D'AVIANO E DIFESA DELL'EUROPA
Marco d’Aviano mostra come si può e si deve difendere il Cristianesimo e l’Europa. Egli ci dimostra che il diritto e il dovere alla difesa di ciò in cui si crede non cade mai in prescrizione, anche con il trascorrere dei secoli
di Francesco Lamendola
Il beato Marco d’Aviano (al secolo Carlo Domenico Cristofori, nato a Villotta di Aviano, nel Friuli, il 17 novembre 1631 e morto a Vienna, dove si era recato su ordine del papa, benché malato, il 13 agosto 1699) rappresenta un aspetto della cristianità che oggi si tende a ignorare, e cioè la strenua volontà di difesa contro un terribile nemico esterno, l’islam: volontà che non solo non contraddice la mitezza del Vangelo, ma si unisce ad una intensa, straordinaria spiritualità.
Padre Marco fu, tra le altre cose, un celebre predicatore; cappuccino, aveva la semplicità, la mansuetudine, la disponibilità del grande fondatore dell’ordine dei Frati Minori; fu anche un apprezzato diplomatico, alle cui risorse di prudenza, di abilità e di lungimiranza ricorse ampiamente il pontefice; e che ovunque andasse, da un capo al’altro del continente (solo Luigi XIV non volle, con pretesti, che passasse per Parigi), veniva sempre accolto con il massimo rispetto da parte di sovrani e ministri, ascoltati con attenzione, ammirato per la sua sagacia, che si univa in lui ad uno spirito di totale disinteresse per le cose materiali.
È stato soprattutto per merito suo se, l’11 e il 12 settembre del 1683, Vienna è stata salvata dall’assedio ottomano, e i Turchi sono stati ricacciati per sempre dal cuore dell’Europa, nella battaglia del Kahlenberg, decisa dal cavalleresco intervento del re di Polonia, Jan Sobieski, che unì le sue forze al comandante imperiale, Carlo di Lorena, e salvò l’imperatore asburgico, Leopoldo I, da una terribile situazione; furono i suoi sermoni appassionati a spronare i cavalieri cristiani nell’assalto decisivo, così come fu la sua capacità di mediazione a tenere insieme i discordi comandanti della composita Lega Santa; e fu sempre la sua fede incrollabile a rianimare lo scoraggiato Leopoldo (che si era rifugiato da Vienna a Passavia, in Baviera), di cui era diventato il confessore e il consigliere spirituale. La vittoria fu celebrata con messe di ringraziamento e con immense manifestazioni di giubilo in tutta Europa; il papa Innocenzo XI proclamò il 12 settembre festa del Santissimo Nome di Maria.
Dopo di che, padre Marco, che a Vienna era il personaggio del giorno, e sul conto del quale circolavano racconti di guarigioni miracolose, riprese la sua opera diplomatica, sempre su richiesta del papa: si trattava di non sprecare la vittoria, com’era avvenuto dopo Lepanto, un secolo prima; bisognava incalzare i Turchi, scacciarli dall’Ungheria, allontanarli definitivamente dal cuore dell’Europa, in modo che non potessero mai più minacciarlo. Innocenzo XI morì nel 1689, dopo che Buda era stata riconquistata, ma l’azione già languiva, perché gli imperiali parevano disposti a una pace di compromesso; tanto più che dovevano guardarsi le spalle da Luigi XIV, il Re Sole, il quale, pur facendosi chiamare anche “il re cristianissimo”, per tutta la durata dell’assedio di Vienna e, poi, della campagna d’Ungheria, non solo non aveva mosso un dito in difesa della cristianità minacciata, ma aveva anzi cercato di favorire in vario modo l’azione politico-militare del sultano Mehmed IV, proprio per indebolire gli Asburgo, suoi eterni rivali. Ma nel 1697 Eugenio di Savoia, il geniale condottiero italiano, riprese l’avanzata e inflisse ai Turchi la sconfitta risolutiva nella battaglia di Zenta, sul Tibisco (1697), cui sarebbe seguita la pace di Carlowitz (1699).
