LA FAMIGLIA SECONDO BERGOGLIO
Amoris laetitia o la famiglia secondo Bergoglio. Con l’esortazione apostolica Amoris laetita si tira un colpo di spugna su 2 mila anni di dottrina cattolica con effetti che rischiano di essere dirompenti sulla famiglia
di Francesco Lamendola
Ci era stato sempre insegnato che una delle differenze fondamentali del cattolicesimo rispetto al protestantesimo, oltre alla dottrina sul libero arbitrio e a quella sulla salvezza mediante la fede e le opere (e non mediante la sola fede) è che il primo si affida, per l’interpretazione delle Sacre Scritture, alla Tradizione e al Magistero ecclesiastico; il secondo, invece, lascia completa libertà di lettura e interpretazione individuale.
Ma ecco che, da qualche tempo in qua, le cose non sembrano più così chiare e semplici, come lo sono stare per tanti secoli; ecco che si ha l’impressione che anche ai cattolici, fino a un certo punto, venga lasciato un margine di discrezionalità nella interpretazione del Vangelo; meglio ancora (o peggio ancora, secondo i punti di vista): ecco che lo stesso Magistero, cambiando la Tradizione, sembra voler dare l’esempio di una inusitata libertà d’interpretazione della Scrittura, discostandosi da ciò che finora ha insegnato e lasciando intendere che, in ultima analisi, l’importante è tener conto, adattandovisi, dei fattori storici, culturali e psicologici contingenti, insomma esercitare il massimo della elasticità per non perdere la presa sui fedeli.
Anche se tale presa si riduce a un velo sottilissimo, o, di fatto, a una mera finzione, dal momento che nessuna autorità che si rispetti si riduce a riconoscere le situazioni di fatto e ad ammettere tali e tante eccezioni alla regola, da rendere la regola inoperante e, in sostanza, ininfluente e superflua.
È uscita, finalmente, l’esortazione apostolica Amoris laetita, a corollario dei due sinodi sulla Famiglia, del 2014 e 2015, con la quale papa Francesco si rivolge al clero e al popolo cristiano per fare il puto sulla situazione delle famiglie e per fornire le nuove indicazioni pastorali anche riguardo alle situazioni cosiddette “irregolari”, cioè non in linea con il Magistero e con la pratica della vita cristiana. E si scopre, come era largamente previsto, che in essa viene operata una vera e propria sanatoria, una specie di indulto generale, che tirano un colpo di spugna su duemila anni di dottrina cattolica riguardo al matrimonio, alla separazione, al divorzio, all’accesso ai sacramenti da parte delle persone separate o divorziate; sanatoria o indulto che, apparentemente, hanno l’effetto, se non lo scopo, di abolire le differenze tra coppie di fatto e coppie “regolari” nel senso cristiano; e che, per la preoccupazione di recuperare tutti e di non lasciar fuori alcuno, finiscono per assestare un colpo decisivo alla vera famiglia cristiana.
Ora, è ben vero che le unioni di fatto, sorte, sovente, sopra le ceneri di precedei unioni matrimoniali, sono divenute talmente numerose, da non destare quasi più meraviglia, semmai destano meraviglia le famiglie cristiane che ancora resistono, unite, stringendo i denti, davanti al malessere sociale, morale e culturale che da ogni parte le insidia e congiura per disgregarle; ed è altrettanto vero che, secondo la mentalità laicista e secolarizzata oggi imperante, destava stupore, perplessità e persino irritazione il fatto che la Chiesa, fino ad oggi, non avesse ceduto alla “tentazione” di prendere atto dell’esistente e non si fosse piegata a riconoscere, a posteriori, ciò che non era più possibile arginare, ossia la tendenza a sostituire continuamente il legame sacramentale, benedetto da Dio, con dei legami puramente umani, sciolti e di nuovo contratti, volta per volta, e magari più e più volte, sulle rovine del progetto matrimoniale santificato dalla Grazia, attraverso la mediazione della Chiesa cattolica.
