ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 11 maggio 2016

Primus inter nanos

L’Amoris Laetitia come nuova inculturazione (prima parte) 

Guida ragionata alla lettura di un documento proteiforme

… questo documento, nonostante sia  defatigante per la sconnessione logica, farraginoso e fastidiosamente ripetitivo, merita di essere letto con attenzione anche a dispetto, anzi proprio in ragione della sua illeggibilità,  perché in ogni caso sarà recepito ad orecchio e quindi accolto da quanti, sensibili  più ai suoni delle parole che ai loro veri significati, lo trangugeranno così come viene già  presentato in tavola dalla propaganda clericale e laica del regime e sarà assorbito senza difficoltà  proprio con  quelle idee micidiali che lo percorrono.
di Patrizia Fermani
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zzzzcmlntL’Amoris laetitia, che suona come il titolo latino dato ad un antico  madrigale,  è un testo di disarmante banalità,  sgangherato nella costruzione,  rozzo nella forma,  privo di una sola idea di un qualche interesse, ma ricco di  molte pseudoidee i cui frutti nefasti  già non tardano a manifestarsi.
Non poteva tradire le aspettative e infatti non le ha tradite, perché da tre anni a questa parte, più o meno tutto il suo  contenuto è stato  già  esposto  ampiamente da Bergoglio per iscritto,  recitato  a braccio, rappresentato per fatti concludenti.
Per dirla in termini crudi si tratta sempre di una stessa minestra, riscaldata, allungata, ribollita e ricondita, oggettivamente indigesta eppure ritenuta commestibile e trangugiata  ad occhi chiusi dai tanti che si sono  esonerati a tempo indeterminato dalla preoccupazione di controllarne gli ingredienti, e di valutarne le conseguenze e per questo particolarmente pericolosa in quanto destinata ad accelerare un processo di dissoluzione che si ha fretta di portare a termine.