Così lo storico Venanzio Renier, cappuccino, ha rievocato questo fondamentale momento della vita e della missione del Beato Marco d’Aviano nel saggio Padre Marco d’Aviano. Una vita per la Chiesa e per l’Europa (in: Marco d’Aviano, Gorizia e Gradisca. Raccolta di studi e documenti dopo il Convegno storico-spirituale del 14 ottobre 1995, a cura di Walter Arzaretti e Maurizio Qualizza, Fondazione Società per la Conservazione della Basilica di Aquileia & Banca Popolare di Trieste, 1998, pp. 29-31):
Padre Marco, durante tutta la vita, per quanto gravi ed urgenti fossero gli altri impegni, diede sempre la preferenza all’evangelizzazione. Il Seicento non fu un secolo felice per l’oratoria sacra: tuttavia il Nostro, grazie alla scelta degli argomenti e al modo di esporli, seppe adattarsi alla capacità media degli ascoltatori. Voleva essere inteso da tutti e vi riuscì così bene che nobili e popolani, magistrati e bifolchi, accorrevano ad udirlo. Così lo descrisse il 13 giugno 1690 Antonio Crestani, notaio di Bassano del Grappa, presente al Quaresimale predicato in quell’anno dal cappuccino: “La gente… pendeva dalla sua bocca e dai suoi cenni, mentre egli col crocifisso in mano gli andava animando (al bene)… Io (che) sono vecchio di sessantacinque anni, non ho mai in vita mia sentito né veduto operar dalla presenza e dalla lingua d’un huomo opere così grandi e meravigliose” (“Positio”, 542-43).
Rimasero memorande, nelle cronache cittadine, fra le sue quaresime, quelle predicate a Venezia (1681, 1684, 1694); a Udine (1683), a Oderzo (1685), a Schio (1686), a Vicenza (1687), a Brescia (1688), a Tolmezzo (1691), a Padova (per volontà di san Gregorio Barbarigo ed alla sua presenza, 1697), a Thiene (1698) e l’ultima a Ceneda, ora Vittorio Veneto (1699).
Padre Marco si impegnò anche in opere sociali. Raccomandò spesso di essere generosi nel provvedere la dote alle zitelle povere, perché potessero sposarsi onestamente, ovvero entrare nei monasteri. Diventò una vera provvidenza nelle parrocchie, nelle quali era invitato, per le abbondanti elemosine che venivano raccolte, utili alle necessità del culto e alle distribuzioni ai poveri. Così avvenne ad Oderzo, Montagnana, Fratta Polesine e a Gambarare, nella terraferma veneziana.
Quaresimalista a Sermide nel Mantovano (1677), durante una carestia, aumentata per il grande afflusso degli ascoltatori, ottenne che venissero aperti i granai a prezzi di favore, per sfamare la popolazione. Per questo – annota l’accompagnatore e primo biografo Cosma da Castelfranco – “li bisognosi… con mani drizzate al cielo, ringratiavano la Providenza suprema per havere a se concesso un predicatore opportuno nelle penurie per sollevarli dalle loro pressure e necessità” (“Positio”, 49).
A Salò, invece, prima di iniziare la quaresima, riuscì a riconciliare le autorità cittadine ed il popolo con il parroco che il vescovo aveva nominato, ma che molti si erano rifiutati di accettare. […]
Padre Marco diventò molto famoso per le guarigioni prodigiose. Tutto ebbe inizio l’8 settembre 1676, all’età ormai di 45 anni. Dopo aver terminato il panegirico sulla Natività della Madonna, guarì con la sua benedizione, nel monastero delle Nobili Dimesse di Padova, suor Vincenza Francesconi, che da tredici anni giaceva paralizzata. La notizia si diffuse in tutta la città e dintorni. Numerosissimi ciechi, storpi, sordomuti ed infermi si affollarono in chiesa ed alla porta del convento dei Cappuccini, implorando la benedizione prodigiosa. Altrettanto avvenne a Venezia, dopo che ebbe guarita suor Anna Maria Dolfini, la patrizia Gritti e molte altre persone. […]
Si può affermare che la missione sacerdotale di padre Marco fu tutta imperniata sulla riconciliazione degli uomini con Dio. Compose una formula che spesso recitava in dialogo con l’uditorio. Le testimonianze sono unanimi nel descrivere il fervore travolgente e la commozione straordinaria manifestata dai gesti e dal tono della voce con cui pronunciava le parole. Strappava le lagrime ai più ostinati. Durante le tappe dei suoi viaggi in Europa, i penitenti assiepavano i confessionali. I Gesuiti del Belgio e dell’Olanda, nelle “Littearea annuae” inviate ai superiori di Roma, e i resoconti stesi dalle diocesi della Germani, Austria, Svizzera, Slovenia e Boemia parlano di migliaia e migliaia di confessioni e comunioni generali, quali non si erano mai viste nel passato. Per oltre un quarto di secolo, padre Marco sconvolse e migliorò moltissime coscienze.