Sappiamo bene tutto ciò, e nondimeno restiamo convinti che sarebbe un grave errore quello di venire incontro alle tendenze di un determinato momento storico, solo per non trovarsi a difendere dei valori non più sentiti dalla maggioranza delle persone. Questo è già un errore quando si parla di istituzioni e ideologie puramente umane, perché la coerenza, a nostro avviso, deve avere sempre la precedenza sulla tattica; opinare diversamente, significherebbe cadere nell’opportunismo e nel cinismo, ossia fare della conquista del favore popolare lo scopo supremo dell’azione politica, mentre lo scopo deve essere sempre l’affermazione di valori, nonché la realizzazione dei progetti che quei valori traducono in realtà concreta e operante.
A maggior ragione la coerenza deve precedere ogni altra considerazione quando si tratta della Chiesa, la quale non insegna una dottrina di origine umana, ma soprannaturale, e che, per poterla rettamente insegnare, deve custodirla, evidentemente, in tutta la sua purezza, con la massima attenzione e con la più gelosa fedeltà. Ciò che insegna il Magistero non è frutto di sapienza umana; e i papi medesimi, nonché i concili, non devono neanche per un istante pensare di poter “riformare” o modificare ciò che attiene alla Verità, eterna e immutabile, del Vangelo, ma, tutt’al più, possono adattare le forme di tale insegnamento alle circostanze, mutevoli, quelle sì, dell’evoluzione storica; senza mai cedere alla tentazione di “fughe in avanti”, ossia al voler giocare d’anticipo o, comunque, alla preoccupazione – tutta mondana, quindi non cristiana - di intercettare il massimo del consenso, o, se si preferisce, di perdere il minimo indispensabile dei fedeli.
La visione della Chiesa, infatti, proprio perché non deriva da un giudizio umano, non può, né potrebbe mai essere, di tipo meramente quantitativo; ciò non significa che essa sia indifferente al problema del distacco dei fedeli dal Magistero, o, per dirla in maniera ancora più chiara, allo spettacolo delle chiese sempre più vuote e dell’osservanza sempre più trascurata delle regole di vita da essa insegnate; però non significa nemmeno, né potrà mai significare, che il Magistero sia soggetto a modifiche sostanziali, al suolo scopo, o allo scopo principale, di frenare il processo di secolarizzazione, o di limitarne l’impatto. Ai riformatori a oltranza, infatti, si potrebbe domandare se essi siano proprio sicuri che le chiese vuote e la disaffezione dei fedeli dalle pratiche della vita cristiana siano davvero l’effetto di una eccessiva severità e rigidità del Magistero, o se non sia vero, semmai, il contrario: che un Magistero mutevole, aperto, flessibile, disposto ad insegnare oggi quel che negava recisamente fino a ieri, non sia uno dei fattori che più potentemente hanno determinato quello svuotamento e quella disaffezione. Eppure, gli indizi per pensare che questa seconda visione sia più vicina al vero della prima, ci sono, eccome: basti pensare a quel che è accaduti negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, quando i seminari si sono letteralmente svuotati e la crisi ha investito in maniera impressionante, e in misura mai verificatasi prima, non solo le vocazioni sacerdotali, ma anche gli stili di vita delle persone e delle famiglie nominalmente cristiane. La netta vittoria degli schieramento favorevoli all’introduzione del divorzio, prima, e dell’aborto, poi, nella legislazione italiana, schieramenti nei quali i cattolici “progressisti” non erano certo pochi, ne è stata una dimostrazione sin troppo eloquente.