Infatti nell’agglomerato delle parole usurate  sta sempre un nucleo incandescente:  la negazione della immutabilità della dottrina cattolica e l’attacco portato per questa via, alla morale cristiana e alla realtà sacramentale. Il tutto suffragato tra l’altro dalla dichiarata e più volte ostentata  avversione personale dell’autore verso ogni realtà normativa. Ma tutto questo risultava  già  formalizzato  nell‘evangelii gaudium  e poi nel documento programmatico del sinodo dove era stato proclamato a chiare lettere l’abbandono della legge naturale quale criterio guida superiore e indefettibile dei comportamenti umani, con richiamo testuale ad una a dichiarazione della Commissione teologica internazionale, (di cui faceva parte  anche monsignor Charamsa), ripresa dal fatale paragrafo 305 e che recita:“la legge naturale non può essere presentata come un insieme già costituito di norme che impongono a priori al soggetto morale…
Questa abolizione è diventato il perno su cui è stato avvitata la farsa sinodale. Allestita lungo un intero  anno ma con le conclusioni già tutte minuziosamente predeterminate, tanto che al di là della  messinscena delle discussioni condotte democraticamente, è stata messa in sordina o contraddetta o eliminata  ogni voce timida o vigorosa levatasi per contrastare la direzione impressa ai lavori… 
Come è noto del resto, l’attenzione  generale da tempo era già  convogliata ad arte sulla questione dei divorziati risposati, capace di attirare l’ interesse di quanti erano in grado di scorgervi a buon diritto la desacralizzazione del matrimonio cattolico, e pur tuttavia già superata dalla prassi post conciliare, e quindi sentita dai più come puramente accademica. Ma essa era il topolino al quale era stata affidato il compito di  partorire la montagna. Non a caso durante la recente trasvolata lesbica, con la consueta astuzia, Bergoglio ha  finto di risentirsi del fatto che un po’ tutti fossero stati attirati solo da quella questione, senza comprendere tutta la sua accorata preoccupazione per le sorti della famiglia e per la sua crisi. Su questa ammuina non vale la pena di soffermarci.
Tutto ciò non toglie però, che questo documento, nonostante sia  defatigante per la sconnessione logica, farraginoso e fastidiosamente ripetitivo, meriti di essere letto con attenzione anche a dispetto, anzi proprio in ragione della sua illeggibilità,  perché in ogni caso sarà recepito ad orecchio e quindi accolto da quanti, sensibili  più ai suoni delle parole che ai loro veri significati, lo trangugeranno così come viene già  presentato in tavola dalla propaganda clericale e laica del regime e sarà assorbito senza difficoltà  proprio con  quelle idee micidiali che lo percorrono. Anche  perché il consenso  generale viene democraticamente  ottenuto con una studiata tecnica di pesca a strascico: si attirano nella rete pesci di ogni tendenza, dicendo  indifferentemente tutto e il contrario di tutto, persino nello stesso contesto, in modo che ognuno  possa scegliere quello che meglio lo  soddisfa. Viene anche sfruttata da un lato la generale capacità di assuefazione della gente e dall’altro l’incapacità del cattolico medio di esorcizzare la propria dipendenza cieca dalla autorità di chi compare come papa, indipendentemente dalla  fedeltà di costui al  mandato petrino.  Non è superfluo notare ad esempio che dell’opera sia già stato decantato persino il linguaggio per la sua assoluta “novità”, nientemeno che dall’arcivescovo  di certo ispirato da una certa attrazione aristocratica per l’arte povera.
Ma prima di scorrerne i punti salienti occorre tornare sulle critiche che hanno messo a fuoco, appuntate in particolare  sulla “dottrina” del caso per caso, cioè su quella “morale di situazione” cavallo di battaglia di Bruno Forte, che distrugge l’essenza e la funzione fondativa del dogma nella chiesa e che è il leit motiv dichiarato di tutta questa  nuova “teologia” peronista.
Spaemann vede nell’A.L. la consacrazione della legge del caos e si rifiuta anche di commentare il famoso paragrafo 305, in cui viene teorizzato l’abbandono di ogni canone morale assoluto valevole per tutti e autorizzata  la trasgressione della legge divina attraverso la cancellazione della stessa idea del peccato. E in effetti vi si potrebbe scorgere quasi una  parafrasi morbida della esortazione rivolta da Lutero a Melantone nella famosa  lettera del 15 agosto 1521.: “sii peccatore e pecca fortemente, ma con ancora più fermezza credi e rallegrati in Cristo vincitore del peccato, della morte e del mondo. Da Lui non deve separarci il peccato, neppure se commettessimo mille omicidi e mille adulteri”.