Per il tedesco padre Agostino Maria Ilg, autore nel 1876 di una galleria di trentasei ritratti spirituali degli uomini illustri dell’Ordine cappuccino, egli fu il tipico rappresentane dei predicatori: “L’ordine ne conta molti assai celebri, (ma) difficilmente se ne troverà uno uguale, se si considerano i meravigliosi effetti e le meravigliose circostanze ch accompagnarono i suoi sermoni” (cfr. “Positio”, 903. bib. 44).
Ci si potrebbe chiedere il perché di questa insistenza sull’atto di dolore, che padre Marco voleva perfetto, perché basato sull’amore a Dio padre ed a Gesù crocifisso. Egli sapeva che gli uomini, chi più, chi meno, sono poveri peccatori, poiché per debolezza o per malizia, non corrispondono alle grazie e all’amore infinito di Dio. Devono quindi sempre cercare di ritornare a Lui, come insegna il messaggio del Battista, di Gesù e degli Apostoli, che la Chiesa deve sempre proclamare e realizzare. Esortava i suoi ascoltatori a pentirsi sinceramente e poi domandare al Signore tutte le altre grazie, e, se necessario, anche i miracoli, che la divina bontà concederà, intenerita dall’umiltà. Insegnava quindi a passare, dalla purificazione e distacco dal peccato e dalle occasioni di peccato, ad una fiducia illimitata nella potenza di Dio, per arrivare alla perfezione ed alla santità.
Questo brano della biografia di padre Marco D’Aviano ci aiuta a comprendere i motivi della sua straordinaria popolarità, del suo carisma, del suo ascendente sugli uomini più importanti del suo tempo: basti dire che, al suo capezzale di moribondo, fu vegliato amorevolmente dall’imperatore in persona e da sua moglie, Eleonora (gli verrà poi accordato l’onore straordinario di essere sepolto nella Cripta dei Cappuccini, riservata alla dinastia regnante austriaca); e che il comandante imperiale al tempo della battaglia di Vienna, Carlo di Lorena, era un suo personale e devoto ammiratore, tanto è vero che solo per merito della sua paziente opera di persuasione, quegli accettò di porsi sotto il comando del re polacco Sobieski. Padre Marco era ugualmente stimato, ammirato e venerato sia dal popolo che dalle personalità eminenti, e ciò dipese dal fatto che la sua spiritualità appariva evidente, profondissima, commovente. Le sue parole erano autorevoli, perché non solo sapeva tenere delle prediche edificanti e fiorite, nel migliore stile barocco, ma anche perché da esse traspariva la sincerità, e nel suo sguardo, nei suoi gesti, si poteva cogliere l’intima coerenza di un personaggio che già in vita ere in odore di santità (anche per via delle sue doti di taumaturgo) e che aveva suscitato una impressione fortissima su tutti quelli che lo avevano visto e udito. A Venezia, a Belluno, a Udine, a Padova, a Oderzo, a Vicenza, a Ceneda, a Bassano, a Brescia, ovunque folle strabocchevoli si erano assiepate per ascoltare i suoi quaresimali, nei quali egli aveva fatto rivivere lo spirito di crociata e trasmesso non solo ai suoi compatrioti, ma a gran parte degli Europei, lo slancio e l’ardore necessari per fronteggiare un pericolo che si profilava di una gravità estrema, quale forse mai la cristianità intera aveva vissuto, dai temi della caduta di Costantinopoli e, poi, dello sbarco ottomano a Otranto, con il relativo massacro della popolazione che non aveva voluto convertirsi alla religione della mezzaluna.
