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giovedì 19 maggio 2016

Non si sa come andrà a finire?


Obiezione di coscienza. Perché il papa ha ragione e "Avvenire" ha torto


marino
Il contrasto sorto tra papa Francesco e "Avvenire" circa l'obiezione di coscienza nei confronti delle unioni civili tra persone dello stesso sesso ancora non si sa come andrà a finire.
Il precedente post ha riportato le posizioni dei contendenti. Da un lato il papa, favorevole all'obiezione, dall'altro il quotidiano della Chiesa italiana, espressosi contro, per la penna di suoi due illustri editorialisti, i professori Francesco D'Agostino, giurista, e Mauro Cozzoli, teologo morale.
Intanto, però, c'è materia di riflessione per tutti. Quelle che seguono sono le considerazioni di una persona molto competente in materia, Antonio Caragliu, avvocato presso il foro di Trieste, studioso di filosofia del diritto e iscritto all'Unione dei giuristi cattolici.
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Caro Magister,
desidero condividere alcune riflessioni sulla questione del diritto all'obiezione di coscienza avverso il dovere di celebrare le unioni civili in capo ai sindaci o ai funzionari dello stato civile.
Parto innanzitutto da alcuni rilievi riguardanti l'articolo del teologo morale don Mauro Cozzoli, su "Avvenire" del 13 maggio 2016:
Egli afferma che l'obiezione di coscienza nei confronti delle unioni civili ha "la stessa inconsistenza etica" della cosiddetta obiezione fiscale volta a non pagare la percentuale di tasse che lo Stato impiega per fini disapprovati dalla coscienza del contribuente, come per esempio le spese militari. Infatti, a giudizio di Cozzoli, l'atto di pagare le tasse ha come oggetto non il male disapprovato dalla coscienza (ovvero la violenza bellica) ma il "bene comune".
Trovo l'argomentazione di Cozzoli non condivisibile e sostanzialmente elusiva dei termini della questione. Essa parte dal presupposto secondo il quale, per definizione, il pagamento delle tasse ha ad oggetto il bene comune. Ma ciò è proprio quello che contesta l'obiettore fiscale secondo il quale, nella misura in cui il denaro pubblico è impiegato per le spese militari, esso verrebbe deviato dalla destinazione al bene comune, così come inteso dalla propria coscienza.
In verità l'obiezione fiscale viene dai giuristi ritenuta non accettabile da parte dell'ordinamento non perché il pagamento delle tasse abbia ad oggetto sempre e comunque il bene comune (valutazione questa squisitamente politica), ma in virtù del principio dello stringente nesso di causa ed effetto che deve sussistere tra il dovere che l'obiettore rifiuta e contesta e la lesione della sua coscienza. Alla luce di questo principio l'obiezione fiscale viene ritenuta illegittima non perché si nega la sussistenza di un rapporto tra il pagamento delle tasse da parte del contribuente e l'utilizzo del suo denaro anche per fini confliggenti con la sua coscienza (fatto innegabile), ma perché si nega che tra queste due condotte vi sia uno "stringente nesso causale".
Alquanto fuorviante trovo anche l'altro esempio addotto da Cozzoli, quello del giudice che pronuncia una sentenza di divorzio.
Egli sostiene che "ricevere e registrare la dichiarazione di 'unione civile' – unione non rispondente alla verità morale del matrimonio, in cui un uomo e una donna si uniscono in forma stabile e definitiva – per un pubblico ufficiale non costituisce né un male morale, né un’adesione e approvazione della legge che la consente. Nel modo stesso in cui un giudice che pronuncia una sentenza di divorzio non coopera al divorzio dei ricorrenti, né approva il divorzio e la legge che lo consente".
Bisogna innanzitutto sottolineare l'assoluta particolarità del ruolo e della funzione  del giudice rispetto alle funzioni esercitate dalla generalità degli altri pubblici ufficiali. I giudici, ai sensi dell'art. 101 c. II Cost., "sono soggetti soltanto alla legge". Ed è proprio su questa soggezione che è giustificata l'autonomia e l'indipendenza del loro ordine. Inoltre il giudice non può né disapplicare la legge né astenersi dal giudicare. Tanto è vero che nessun ordinamento prevede l'ipotesi di obiezione di coscienza da parte del giudice.
