LA VITA E' UNA VOCAZIONE
La vita è vocazione: cioè scegliere di essere quel che si è chiamati ad essere. L'uomo è destinato alla totale infelicità essendo costretto ad oscillare come un pendolo fra il non essere del proprio "nessuno" e i troppi "io" fasulli?
di F. Lamendola
Quando Luigi Pirandello affermava che ciascuno di noi è uno, nessuno e centomila, non sapeva di dire una cosa più profonda di quel che potesse immaginare. Nel significato che lui dava a questa espressione, l’uomo, che non ha una sua essenza, dunque non ha un io, è costretto dalla pressione della società e delle circostanze ad indossare tutta una serie di maschere, al di sotto delle quali c’è il nulla; in compenso, egli deve fingere di essere “uno”, cioè di avere un io, anche se tutti sanno che così non è, e che pretendere da lui questa compattezza ontologica è ingiusto e crudele, perché, inevitabilmente, le sue numerose maschere sono destinate a venire in conflitto tra di loro, e questo proprio in conseguenza dello sforzo, necessariamente fallimentare, di vivere come se un io ci fosse e come se quell’io immaginario fosse “responsabile” di tutto quel che vivono, provano, pensano e fanno gli altri “io”, cioè, in effetti, le altre maschere.
Questa è la concezione antropologica di Pirandello; ed è già, di per sé, una visione cupamente pessimistica, perché è facile dedurne che un siffatto uomo è destinato alla totale infelicità, essendo costretto ad oscillare, come un pendolo insensato, fra il non essere del proprio “nessuno” e i troppi “io” fasulli che si affollano nel suo spazio interiore, e che gli altri si aspettano, anzi, pretendono, che egli impersoni, di volta in volta, secondo le convenzioni della “trappola sociale”. Tuttavia, il pessimismo di Pirandello si spinge fino a profondità – se possibile - ancora più sconfortanti, dal momento che, secondo lo scrittore siciliano, vi sono delle persone, in genere le più sensibili, oppure quelle che il caso ha portato a fare certe esperienze particolarissime, le quali hanno la rivelazione improvvisa dell’assurdità cui si riduce la condizione umana: è come se si verificasse uno strappo nel “cielo di carta” di quel teatrino, malinconico e grottesco, che è la vita stessa, ed apparisse loro, in maniera evidentissima e sconvolgente, tutta la falsità, l’ipocrisia e il velleitarismo che stanno a fondamento della nostra vita. Si verifica allora una folgorazione, paragonabile alla scoperta che tutto poggia sul vuoto, e che ogni cosa, che credevano solida e certa, a cominciare dal nostro stesso io, e perfino dal nostro aspetto fisico (il famoso “naso che pende” di Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila), è, in realtà, elusiva, evanescente, illusoria: dopo di che, altro non resta che estraniarsi in una condizione di sopravvissuti a se stessi (come fa il “fu” Mattia Pascal) o nella “filosofia del lontano”, ironico e distaccato contemplare dal di fuori quel mondo di pazzi e d’illusi che è la cosiddetta vita “vera”. Concetto, quest’ultimo – si noti - non troppo lontano dalla “divina indifferenza”, che è l’unico possibile atteggiamento con cui Eugenio Montale tenta di dare una “risposta” al male di vivere, una volta accertato che l’anello mancante della prigione chiamata vita, non esiste, che non esistono vie di fuga, e nemmeno donne-angelo che possano salvarci (anche perché la donna-angelo è una messaggera di Dio; ma nel mondo di Montale, Dio non c’è: pertanto la donna-angelo è una impossibilità in termini).
Tuttavia, a ben guardare, c’è pur sempre qualcosa di valido, c’è una intuizione felice, in tutto questo cupo sprofondare nel nulla del pessimismo pirandelliano. In fondo, la constatazione di fondo è giusta: davanti a noi ci sono infinite possibilità, fra le quali dobbiamo scegliere (e anche il non scegliere equivale a una scelta, perché il mondo, intono a noi, non sta fermo ad aspettare che ci decidiamo). Questo, però, è vero solo all’inizio, al momento della nascita, anzi, del concepimento; poi, necessariamente, l’arco delle possibilità incomincia a restringersi, e noi soffriamo, in misura maggiore o minore, di quelle che non abbiamo scelto, dei sentieri che non abbiamo percorso; li sentiamo pesare su di noi come un rimpianto, ma non possiamo farci nulla: dobbiamo andare avanti e continuare a scegliere, fino a quando i petali della margherita non siano stati tutti sfogliati. Quel che Pirandello non ha saputo vedere, è l’aspetto positivo, e perfino gioioso, di tutto questo: è rimasto come ipnotizzato dall’aspetto negativo, dall’impotenza, dalla frustrazione, dalla rabbia (perché i suoi personaggi, anche i più tranquilli in apparenza, sono pieni di rabbia e desiderio di rivalsa) che le vite non vissute, le possibilità non espletate, generano nell’uomo. Non ha visto che ogni decisione è una scelta, e ogni scelta è un’avventura gioiosa, un sì alla vita, con tutti i suoi rischi e pericoli, senza i quali la vita sarebbe simile a un sonno letargico, senza sogni.