Tuttavia   è da osservare che il riferimento al peccato presuppone comunque il riconoscimento della preesistenza della legge divina, non la sua obliterazione. Peccare significa trasgredire e Lutero incita alla trasgressione sul presupposto arbitrario volto a portare acqua al proprio mulino impazzito, che tutto comunque verrà perdonato da Dio, anche se avrebbe dovuto anche chiedersi perché mai l’Onnipotente si sarebbe preso la briga di dare all’uomo i propri comandamenti se avesse avuto intenzione di  non  esigerne anche l’osservanza.
Dunque Lutero non pensava affatto che il peccato fosse una invenzione autolesionista umana, e si limitava ad esorcizzarlo a proprio uso e consumo.
Nell’ Amoris laetitia invece, troviamo lietamente,  ma la cosa era già stata insinuata tante volte altrove, che di peccato non è più il caso di parlare, e ne troviamo un riferimento esplicito solo al paragrafo 26 dove si dice che”la degenerazione del peccato viene quando l’essere umano si comporta come tiranno nei confronti della natura” … e non c’è possibilità di intendere il passaggio se non in termini di stretta ecologia. Quella per cui è stata sovvenzionata la costosa deturpazione visiva di San Pietro.
 Ma in realtà nell’A.L. c’è qualcosa di più che non l’abbandono di qualunque criterio etico assoluto. Non c’è   semplicemente l’abbraccio di un relativismo assoluto capace di decostruire ogni caposaldo della morale cattolica in un atteggiamento di indifferentismo etico o di  neutralità che dir si voglia. E neppure, per dirla con Radaelli , il mezzo relativismo  intellettuale e professorale ratzingeriano , che Bergoglio sarebbe incapace di padroneggiare. In realtà c’è qualcosa che si presenta  oggi persino  più significativo nei suoi effetti immediati.  C’è infatti  l’adeguamento pieno e incondizionato ai dogmi nuovi del mondo postcristiano, al suo linguaggio volto ad irretire le coscienze verso ogni degenerazione dietro il paravento delle parole d’ordinanza che aprono la porta alla civiltà dei diritti illimitati e delle intenzioni comandate. Quelle che hanno imprigionato un mondo ubriacato dalla libertà per tutti. Non c’è semplicemente l’affidamento del caso concreto alla creatività del singolo pastore, esonerato una volta per tutte da un criterio di giudizio superiore,  cioè dall’autorità del dogma, ma l’incoraggiamento, anzi l’ordine dell’adeguamento allo spirito del tempo, al quale vengono messi  addosso i panni di un non ben definito Spirito dalle attitudini creative ad ampio spettro.
Ora, non è detto che Bergoglio sia sinceramente devoto di questa religione sponsorizzata da altri poteri e inoculata dalla predicazione mediatica. Non è detto che sia rapito dai miti libertari anticristiani. Di fatto pare seguire chiaramente due idee  fondamentali: togliere di mezzo i residui del mondo cristiano attraverso la decostruzione del suo ethos millenario e cancellare la fisionomia socio culturale dell’Europa attraverso l’invasione da sud. Ma il suo obiettivo  dominante sembra esaurirsi nella edificazione del proprio mito personale riflesso nel consenso delle masse, catturate attraverso la demagogia. Il modello peronista non lo abbandona, e su quello imposta  la propria retorica e la propria politica. Così si spiega la rozzezza        teatrale delle immagini , la banalità  quasi parodistica del linguaggio e dei pensieri espressi, la mimica goffamente istrionica dei gesti, l’uso volutamente sciatto del linguaggio.  Insomma, una inadeguatezza che sembra studiata o che comunque  è sfruttata per catturare il popolo attirato da chi adopera il suo stesso  registro espressivo, parla per così dire il suo stesso dialetto. In fondo alla massa delle persone non interessa tanto il significato delle parole, e per questo non è  interessata a leggere, quanto la possibilità di riconoscersi in gesti e in parole genericamente appaganti perché famigliari. In questo artificio ad uso pubblicitario, sta anche una vena di quel profondo disprezzo che è l’altra faccia dell’arroganza. Può darsi dunque che l’adeguamento ai dogmi del mondo sia legato almeno in parte ad  esigenze di affermazione personale più che ideologica. Questo potrebbe spiegare l’ambivalenza costante del messaggio, che spesso assume la forma della più plateale contraddizione. L’arringatore di folle che mira alla quantità dell’applauso cerca di distribuire pani per tutti i gusti per garantirsi il gradimento del maggior numero possibile di spettatori fino a fagocitare quello dei più  irriducibili  oppositori, quelli che, alla resa dei conti,  dovrebbero essere  semplicemente eliminati, o resi comunque innocui.
Fatte queste premesse vale la pena di percorrerne le defatiganti volute in cui si dipana questa inedita esortazione, che paradossalmente esorta a non esortare al bene ma paradossalmente solo a prendere atto di ciò che va girando per il mondo.
È quanto inizieremo a fare da domani.
(continua)– di Patrizia Fermani