Ebbene, ai novatori accaniti, ai fautori di un continuo e “doveroso” adattamento del Magistero alle tendenze sociali e culturali del momento, vorremmo chiedere se essi siano davvero persuasi che le cose sarebbero andate diversamente, qualora la Chiesa avesse assunto, fin dall’inizio, un atteggiamento diverso, più possibilista, più flessibile, o – come oggi va molto di moda dire – forse anche troppo – “misericordioso”, sul tema del divorzio e su quello dell’aborto. Certo, in nome della misericordia si può giustificare tutto e il contrario di tutto: si può anche sostenere che l’esistenza di matrimoni gravemente infelici “dimostra” che il matrimonio cristiano non deve esser indissolubile, come non lo è quello civile; o che le gravidanze dovute a situazioni eccezionali e traumatiche, come lo stupro, “giustificano” l’aborto, e sia pure in alcuni casi limitati: ma è chiaro, e l’esperienza lo dimostra ad abundantiam, che l’esibizione, e l’enfasi, intorno ad alcuni casi particolarmente pietosi e drammatici, ad altro non serve che ad aprire la strada ad un vero e proprio scardinamento delle norme e ad introdurre, di fatto, una normalizzazione di ciò che, in teoria, doveva essere considerato come assolutamente eccezionale.
Oggi, poi, va molto di moda mettere avanti i bambini, strumentalizzati e adoperarli come truppe d’assalto per far cadere le ultime resistenze ad ogni sorta di relativismo. Nel caso della dottrina cattolica, si porta l’esempio – anche da certi sacerdoti, nell’omelia della Messa domenicale, come noi stessi abbiamo udito, con i nostri orecchi – di quella bambina che, in chiesa, si rivolse al prete, al momento della sua prima Comunione, davanti a tutti i fedeli, domandandogli: Che cosa ho fatto di male, perché il mio papà (un papà divorziato e risposato) non possa ricevere anche lui la Comunione, insieme a me? Che colpo di teatro! Come si può resistere a tanta innocenza, a tanta “verità” sgorgata dalla bocca di una tenera bambina? Certo, è assai più facile rispondere a quella piccolina: Nulla di male avete fatto, né tu, né lui; hai perfettamente ragione: provvederemo al più presto a cambiare le norme; invece di dirle, con lealtà e franchezza: Tu non hai fatto alcun male, ma il tuo papà ha rotto una promessa, una duplice promessa: quella fatta a tua madre e quella fatta a Dio; pertanto non potrebbe ricevere la Comunione, senza macchiarsi di un nuovo peccato, ancor più grave. Non è la Chiesa, cattiva, che lo vuol punire: è lui, con la sua scelta, che si è posto in una tale situazione; e se tu ora ne soffri, non è alla Chiesa che devi chiederne conto, ma a lui. Ma oggi, si sa, comandano i bambini, questi principini viziati, ai quali si insegna sempre meno che esistono dei doveri, mentre si concedono sempre nuovi diritti.
La Amoris laetitia, finalmente pubblicata l’8 aprile 2016, era stata firmata da papa Bergoglio il 19 marzo precedente, solennità di san Giuseppe, nel quarto anno del suo pontificato. Si tratta di 260 pagine, 9 capitoli e 325 paragrafi, nei quali si tirano le somme di quanto emerso nel corso dei due sinodi sulla Famiglia. Nei primi sette capitoli, si sprecano addirittura le espressioni sciroppose, caramellose, gaudiose, per descrivere il tono della famiglia cristiana “ideale”, caratterizzata da una quantità di sentimenti positivi fra i coniugi e fra genitori e figli, dove amore, tenerezza, amabilità, perdono reciproco, piovono l’uno sull’altro come raffiche di fiori di ciliegio portati dal vento di primavera. Tutte cose giuste e sante, per carità; ci mancherebbe. Ma, in definitiva, niente di nuovo rispetto a quanto è stato sempre insegnato dal Magistero, a parte, appunto, un tono di particolare tenerezza. La generale aspettativa, però, è inutile negarlo, riguardava un punto ben preciso del documento, quella parte del capitolo ottavo (intitolato Accompagnare, discernere e integrare la fragilità) in cui si parla delle situazioni irregolari dal punto di vista cristiano: dal paragrafo 296 al paragrafo 312: in particolare, la situazione dei divorziati che si sono risposati o che hanno contratto una nuova unione, e che vorrebbero, nondimeno, accostarsi ai sacramenti.