Marco d’Aviano era un frate pieno di amor di Dio e del prossimo; un uomo umile, privo di ambizioni personali o di secondi fini; un francescano innamorato della povertà, della carità, di Cristo e di Maria Vergine, il quale, pur amando la pace, non si tirò indietro quando i nemici del Vangelo portarono la guerra, mediante il ferro e il fuoco, sin nel cuore del nostro continente. Se Vienna fosse caduta, noi, oggi, forse saremmo già islamici, come lo sono tante popolazioni balcaniche, che vissero per secoli sotto il (pessimo) dominio ottomano (cfr. il nostro articolo: L’Impero Ottomano è decaduto perché privo di un’idea e di un’etica, pubblicato su Il Corriere delle Regioni in data 25/10/2015; e anche La rivincita della Mezzaluna tre secoli dopo l’11 settembre del 1683, pubblicato sul sito di Arianna Editrice l’11/09/2009). E se Vienna non è caduta, una buona pare del merito va proprio al frate friulano, il quale non disperò quando tanti disperavano, non perse la testa, non cessò mai di aver fede nell’aiuto di quel Signore che aveva detto ai suoi discepoli:Bussate e vi sarà aperto; chiedete e vi sarà dato.
Oggi è diffuso uno stranissimo modo di pensare, proprio fra tanti sedicenti cristiani, i quali, tutti infervorati dalla volontà di dialogare ad ogni costo e con chiunque, anche col peggior nemico, e tutti ipnotizzati da quella magica parola, ecumenismo, che, per loro, è diventata una specie di abracadabra, poiché sembrerebbe voler dire che i cristiani devono rinunciare alla loro identità, in favore di una religiosità vaga e generica, imbevuta di gnosticismo e deismo, nella quale possano entrare tutti, nessuno escluso, come se la Verità fosse qualcosa di relativo, e il Cristianesimo avesse lo stesso contenuto di verità di qualsiasi altra religione, e come se l’importante fosse che tutti gli uomini della terra si riuniscano a pregare insieme, non importa se rivolgendosi al vero Dio o agli dei falsi e bugiardi di cui parlava Dante Alighieri.
Per codesti cristiani del terzo millennio, debitamente progressisti e modernisti, la figura di Marco d’Aviano può risultare vagamente scomoda e imbarazzante, quasi indisponente. Avrebbero preferito un uomo di Dio che va disarmato incontro ai nemici e che mette dei fiori nei loro cannoni, come recitava il testo di una insulsa e melensa canzonetta dell’epoca sessantottina, nella quale il pacifismo a senso unico veniva celebrato come un valore assoluto e irrinunciabile; e quando parlare di una “guerra giusta”, come pure hanno sempre fatto fior di teologi, da Sant’Agostino (che diede personalmente l’esempio, partecipando fino all’ultimo respiro alla difesa della sua città, Hippo Regius, assediata dai Vandali), a San Tommaso d’Aquino (che, nella Summa Theologiae, la equipara alla legittima difesa del singolo individuo, qualora venga ingiustamente minacciato e aggredito), era qualcosa d’inconcepibile per codesti zelatori di un Vangelo remissivo, inerme, pronto a lasciarsi distruggere dal primo che lo voglia fare.
Padre Marco d’Aviano era pacifico, ma non pacifista; credeva nel dialogo e nella misericordia divina (subito dopo la battaglia del Kahlenberg, volle che i viennesi rendessero grazie a Dio pregando per le anime di tutti i caduti, compresi i nemici), ma non nel fatto di lasciarsi ammazzare o sottomettere senza opporre alcuna resistenza, perché, di ciò, i popoli minacciati avevano – e hanno - pieno diritto, sia in quanto europei, sia in quanto cristiani.
Sì: in questi tempi di buonismo ideologizzato e di cristianesimo in via di auto-rottamazione, la figura e l’esempio di padre Marco d’Aviano, spirito profondamente pacifico e tuttavia magnifico lottatore, possono davvero risultare scomodi, perché appaiono in assoluta controtendenza. Egli ci ricorda che bisogna anche sapersi battere per difendere il Vangelo e la vita stessa, se ciò diviene necessario; che c’è un tempo per la pace e un tempo per la lotta, un tempo per parlare e un tempo per misurarsi con la spada; e che il diritto e il dovere alla propria difesa, e alla difesa di ciò in cui si crede, non cade mai in prescrizione, anche con il trascorrere dei secoli. Ovunque si ripresentino le condizioni dell’11 settembre 1683, l’Europa avrà sempre bisogno di una guida spirituale forte e coraggiosa, mite e tuttavia animosa, come lo fu, per i suoi contemporanei, quella di padre Marco d’Aviano.
Marco d’Aviano mostra come si può e si deve difendere il Cristianesimo e l’Europa
di Francesco Lamendola
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