I postulati di Papa Francesco

Nel mio post del 27 aprile 2016 sull’esortazione apostolica Evangelii gaudium (d’ora in poi, EG), al § 11, rimandavo «a un successivo intervento una riflessione sui “quattro principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale” (n. 221), di cui si tratta nel quarto capitolo (nn. 222-237) e che possono essere in qualche modo considerati come i “postulati” del pensiero bergogliano». Penso che si tratti di una riflessione necessaria, dal momento che tali principi, oltre a risultare ricorrenti nell’insegnamento di Papa Francesco, vengono presentati come criteri generali di interpretazione e valutazione. Tali principi sono: a) il tempo è superiore allo spazio; b) l’unità prevale sul conflitto; c) la realtà è piú importante dell’idea; d) il tutto è superiore alla parte.

1. Principi, assiomi o postulati?

EG 221, come abbiamo appena visto, li chiama “principi”, aggiungendo che «derivano dai grandi postulati della Dottrina Sociale della Chiesa». Affronterò piú avanti il problema della derivazione di tali principi; qui mi limiterò a notare che quelli che EG chiama “grandi postulati della Dottrina Sociale della Chiesa” sono in realtà sempre stati denominati “principi” (si veda, p. es, il capitolo quarto del Compendio della dottrina sociale della Chiesa). Alcuni preferiscono usare per i quattro principi di EG il termine “assiomi”. Ora un “assioma” è «un principio generale evidente e indimostrabile che può fare da premessa a un ragionamento, una teoria e sim.» (Zingarelli), definizione che non mi sembra si attagli ai quattro principi in questione. Personalmente ritengo che essi possano essere invece considerati “postulati” (secondo lo Zingarelli, il postulato è una «proposizione priva di evidenza e non dimostrata ma ammessa ugualmente come vera in quanto necessaria per fondare un procedimento o una dimostrazione»). La designazione di tali principi come “postulati” non può essere ritenuta arbitraria, dal momento che trova riscontro nella stessa EG: «è necessario postulare un principio» (n. 228); «occorrepostulare un terzo principio» (n. 231).


2. Derivazione dei quattro postulati

Dicevamo che, secondo EG 221, i quattro principi «derivano dai grandi postulati della Dottrina Sociale della Chiesa». Questi sono cosí presentati dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa: 

«I principi permanenti della dottrina sociale della Chiesa costituiscono i veri e propri cardini dell’insegnamento sociale cattolico: si tratta del principi della dignità della persona umana … nel quale ogni altro principio e contenuto della dottrina sociale trova fondamento, del bene comune, della sussidiarietà e della solidarietà» (n. 160).

Nella successiva trattazione il Compendio aggiunge altri due principi strettamente connessi con i quattro appena enunciati (il principio delladestinazione universale dei beni e quello di partecipazione), oltre a una serie di “valori fondamentali della vita sociale” (verità, libertà, giustizia, amore). Ebbene, si fa fatica a cogliere la derivazione dei quattro postulati di EG dai suddetti “principi permanenti della dottrina sociale della Chiesa”. O, perlomeno, tale derivazione non è cosí evidente; occorrerebbe metterla in luce e non darla per scontata.

Piú avanti tenterò, ove possibile, di individuare le radici filosofiche dei quattro postulati. Per il momento, mi limito a costatare che essi sono sempre stati i “primi principi” del pensiero di Papa Francesco. Li ritroviamo nel discorso pronunciato dall’allora Card. Bergoglio a Buenos Aires il 16 ottobre 2010, in occasione della XIII giornata di pastorale sociale per il bicentenario della Nazione argentina: 

«Per crescere come cittadini occorre elaborare, alla confluenza delle categorie logiche di società e mitiche di popolo, questi quattro principi: il tempo è superiore allo spazio, l’unità è superiore al conflitto, la realtà è superiore all’idea, e il tutto è superiore alla parte» (Jorge Mario Bergoglio,Noi come cittadini. Noi come popolo, LEV-Jaca Book, Milano 2013, p. 68). 

Nella recensione di questo volume per l’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân Giuseppe Brienza afferma che «nel discorso di Buenos Aires il Papa esponeva per la prima volta quelle quattro prospettive nuove a partire dalle quali ripensare l’insieme delle relazioni sociali che pure ritroveremo nella “Evangelii Gaudium”». In realtà, latestimonianza personale del gesuita argentino Juan Carlos Scannone ci informa che «quando Bergoglio era provinciale, nel 1974, già li [= i quattro principi] usava. Io facevo parte con lui della Congregazione provinciale e l’ho ascoltato richiamarli per illuminare diverse situazioni che si trattavano in quel consesso». Si tenga presente che nel 1974 Bergoglio aveva 38 anni, era gesuita da sedici anni (1958), si era laureato in filosofia da una decina d’anni (1963), era sacerdote da cinque anni (1969) e Provinciale da uno (1973-1979), e non era ancora stato in Germania (1986) per completare i suoi studi. Sembrerebbe quindi di poter concludere che quei quattro principi siano il risultato delle riflessioni personali del giovane Jorge Mario Bergoglio.