In verità tempo fa si era presentata innanzi alla Corte Costituzionale la questione del diritto del giudice tutelare di sollevare obiezione di coscienza all'autorizzazione all'aborto minorile. La Corte Costituzionale l'aveva ritenuta non fondata ritenendo l'intervento del magistrato, limitato all'accertamento della generica capacità del minore, non paragonabile all'intervento del sanitario, il quale deve accertare il grave pericolo per la salute della gestante. Inoltre  la gestante, anche dopo l'autorizzazione disposta dal giudice, può astenersi dall'aborto. Insomma, tra la condotta richiesta al magistrato e l'interruzione di gravidanza non vi sarebbe quello "stringente nesso causale" richiesto per il diritto di obiezione di coscienza.
Tuttavia, nonostante la Corte non affronti la questione generale della possibilità per il giudice di esercitare il diritto di obiezione di coscienza nell'esercizio delle sue funzioni, essa non ignora l'irrilevanza del possibile conflitto di coscienza del magistrato ed accenna alla "possibile adozione di adeguate misure organizzative" nei "casi di particolare difficoltà" (Corte Costituzionale, sent. n. 196/1987).
Questo per dire che il caso del pubblico ufficiale che celebra l'unione civile e quello del giudice chiamato a pronunciare la sentenza di divorzio non sono analogabili sotto l'aspetto giuridico del diritto all'obiezione di coscienza.
Ma sulla rilevanza etica della condotta del giudice che pronunci sentenza di divorzio intervenne a suo tempo Giovanni Paolo II nel discorso all'apertura dell'anno giudiziario del 28 gennaio 2002:
Discorso di cui, a suo tempo, aveva trattato anche lei, caro Magister, insieme alle vivaci critiche che aveva suscitato:
È un discorso articolato e particolarmente attuale.
Il Santo Padre sostiene che la testimonianza sul valore dell'indissolubilità del matrimonio è reso non solo mediante la testimonianza della propria vita matrimoniale, ma, considerato che "il valore dell'indissolubilità non può però essere ritenuto l'oggetto di una mera scelta privata: esso riguarda uno dei capisaldi dell'intera società", anche attraverso battaglie pubbliche.
Quindi, tra le iniziative di cristiani e persone di buona volontà a tutela del bene delle famiglie "non possono mancare quelle rivolte al riconoscimento pubblico del matrimonio indissolubile negli ordinamenti giuridici civili (cfr. ibid., n. 17). All'opposizione decisa a tutte le misure legali e amministrative che introducano il divorzio o che equiparino al matrimonio le unioni di fatto, perfino quelle omosessuali, si deve accompagnare un atteggiamento propositivo, mediante provvedimenti giuridici tendenti a migliorare il riconoscimento sociale del vero matrimonio nell'ambito degli ordinamenti che purtroppo ammettono il divorzio".
Ebbene sì: "opposizione decisa". A quei tempi nessuno avvertiva come eticamente problematica la verità logica secondo la quale battersi per qualcosa richiede di battersi contro la cosa contraria. E, quindi, in una lotta ideale di principi, contro chi sostiene principi contrari. Tempi in cui i rapporti tra misericordia e verità erano senz'altro più stringenti (e, di conseguenza, più vivo era il senso del ridicolo).
Ma, tornando al caso specifico del giudice chiamato a pronunciare sentenza di divorzio, Giovanni Paolo II scrive:
"D'altra parte, gli operatori del diritto in campo civile devono evitare di essere personalmente coinvolti in quanto possa implicare una cooperazione al divorzio. Per i giudici ciò può risultare difficile, poiché gli ordinamenti non riconoscono un'obiezione di coscienza per esimerli dal sentenziare. Per gravi e proporzionati motivi essi possono pertanto agire secondo i principi tradizionali della cooperazione materiale al male. Ma anch'essi devono trovare mezzi efficaci per favorire le unioni matrimoniali, soprattutto mediante un'opera di conciliazione saggiamente condotta".
