanza e le banche.
Occorre riflettere bene ormai, dopo oltre settant’anni, sul perché di questa stupida festa nazionale. Se essa è stata inventata e continua ad essere imposta ogni anno, nonostante ormai da lungo tempo molti intellettuali – spesso ex-marxisti – stiano oggettivamente invitando all’eliminazione di questo solco di sangue che ancora bagna l’identità italiana – è perché essa è il marchio stesso della Repubblica Italiana. Ne è il sigillo nazionale. Un sigillo troppo pesante perché possa essere tolto e possa divenire pubblico ciò che nasconde.
Per decenni si è taciuto sulle stragi comuniste dei titini in Istria e sulle stragi comuniste dei partigiani in Emilia Romagna e altrove. Per decenni il 25 aprile serviva a occultare nella festa “di tutti” (come Pertini, il presidente di tutti, ricordate?) il sangue innocente (donne, vecchi, seminaristi, sacerdoti, uomini che si erano arresi, ecc.) offerto in tributo all’altare del sol dell’avvenire che sembrava stesse per sorgere in quei tragici giorni.
Soprattutto doveva però nascondere anche l’idea stessa che in Italia vi fosse stata una guerra civile. Tutti noi che siamo stati studenti nella Prima Repubblica, sappiamo bene che la guerra civile fra partigiani e fascisti non è mai esistita: è esistita invece la guerra di “liberazione” – termine che dimenticava, come se nulla fosse, il fatto che se dietro i fascisti vi era un invasore, dietro i partigiani ve ne erano due (o di più, forse). “Liberazione”: ecco la parola magica inventata, mentre Mussolini pendeva a Piazzale Loreto e il sangue scorreva a litri nel triangolo rosso della morte e in Istria, per occultare sia la sconfitta militare che l’idea stessa di una guerra civile. Al punto tale che – e il cinema ha lavorato molto in tal senso – il “fascista” non era più neanche italiano, ma era il male in sé, inevitabilmente cattivo perché antitesi dell’inevitabilmente buono, ovvero dell’italiano partigiano.
Ma perché occorreva – e occorre ancora dopo settant’anni – nascondere la sconfitta e la guerra civile? Su questo nodo focale ormai la letteratura è vasta (Galli della Loggia, Emilio Gentile, Paolo Mieli, Marcello Veneziani, solo per citare alcuni fra gli autori più noti): la ragione vera risiede nella storia precedente, vale a dire nel Risorgimento italiano.
Il processo di unificazione nazionale è stato – al di là del mero risultato territoriale amministrativo – un assoluto fallimento. L’“italietta” nata dal blitz di Cavour e Garibaldi era più “espressione geografica” dell’Italia dei giorni di Metternich. Niente univa il siciliano e il piemontese, il salentino e il lombardo, il fiorentino e il calabrese. Economicamente era un disastro, più o meno come oggi. Moralmente screditati e corrotti. Militarmente ridicoli e incapaci (nemmeno gli africani ci rispettavano: come oggi). Per non parlare della questione meridionale, della mafia, della corruzione, dell’emigrazione di milioni di uomini costretti a lasciare la loro Italia per non morire di fame.
Essendo evidente a tutti il fallimento ideale, civile e culturale del Risorgimento, per forgiare gli italiani fu deciso prima di tentare la via coloniale e fu un disastro, come già accennato. Poi di entrare nella Prima Guerra Mondiale, pur sapendo perfettamente che se ne poteva stare tranquillamente fuori. Il prezzo è stato 600.000 morti e 1.500.000 mutilati e feriti, il tutto per la “vittoria mutilata” (anche la vittoria fu mutilata).
Poi il biennio rosso – con il rischio bolscevico – e infine la dittatura fascista, che si assunse il compito di “fare gli italiani”, ovvero di riuscire dove il risorgimento liberale aveva chiaramente fallito. Il fascismo divenne, come Mussolini stesso dichiarò più volte e Giovanni Gentile teorizzò filosoficamente – il compimento del Risorgimento. Il Secondo Risorgimento.
Ma il fascismo – al di là di alcuni innegabili risultati positivi – ci ha condotto al secondo disastro mondiale e all’8 settembre, con la “morte della patria”, lo Stato alla sfascio, una monarchia indecente che fugge, un esercito lasciato senza ordini e senza capi, all’invasione degli stranieri e alla guerra civile.
Così, il mondo partigiano, almeno l’intelligenza di esso, comprese che occorreva risollevare ancora una volta, per la terza volta, dal baratro il mito fallimentare del Risorgimento. E lo fece facendo scomparire dall’idea italiana il fascismo, la sconfitta e la guerra civile, e presentando la nuova repubblica consociativa, liberal-democratica tendente a sinistra come il vero ultimo passaggio per la realizzazione del “nuovo italiano”, quello appunto sognato dagli eroi risorgimentali. Nacque così il “terzo risorgimento”, quello democristian-laico-comunista.
Ecco la necessità di mantenere in vita la festa del 25 aprile. In fondo, abolirla, sarebbe come ammettere che pure il “terzo risorgimento” ha fallito nell’obbiettivo di fare gli italiani e di costruire un Italia unita e rispettabile nel consesso delle nazioni.
Quanto l’Italia di oggi sia unita e rispettabile nel consesso delle nazioni è sotto gli occhi di tutti.
È fallito il primo Risorgimento, quello condotto contro la Chiesa e l’identità cattolica italiana. È fallito il secondo Risorgimento, quello fascista. È fallito pure il terzo Risorgimento, quello del compromesso storico fra “cattolici” liberali, laici e comunisti, che ha prodotto l’obbrobrio in cui oggi viviamo.
Oggi l’Italia neanche esiste più, essendo divenuta colonia sottomessa a un’entità astratta e al contempo famelica e contro-natura come la UE. Eppure noi continuiamo a festeggiare il 25 aprile.
Come dire… sempre più stupidi, ogni anno che passa. Sempre meno italiani, ogni anno che passa.
Perché il vero italiano era quello figlio di 26 secoli di storia. Quello che si trovò i piemontesi a casa. Quello era il vero italiano. E oggi, italiano vero, è colui che è in grado di capire e ha la forza di dirlo che questa Italia, questa Repubblica, non ha quasi nulla della vera Italia. E che finché non restaureremo la vera Italia, il nostro destino sarà quello di andare sempre più allo sfascio generale. Perfino – ormai è chiaro – di subire l’ennesima invasione, questa volta di islamici, alla faccia del I, del II e del III Risorgimento. O meglio, come esito inevitabile del risorgimento stesso.
Ma, per usare una loro espressione… “un’altra Italia è possibile”. Non dimentichiamolo e lottiamo per questo.

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