Ciò su cui il documento batte e ribatte, è il dovere, da parte della Chiesa, dell’accoglienza, della comprensione, del perdono; e già il fatto che, fin dal titolo, si parli di “fragilità” e non di “peccato”, la dice lunga, a nostro avviso, sulla prospettiva da cui ci si pone. E, tanto per stare sul concreto, prendiamo in esame un paragrafo, il 296, che recita testualmente così:
Apprendiamo, così, che il peccato grave, il peccato mortale, cioè la rottura di un sacramento, è diventato non una “azione”, scelta e voluta dall’individuo mediante il libero arbitrio, ma una “situazione”, quasi che fosse capitata così, senza essere stata voluta né cercata (“non si sa come”, direbbe Pirandello), ma piuttosto subita; e che non si tratta nemmeno di una “situazione di peccato”, ossia di lontananza da Dio, ma di “fragilità” o di “imperfezione”. Ammirevole delicatezza verso i peccatori; ma il peccato, nondimeno, rimane peccato. E qui sta il grande equivoco: la misericordia verso il peccatore (che è la misericordia di Dio, non degli uomini; nel senso che è Dio a concederla, non la Chiesa, e se la concede la Chiesa, non può farlo in altro modo che nel pieno rispetto della Rivelazione divina, non certo facendo sconti all’ingresso di propria iniziativa) non abolisce affatto il peccato. Il peccato resta tale, sempre e comunque, non decade, non viene abolito; e, se è vero che bisogna odiare il peccato e non il peccatore, è altrettanto vero che non bisogna fingere che il peccato non sia tale, per una supposta forma di misericordia verso il peccatore stesso. Vale sempre l’esempio di Cristo: all’adultera che i Giudei volevano lapidare, egli, dopo averla salvata dalla morte, disse di andare, ma di non peccare più. Non le disse: Vai, perché non hai peccato; ma le disse: Vai, e non peccare più. Quindi, ella era una peccatrice, e Gesù la considerava tale. Una peccatrice che trattò con infinita misericordia e che sottrasse dalle mani di coloro che volevano ucciderla; ma una peccatrice che doveva tornare sulla retta via. Gesù non faceva sconti all’ingrosso, lui che era Dio, perché era venuto a fare la volontà del Padre; tanto meno possono fare sconti i semplici uomini, per quanto occupino posizioni importanti in seno alla Chiesa.
Ora, non intendiamo qui esaminare, punto per punto, tutta l’esortazione apostolica di papa Bergoglio. La cosa richiederebbe molto più spazio e, sena dubbio, una diversa sede. Ci limitiamo a osservare che la prospettiva da cui viene considerato il problema di codeste “situazioni irregolari” è, a nostro avviso, gravemente errata. Per esempio, il documento afferma che (§ 304): È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano; e, ancora (§ 305), che Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. Ma di quali Pastori stiamo parlando? A quale Chiesa di riferisce Bergoglio? Non ci sembra davvero che la Chiesa di oggi sia piena di Pastori inflessibili, meschini, che godono a scagliare pietre contro le loro pecorelle o a nascondersi dietro una mentalità legalistica e farisaica; ci sembra, tutto al contrario, che oggi il problema sia quello di un eccessivo permissivismo, di un relativismo strisciante, e talora esplicito; che troppi Pastori predichino e attuino una “misericordia” indiscriminata, che equivale a negare il senso del peccato e a promettere la salvezza a tutti, perfino indipendentemente dalla volontà di ciascuno: quasi che Dio volesse o potesse salvare anche coloro i quali rifiutano il suo Amore e non vogliono essere salvati, e, così facendo, Dio sopprimesse, di fatto, il libero arbitrio, che è il dono più prezioso concesso all’uomo, quello che lo fa veramente “simile al suo Creatore”. E non solo sono scomparse dal vocabolario di questa Chiesa un po’ troppo “misericordiosa” la parola, e, con essa, la nozione del peccato; sembrano essere scomparsi anche i concetti del premio e del castigo eterno, della beatitudine e della dannazione, del Paradiso e dell’Inferno. Che cosa è successo, dunque, ce lo spieghino: forse qualcuno ha modificato la teologia cattolica, l’etica, l’escatologia, i Novissimi, senza che noi lo sapessimo e ce ne rendessimo conto? Il cattolicesimo non insegna più che , dopo la morte, l’anima dell’uomo sarà giudicata? La dottrina cattolica promette, oggi, la salvezza a tutti, anche a coloro che la rifiutano, anche a coloro i quali si ostinano nel peccato, pardon, volevamo dire: nella fragilità e nella irregolarità? Se davvero è così, buono a sapersi.