Quindi Giovanni Paolo II non rivendicava nel suo discorso il diritto all'obiezione di coscienza per i giudici, consapevole della particolare funzione e responsabilità del magistrato. Ciononostante il caso del giudice che pronunci una sentenza di divorzio non è ritenuto moralmente indifferente o non problematico, come Cozzoli lascia intendere. Il Papa, infatti, richiama i “principi tradizionali della cooperazione al male”, secondo i quali il concorso personale nel comportamento vietato può divenire lecito per un motivo proporzionato, come il timore di un danno grave quale, ad esempio, il licenziamento.
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Fatti questi rilievi all'intervento di Cozzoli intendo dimostrare come la questione del riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza per i sindaci o gli altri funzionari dello stato civile delegati alla celebrazione dell'unione civile sia più articolata di quanto possa a prima vista sembrare.
Chiarirla aiuterà a comprendere meglio quali siano gli “interessi in gioco” del dibattito.
In generale è utile rilevare che l'obiezione di coscienza è sempre problematica per l'ordinamento, perché condiziona l'efficacia cogente delle previsioni legislative alla soggettiva accettazione delle medesime da parte dei singoli consociati.
Con le ipotesi di obiezione di coscienza si disciplina il conflitto tra, da una parte, il valore generale e coesivo della legge, per di più adottata secondo il metodo e le forme proprie della democrazia rappresentativa (ma questo è un aspetto giustamente discusso nel caso specifico dell'approvazione della legge Cirinnà!) e, dall'altra, l'esigenza del rispetto delle coscienze dei singoli consociati.
Ci si potrebbe chiedere allora: dove sta la difficoltà politica a riconoscere un simile diritto anche per quanto riguarda il tema eticamente sensibile delle unioni civili?
Tale difficoltà emerge chiaramente se si considera che l'obiezione di coscienza non presuppone solo un conflitto tra la coscienza del soggetto e la legge (conflitto che può presentarsi verso qualsiasi legge). Più profondamente, se si analizza la struttura di tutte le ipotesi legislative che prevedono l'obiezione di coscienza, emerge come essa presupponga un conflitto oggettivo tra due valori, entrambi riconosciuti dall'ordinamento. Un conflitto nel quale il legislatore da una parte stabilisce un giudizio di prevalenza ma, dall'altra, consente l'obiezione di coscienza proprio contro il giudizio di prevalenza formulato.
Con gli esempi risulta tutto più chiaro.
Nel caso della disciplina dell'interruzione di gravidanza (L. 22 maggio 1978, n. 194) il legislatore stabilisce che tra il principio del rispetto della vita umana dell'embrione e quello della salute psico-fisica della madre (art. 32 Cost.) debba prevalere, a determinate condizioni e limiti (il limite temporale di 90 giorni dal concepimento), il diritto alla salute psico-fisica della madre che sceglie di abortire (lasciamo da parte in questa sede la patente ipocrisia della legge sull'aborto: nella prassi l'accertamento del requisito del “serio pericolo” per la salute fisica o psichica della gestante viene semplicemente eluso).
Tuttavia la stessa legge prevede, a determinate condizioni, la facoltà degli operatori sanitari di obiettare contro questo giudizio di prevalenza del legislatore, in nome dell'adesione della coscienza dell'obiettore al principio del carattere indisponibile del bene della vita.
Un altro esempio. Nel caso della disciplina della sperimentazione animale possiamo riscontrare il conflitto oggettivo tra l'interesse al progresso della ricerca scientifica (tutelato dall'art. 9 Cost.) e l'interesse all'umana pietà per gli animali, anch'esso tutelato dall'ordinamento, il quale contempla il divieto di maltrattamento degli animali (art. 544 ter c.p.). Ebbene, nel caso della sperimentazione animale il legislatore stabilisce la prevalenza del primo interesse a scapito del secondo. Ma prevede allo stesso tempo il diritto dell'obiettore di contestare questo giudizio di prevalenza attraverso il diritto di astenersi da condotte lesive della salute degli animali.