Non è vero, però, che l’uomo sia, in ultima analisi, “nessuno”; anche se il suo “io” si riducesse a un complesso di operazioni mentali sempre mutevoli, resterebbe comunque la coscienza che riflette su questo, che s’interroga, che si stupisce: e questo è ciò che, in senso cristiano, sta a indicare l’anima. In fondo, l’anima non è altro che il sigillo divino impresso nell’uomo: e quanto più forte è la sete di Dio, la nostalgia di ritornare a Lui, di ritrovare, in Lui, tutte le cose più belle e pure cui aspiriamo, e che non troviamo nella vita terrena, tanto più chiaro e inequivocabile è quel sigillo, segno della nostra filiazione divina. I personaggi di Pirandello sono infelici e disperati, come lo sono gran parte di quelli concepiti dagli scrittori della modernità, e come teorizzato dalla maggior parte dei filosofi moderni, perché cercano l’infinito nel finito, il che impossibile. Nemmeno Leopardi lo aveva capito: partendo da un errore filosofico, quello di identificare il piacere con la felicità, egli lo aggrava con un secondo errore, esistenziale: concludendo che, il piacere infinto essendo impossibile, noi tutti siamo condannati all’infelicità. Laddove è evidente che, nella dimensione del finito, l’infinito non è mai esperibile, tanto meno potrebbe divenire un possesso certo e definitivo. Ecco: gli intellettuali moderni hanno operato un vero capovolgimento di prospettiva, intestardendosi a cercare la Verità e l’Assoluto là dove non sono, né potrebbero essere, cioè nel finito, nell’umano: hanno tentato di divinizzare ciò che è fragile e perituro, e hanno disconosciuto ciò che è realmente assoluto e veritiero: Dio. Qualunque contadino, fornaio o ciabattino del passato, erano in possesso di questa consapevolezza fondamentale, che è completamene sfuggita dalle menti così sofisticate, colte ed esigenti degli intellettuali moderni. Come dice San Paolo (nel primo capitolo della Epistola ai Romani), avendo voltato le spalle al vero Dio per adorare le cose finite, opera dell’uomo stesso, essi sono impazziti e hanno sovvertito l’ordine della natura, degradandosi e ricevendo in se stessi il giusto castigo della loro superbia e della loro follia.
La vita, dunque, è un percorso verso la Verità; ma la Verità è Dio: dunque, la vita è il pellegrinaggio dell’anima verso Dio, dal quale essa ha tratto l’esistenza. Per andare nella giusta direzione, e non lasciarsi sviare dai falsi sentieri e dalle apparenze di bene, bisogna, in primo luogo, alleggerirsi del fardello del proprio ego: perché l’ego è un peso che non permette di volare in alto, ma trattiene tutti i pensieri e tutti i desideri verso ciò che è piccolo, limitato, circoscritto. Noi siamo fatti per le altezze, ma non lo sappiamo: ce lo ricorda la nostalgia dell’infinito, che portiamo dentro di noi, e che diventa la nostra maledizione (come avviene in Leopardi) solo se ci ostiniamo a guardare il dito invece del cielo, che esso indica. Ma se impariamo a levare lo sguardo al cielo, allora ci ricordiamo di chi siamo veramente, del perché siamo qui e quale sia la nostra meta: e subito ci mettiamo in cammino, come l’assetato che ode un lontano scrosciare d’acque, simile ad una cascata o ad una fonte viva che sgorga dalla roccia, in mezzo al deserto.
Il problema è che, sovente, siamo talmente immersi e sprofondati nel nostro piccolo io, capriccioso e tirannico, che sempre brama e sempre teme qualcosa, senza pace, senza respiro, da aver completamente smarrito il senso dell’udito: non udiamo lo scorrere dell’acqua, con la quale potremmo spegnere la nostra sete, e continuiamo ad aggirarci nel deserto, inutilmente, sempre più stancamente, con rabbia, con improvvise illusioni e altrettante, amare delusioni, come anime in pena, incapaci di trovare il riposo e la pace, tormentate da mille fantasmi che noi stessi abbiamo evocato, sia pure senza rendercene conto. Vittime delle nostre stesse illusioni, non di rado ci arrabbiamo con la vita e con il mondo e accusiamo Dio per le nostre amare delusioni; ma la verità è che dovremmo biasimare noi stessi, perché noi, e soltanto noi, portiamo la responsabilità dell’essere ciechi, sordi e torpidi davanti allo splendore incomparabile e misterioso dell’essere.