3. Contesto in cui sono presentati i quattro postulati

L’esposizione dei quattro postulati viene fatta da EG nel capitolo quarto, quello che si occupa de “La dimensione sociale dell’evangelizzazione”. Papa Francesco afferma che «se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice» (n. 176). In tale capitolo ci si concentra su due grandi questioni: l’inclusione sociale dei poveri (di cui ci si occupa nella seconda sezione del capitolo) e la pace e il dialogo sociale (a cui sono dedicate le ultime due sezioni). La terza sezione (nn. 217-237) tratta de “Il bene comune e la pace sociale”: è esattamente in funzione di questi beni che l’esortazione apostolica popone i quattro postulati di cui ci stiamo occupando:

«Per avanzare in questa costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità, vi sono quattro principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale. Derivano dai grandi postulati della Dottrina Sociale della Chiesa, i quali costituiscono “il primo e fondamentale parametro di riferimento per l’interpretazione e la valutazione dei fenomeni sociali” [Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 161]. Alla luce di essi desidero ora proporre questi quattro principi che orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune. Lo faccio nella convinzione che la loro applicazione può rappresentare un’autentica via verso la pace all’interno di ciascuna nazione e nel mondo intero» (n. 221).


4. Primo postulato: «Il tempo è superiore allo spazio»

Tra i quattro postulati, questo sembrerebbe quello piú caro a Papa Francesco: lo troviamo enunciato la prima volta nell’enciclica Lumen fidei(n. 57); lo ritroviamo, insieme con gli altri tre principi, in EG (nn. 222-225); è successivamente ripreso nell’enciclica Laudato si’ (n. 178); è infine citato, per ben due volte, nell’esortazione apostolica Amoris laetitia (nn. 3 & 261). Esso è però quello meno immediatamente comprensibile nella sua formulazione; diventa chiaro solo quando viene spiegato. EG lo illustra nel modo seguente:

«Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi piú che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).

In Lumen fidei se ne fa una presentazione piú sintetica: «Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza» (n. 57). Altrettanto sommaria la spiegazione diLaudato si’: «Siamo sempre piú fecondi quando ci preoccupiamo di generare processi, piuttosto che di dominare spazi di potere» (n. 178). Ancor piú stringata l’esposizione di Amoris laetitia: «Si tratta di generare processi piú che dominare spazi» (n. 261). Ma in quest’ultima esortazione apostolica si fa una sorprendente applicazione del principio in questione:

«Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cf Gv 16:13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni piú inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali...» (n. 3).

Dobbiamo sinceramente riconoscere che la derivazione di tale conclusione dal principio in esame non è cosí immediata ed evidente come il testo sembrerebbe supporre. Parrebbe di capire che l’essenza del primo postulato stia nel fatto che non si debba pretendere di uniformare tutto e tutti, ma lasciare che ciascuno percorra la propria strada verso un “orizzonte” (nn. 222 & 225) che rimane, onestamente, piuttosto indefinito.

Nell’intervista rilasciata a Padre Antonio Spadaro (La Civiltà Cattolica, 19 settembre 2013) Papa Francesco espone il principio in una prospettiva piú teologica:

«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, piú che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa» (p. 468).

Sulla rivista della Pontificia Accademia Teologica PATH (n. 2/2014, pp. 403-412) Don Giulio Maspero individua le fonti del principio in Sant’Ignazio e in Giovanni XXIII, citati da Papa Francesco nell’intervista a Padre Spadaro (pp. 406-408) e nel Beato Pietro Fabro, citato in EG 171 (p. 411); mentre esclude come fonte Romano Guardini, egli pure citato in EG 224 (p. 410). Al principio viene riconosciuta «una profonda radice trinitaria» (p. 410). La chiave ermeneutica del principio, di natura prettamente teologica, viene rinvenuta nell’affermazione della presenza e della manifestazione di Dio nella storia (p. 411). Francamente, si fa un po’ di fatica a seguire il ragionamento di Don Maspero in questo appassionato commento del principio della superiorità del tempo rispetto allo spazio.

Personalmente, anziché le radici teologiche — che rimangono tutte da dimostrare — non posso non avvertire alla base del primo postulato alcuni filoni della filosofia idealistica, come lo storicismo, il primato del divenire sull’essere, la scaturigine dell’essere dall’azione (esse sequitur operari), ecc. Ma è un discorso che andrebbe approfondito dagli esperti in sede scientifica.


5. Secondo postulato: «L’unità prevale sul conflitto»

Anche tale principio è stato enunciato per la prima volta nell’enciclicaLumen fidei (n. 55); la sua trattazione piú diffusa si trova in EG 226-230; lo ritroviamo infine nell’enciclica Laudato si’ (n. 198). EG parte da una costatazione:

«Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà.
Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e cosí l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il piú adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (nn. 226-227).