Ora il discorso fatto con questi due esempi vale per tutti gli altri casi di obiezione di coscienza previsti dal legislatore (l'obiezione al servizio militare, l'obiezione alla procreazione medicalmente assistita).
Torniamo quindi alla domanda fatta sopra: dove sta la difficoltà nel prevedere l'obiezione di coscienza anche nella legge Cirinnà che riconosce le unioni civili?
La difficoltà sta nel fatto che il riconoscimento dell'obiezione di coscienza per le unioni civili presuppone il riconoscimento di un conflitto oggettivo tra il bene costituzionalmente protetto della famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.) e l'interesse alla costituzione di una formazione sociale parafamiliare come l'unione civile disciplinata dalla medesima legge Cirinnà.
Ma è proprio la sussistenza di questo conflitto oggettivo che i sostenitori della legge Cirinnà disconoscono, obiettando che il riconoscimento delle unioni civili non toglie diritti a nessuno ma li aumenta a tutti (e questo è molto comprensibile: perché il riconoscimento di un simile conflitto, prima ancora che al riconoscimento del all'obiezione di coscienza, porterebbe al riconoscimento dell'incostituzionalità della disciplina dell'istituto parafamiliare delle unioni civili).
Francesco D'Agostino su questo punto rilevava, nel 2013, che "un'istituzione antropologica può essere aggredita linguisticamente, simbolicamente e socialmente sia sopprimendola o alterandola al suo interno, sia ponendole accanto una sua versione mimetica per legittimarla. In questo consiste, per esempio, l'antigiuridicità del plagio, che non altera l'opera plagiata ma ne banalizza identità e originalità indipendentemente dal danno economico che il plagio di un'opera potrebbe apportare al suo autore); in questo consiste, per fare un altro esempio più vicino alle nostre tematiche, l'antigiuridicità della poligamia, negli ordinamenti che siano giunti a formalizzare l'eguaglianza giuridica e morale dei coniugi: anche se il riconoscimento del matrimonio poligamico non toglie la possibilità che i due coniugi contraggano un matrimonio monogamico, l'identità specifica del matrimonio tout court ne risulta profondamente alterata" (F. D'Agostino, G. Piana, "Io vi dichiaro marito e marito", Milano, 2013, p. 150).
Ma se si riconosce un conflitto oggettivo tra la famiglia contemplata dall'art. 29 Cost. (ovvero la famiglia “naturale”, in quanto idonea alla generazione) e l'istituto parafamiliare delle unioni civili così come disciplinate dalla legge Cirinnà, non si comprende per quale ragione lo stesso D'Agostino consideri non “utilmente creativa”, su "Avvenire" del 12 maggio 2016, la prospettiva "di una battaglia referendaria per abolire totalmente la nuova legge né quella di fare appello all’obiezione di coscienza di quanti saranno chiamati a registrare (non a celebrare, come qualcuno pretenderebbe) le unioni civili previste e regolate dalla legge: non è questa la strada maestra lungo la quale sviluppare un impegno 'contro' nessuno, 'per' la famiglia e 'per' un umanesimo che custodisce l’originalità della persona".
Se sussiste questo conflitto oggettivo la battaglia referendaria per l'abolizione della nuova legge è l'opzione politica più coerente rispetto al fine della sua eliminazione. La previsione dell'obiezione di coscienza, invece, è il mezzo indispensabile non per eliminarlo, ma perlomeno per temperarlo.
Purtroppo quando ci si discosta dalla logica dei principi non negoziabili, i quali hanno un fondamento teologico ed etico certo, subentrano considerazioni di opportunità politica che pretendono di giustificarsi ed imporsi con un generico richiamo ad uno stile non “contro” ma “per”. Ovvero il richiamo ad un generico moralismo: come se promuovere certe battaglie politiche comportasse necessariamente l'abbandono delle “buone maniere”.
No: lo stile “per” e non “contro” è un non senso logico e, nei fatti, un invito all'irrilevanza pubblica.
In questo stile non trovo nulla di “utilmente creativo”.
Con amicizia e stima.
Antonio Caragliu
Trieste

Settimo Cielo di Sandro Magister 19 mag 


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