Scriveva don Mario Albertini (Valdagno, Vicenza, 2 febbraio 1925-Vittorio Veneto, 26 giugno 2013), un prete dell'Unione sacerdotale San Raffaele, che visse una vita buona, semplice, modesta, intelligente, piena di sollecitudine e amorevolezza per il prossimo; una vita che qualcuno ha definito "quietamente straordinaria” (in: M. Albertini, Ho messo dell'amore in tutto questo, a cura di Ermanno Crestani e altri, Roma, Edizioni Studium, 2014, pp. 254-255):
Per prima cosa: anche se è vero che la vocazione coinvolge totalmente la vita del chiamato, LA SINGOLA VOCAZIONE NON ABBRACCIA TUTTO. Essendo fatta di scelte, è anche rinuncia. Scrive Paul Valéry: "Io sono nato molteplice"; e Chesterton: "Sono nato mille". Ciascuno di noi sente una attrattiva a scegliere "tutto", ma di fatto questo è un sogno impossibile che sarebbe pigrizia (e non generosità) voler inseguire. Momento per momento dobbiamo scegliere una tra le tante possibilità che ci si presentano, e la scelta che faccio oggi indirizza e limita le possibilità di domani, e giorno dopo giorno la gamma delle possibilità scelte si va restringendo (mentre il contenuto si arricchisce), finché in punto di morte sarà un sì o un no a una definitiva adesione a Dio, punto di arrivo di tutta la vita. Chesterton completava la frase: "Sono nato mille, morirò uno". Ora, se è vero che si sente l'attrattiva per il tutto, vuol dire che ogni scelta comporta quasi sempre una certa oscurità, e che non c'è vocazione che non comporti una nostalgia per un'altra vocazione [...]. Ogni vera vocazione è sacrificio, cioè è rinuncia a qualche cosa in una offerta che le dà valore divino. [...]
La vocazione non riguarda l'essenziale della partecipazione alla vita divina, bensì un modo particolare di partecipazione più immediata ed esclusiva. Quindi è libera. La vocazione è "la voce di una perfezione possibile per me, che risuona in me, senza obbligarmi, e lasciandomi la gloria della libertà" (J. Guitton). Se è dono gratuito di Dio, un forte senso di riconoscenza deve sgorgare dalla vita del chiamato. E se è libera, la vocazione rientra nella categoria della fedeltà: posso dire di sì a questa o a quella vocazione, senza costrizioni; ma quando ho detto di sì, impegno me stesso; ecco la fedeltà che diventa un dovere, perché allora la vocazione diventa la strada per realizzare la propria santificazione al seguito di Cristo.
La cosa veramente essenziale, dunque, non è il contenuto specifico della vocazione, della chiamata, ma il fatto della chiamata in se stesso. Se siamo chiamati, ciò significa che vi è qualcuno che ci sta chiamando: fino a quando resteremo sordi alla sua voce? Fino a quando i nostri occhi resteranno chiusi davanti al suo incomparabile splendore? Ogni giorno, ogni ora, ogni minuti la voce ci chiama: e continuerà a chiamarci fino all’ultimo istante della nostra vita. Poi, sarà troppo tardi. Ma fino a quell’ultimo istante, infinitamente prezioso, ci sarà ancora tempo: perché il nocciolo della questione (the heart of the matter, come direbbe Graham Greene) non è, e non è mai stato, la quantità del tempo che abbiamo a disposizione, e delle cose che decidiamo di fare o di non fare; bensì la dimensione qualitativa della nostra consapevolezza e della nostra ricerca. Un istante può valere una vita intera, se in quell’istante diciamo sì: fosse anche l’ultimo della nostra vita. Dire di sì alla Verità, è dire il sì che conferisce valore e significato a una intera esistenza, indipendentemente da quello che, dall’esterno, può apparire agli altri. Gli altri non sanno nulla; solo noi sappiamo, nel nostro intimo, se la nostra vita è stata un successo o un fallimento, un trionfo o una disfatta; e lo sappiamo perché la voce dell’essere ce lo rivela con chiarezza inequivocabile, se noi impariamo a riconoscerla, e ad ascoltarla, fra mille altri rumori banali e insignificanti.
La vita è piena di rumori banali, di luci fasulle, di miraggi di beni i quali, dopo averci attirati e sedotti, si rivelano avvelenati, come altrettante code di scorpioni. Ma noi non siano qui per questo: la nostra vocazione non è di perderci dietro a sciocchezze, a miraggi, a inganni, ma di andare con passo sicuro verso l’essenziale. Solo lì troveremo il bene, solo lì troveremo la pace e potremo finalmente spegnere la nostra sete ardente. È una cosa buona che siamo tormentati dalla sete: se così non fosse, ci fermeremmo davanti alle pozze d’acqua sporca e infetta, e berremmo di quella, dimentichi del fatto che vi è una fonte purissima che scaturisce dalla roccia, la quale è lì proprio per noi, in attesa di ciascuno di noi. Prima ancora che noi fossimo, quella fonte ci stava già aspettando...
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