Questo terzo atteggiamento nei confronti del conflitto si basa sul principio «indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto» (n. 228). Tale principio ispira il concetto di “diversità riconciliata” (n. 230), ricorrente nell’insegnamento di Papa Francesco, soprattutto in campo ecumenico. 

Il grosso problema di tale postulato è che esso presuppone una visione dialettica della realtà molto simile a quella di Hegel:

«La solidarietà, intesa nel suo significato piú profondo e di sfida, diventa cosí uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto» (n. 228; sottolineatura mia).

Quella “risoluzione su di un piano superiore” richiama tanto l’Aufhebunghegeliana. Non sembra  poi casuale che, al n. 230, si parli di una “sintesi”, che evidentemente presuppone una “tesi” e un’“antitesi” (i poli in conflitto tra loro). Anche in questo caso il discorso andrebbe approfondito.


6. Terzo postulato: «La realtà è piú importante dell’idea»

Esso è esposto in EG 231-233 e successivamente ripreso in Laudato si’ (n. 201):

«Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti piú formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza» (EG 231).

Potrebbe sembrare che tale postulato sia quello piú facilmente comprensibile e accettabile, e quello piú vicino alla filosofia tradizionale. L’approfondimento che ne fa EG è assai attraente e, a prima vista, assolutamente condivisibile:

«L’idea — le elaborazioni concettuali — è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, cosí come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi [Platone, Gorgia, 465]» (n. 232).

Nella citata rivista della Pontificia Accademia Teologica (PATH, n. 2/2014, pp. 287-316), Padre Giovanni Cavalcoli si lascia andare a un entusiastico commento di tale principio, assimilandolo, senza ulteriori puntualizzazioni, al tradizionale realismo gnoseologico aristotelico-tomistico. A mio parere, però, non tiene conto di due aspetti importanti:
a) del contesto in cui viene esposto il principio, che, come abbiamo visto, è un contesto sociologico (con ricadute di carattere pastorale). EG non è un saggio di filosofia della conoscenza: pur trattandosi di un principio filosofico, il terzo postulato viene utilizzato in funzione dello sviluppo della convivenza sociale e della costruzione di un popolo (n. 221);
b) del linguaggio utilizzato, che non è un linguaggio tecnico. Quando si parla di “idealismi e nominalismi inefficaci” non ci si sta riferendo alle correnti storiche dell’idealismo e del nominalismo (tanto è vero che si usa il plurale). Soprattutto, i termini “idea” e “realtà” sono intesi in un significato diverso da quello in cui potrebbe intenderli la gnoseologia tradizionale: la “realtà” di cui si parla in EG non è la realtà metafisica (cioè sinonimo di “essere”), ma una realtà puramente fenomenica; l’“idea” non è la semplice rappresentazione mentale dell’oggetto, ma, come il testo stesso indica, è sinonimo di “elaborazioni concettuali” (n. 232), e quindi di “ideologia”. D’altra parte, l’uso di espressioni “esistenziali” (come, p. es., il verbo “coinvolgere”) avrebbe dovuto far capire immediatamente che non si trattava del linguaggio scolastico tradizionale.

Tali osservazioni hanno conseguenze importanti: il postulato “la realtà è piú importante dell’idea” non ha niente a che vedere con l’adaequatio intellectus ad rem; esso significa piuttosto che dobbiamo accettare la realtà cosí com’è, senza pretendere di cambiarla in base a principi assoluti (p. es., i principi morali), che sono solo “idee” astratte, che il piú delle volte rischiano di trasformarsi in ideologie. Questo postulato è alla base delle continue polemiche di Papa Francesco contro la dottrina (si veda nel mio precedente post sulla EG il § 13). Significativo, a questo proposito, quanto affermato da Papa Bergoglio nell’intervista alla Civiltà Cattolica:

«Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante» (pp. 469-470; corsivo mio).


7. Quarto postulato: «Il tutto è superiore alla parte»

Troviamo tale principio esposto diffusamente in EG 234-237 e ripreso poi sinteticamente in Laudato si’ (n. 141):

«Il tutto è piú della parte, ed è anche piú della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene piú grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva piú ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili» (EG 235).