E non è tutto. Si prenda una affermazione come questa (§ 296; si tratta di una auto-citazione del papa, che si riferisce ad una sua precedente omelia): Due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare […]. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […]. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!» Questo riferimento alla carità immeritata, incondizionata e gratuita, fra parentesi, ha a che fare più con la teologia protestante, che con quella cattolica: sono Lutero e Calvino che insegnano a considerare nulli gli sforzi dell’uomo verso la vita santa, e a lasciare a Dio tutta intera l’azione di salvezza rivolta all’uomo; ma non è questa la dottrina cattolica, né in base ai documenti del Concilio di Trento, né in base a tutti i documenti dei quattro secoli seguenti, di ciascuno dei pontefici che si sono succeduti sulla cattedra di san Pietro.
E ancora (§ 297): Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino. Ma che cosa vuol dire, infine, integrare “tutti”? Tanto per cominciare, “integrare” è un termine teologicamente inappropriato: andrà bene in un contesto profano, sociologico, ma non qui, perché lascia pensare che si tratti di una faccenda puramente umana. Ma, soprattutto, come è possibile “integrare”, o “includere” (altro termine abusato in questi ultimi tempi) coloro i quali non si pentono, non si convertono, non cambiano vita? Tutti, poi: cosa vuol dire? Anche i pluriomicidi, anche i mafiosi, anche i narcotrafficanti che rifiutano sia il pentimento, sia l’espiazione, sia la riparazione dovuta a Dio e agli uomini? Pietro ha rinnegato Cristo, ma si è pentito ed è stato perdonato; Giuda lo ha tradito e non si è pentito, o meglio, ha disperato del perdono di Dio: bisogna concludere che anche chi non crede al perdono di Dio, che anche chi non si converte, deve essere incluso nella Chiesa, per evitare atteggiamenti “meschini”, per non “scagliare pietre”? Quanta confusione; quanta generosità indiscriminata; quanto buonismo zuccheroso, che è l’opposto della vera bontà!
No, non ci siamo. E a nulla giova il fatto che la Amoris laetitia ribadisca che il matrimonio cristiano non deve essere rotto, perché ciò è contrario ai disegni di Dio. Introducendo una quantità di eccezioni, insistendo oltremodo sul concetto della fragilità e su quello della “misericordia”, puntando il dito contro i Pastori che giudicano troppo severamente e scagliano pietre, di fatto la norma viene a cadere, tanto più che non è presentata con la debita energia e come un vincolo sacramentale che è sacrilego rompere, ma come una specie di esortazione, di raccomandazione, piuttosto melliflua, più un invito che un dovere, più un principio teorico, di massima, che una base indissolubile, solida come la roccia, senza la quale non vi è autentica vita cristiana per l’uomo e la donna.
L’effetto che questo documento rischia di innescare potrebbe essere dirompente. È probabile che esso verrà interpretato nel senso che le situazioni di fatto, una volta che si siano prodotte, vengono poi riconosciute dalla Chiesa, presto o tardi, in un modo o nell’altro. E cosa ne penseranno tutti quei mariti, quelle mogli, quei genitori, i quali con sforzi eroici, con fatica quotidiana, lottano per tenere unita la propria famiglia? Forse penseranno che avrebbero potuto risparmiarsi tanti sacrifici, e prendre anch’essi la via più facile, quella della separazione o del divorzio...
Amoris laetitia o la famiglia secondo Bergoglio
di Francesco Lamendola
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