Va apprezzato tale tentativo di tenere insieme i due poli, che sono in tensione tra loro — il tutto e la parte — e che in EG vengono identificati con la “globalizzazione” e la “localizzazione” (n. 234). La valorizzazione della parte, che non deve scomparire nel tutto, viene rappresentata dalla figura geometrica, cara a Papa Francesco, del poliedro, in contrapposizione alla sfera (n. 236). 

Il problema è che il principio, cosí com’è formulato, non esprime tale equilibrio tra il tutto e le parti; esso parla apertamente di superiorità del tutto rispetto alle parti. E questo è in contrasto con la dottrina sociale della Chiesa, la quale dichiara, sí, la persona un essere costitutivamente sociale, ma allo stesso tempo ne riafferma il primato e l’irriducibilità all’organismo sociale (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, nn. 125 e 149;Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1878-1885). C’è il rischio che, limitandosi a ripetere il quarto postulato senza ulteriori precisazioni, esso possa essere inteso in senso marxista e giustificare cosí l’annullamento dell’individuo nella società.

Si tenga presente che, anche da un punto di vista ermeneutico, il rapporto tra il tutto e le parti non viene descritto in termini di superiorità ma dicircolarità (il cosiddetto “circolo ermeneutico”: il tutto va interpretato alla luce della parti; le parti, alla luce del tutto). 


8. Conclusioni

Che, nella realtà in cui ci troviamo a vivere, esistano delle polarità, è un fatto difficilmente controvertibile. Ciò che conta è l’atteggiamento che assumiamo di fronte alle tensioni che sperimentiamo quotidianamente nella nostra vita. Una descrizione dei diversi atteggiamenti possibili di fronte al conflitto la troviamo, come abbiamo visto, in EG 227 (vedi sopra, § 5). Dalla considerazione dei quattro postulati nel loro insieme sembrerebbe di dover concludere che l’atteggiamento piú consono sia quello di comporre, sí, i poli che si oppongono, ma presupponendo che uno dei due sia superiore all’altro: il tempo è superiore allo spazio; l’unitàprevale sul conflitto; la realtà è piú importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. 

Personalmente ho sempre ritenuto che le tensioni vadano piuttosto “gestite”; che sia utopistico pensare che esse possano essere, finché siamo su questa terra, definitivamente superate; che, oltre tutto, sia sbagliato parteggiare per uno dei due poli contro l’altro, quasi che il bene sia solo da una parte e dall’altra ci sia solo male (una visione manichea della realtà sempre rifiutata dalla Chiesa). Il cristiano non è l’uomo dell’aut aut, ma dell’et et. In questo mondo c’è — deve esserci! — spazio per tutto: per il tempo e per lo spazio, per l’unità e per le diversità, per la realtà e per le idee, per il tutto e per le parti. Nulla va escluso, pena lo squilibrio della realtà, che può portare a conflitti devastanti.

Un’altra osservazione che si potrebbe fare al termine di questa riflessione è che l’esposizione di questi quattro postulati dimostra che, nell’agire umano, è inevitabile lasciarsi condurre da alcuni principi, che per loro natura sono astratti. A nulla serve quindi polemizzare sull’astrattezza della “dottrina”, opponendole una “realtà” a cui ci si dovrebbe semplicemente adeguare. La realtà, se non è illuminata, guidata, ordinata da alcuni principi, rischia di risolversi in caos.

Il problema è: quali principi? Sinceramente non si vede perché i quattro postulati di cui ci siamo occupati possano legittimamente orientare lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo, mentre la medesima legittimità non possa essere riconosciuta ad altri principi, a cui viene continuamente rinfacciata la loro astrattezza e il loro carattere, almeno potenzialmente, ideologico.

Che la dottrina cristiana corra il rischio di trasformarsi in ideologia, non lo si può negare. Ma lo stesso rischio viene corso da qualsiasi altro principio, compresi i quattro postulati di EG; con la differenza che questi sono il risultato di una riflessione umana, mentre la dottrina cattolica si fonda su una rivelazione divina. Che non avvenga a noi oggi ciò che è accaduto a Marx, il quale, mentre tacciava di ideologia i pensatori che lo avevano preceduto, non si accorse che stava elaborando una delle ideologie piú rovinose della storia.
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