Ciò che conta … è non pensare a grandi agglomerati o a complesse organizzazioni. Non abbiamo la forza per istituirli, ma, soprattutto non è quanto ci viene chiesto e non è quanto riuscirebbe a rimanere fedele al proprio scopo nel tempo. Bisogna formare piccoli gruppi che manifestino l’integrità delle fede di chi vi appartiene attraverso un compito specifico… Pensi quanto bene porterebbero all’intero Corpo Mistico tante minuscole aggregazioni di cristiani che esercitassero la misericordia vera e non quella massonica intronizzata a Roma via Buenos Aires.
Lunedì 6 giugno 2016
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Pubblichiamo la seconda parte della risposta alla lettera della lettrice Annarita. Per leggere la prima parte della risposta,clicca qui:
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Caro Alessandro Gnocchi,
le scrivo in breve per chiederle: cosa facciamo? La crisi della Chiesa non risparmia nessuno, cadendo il Papa, si brancola nel buio, perché viene a mancare la visibilità della Chiesa e dunque ci si chiede dove è visibile oggi la Chiesa? Il buio è tanto grande che ci si chiede dove stia il nostro Ovile. Io ho un’unica certezza, quella che bisogna salvare la fede e cercare nel proprio piccolo di fare tutti quegli atti possibili per ricostruire dentro la propria famiglia la Città di Dio e partendo da questo piccolo mondo espandere il Regno di Dio, agli amici, sul lavoro, ovunque. Se avessi soldi farei una scuola veramente cattolica, una cappella da dare a quei sacerdoti ai quali non vengono date le chiese, un posto dove ospitare fedeli, dove insegnare ai ragazzi un lavoro, dove fare buone conferenze, trasmettere la dottrina… Ma il Buon Dio pare lasciarci come abbandonati, con le nostre piccole e grandi croci, per farci meritare qualcosa e per farci probabilmente capire che non siamo noi ma è Lui a salvare. Lei, dottor Gnocchi, ci aveva promesso che ci avrebbe detto cosa si può fare in questo panorama disastroso, dove la paglia sembra diventata pesante anche per i più tenaci. Che fare dunque?
La ringrazio, con stima,
Annarita
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Cara Annarita,
alla sua descrizione dello stato in cui versa la Chiesa aggiungo le considerazioni che il domenicano padre Roger Thomas Calmel scriveva nell’aureo volumetto Breve apologia della Chiesa di sempre, meritoriamente pubblicato in Italia dall’Editrice Ichthys:
“La falsa Chiesa, che si rivela a noi a partire dallo strano Vaticano II, si allontana visibilmente, anno dopo anno, dalla Chiesa fondata da Gesù Cristo. La falsa Chiesa postconciliare si distingue sempre di più dalla Santa Chiesa che salva le anime da ormai venti secoli (e per di più illumina e sostiene la società. La pseudo-Chiesa in costruzione si distingue sempre più dalla vera Chiesa, dalla sola Chiesa di Cristo, per le sue strane innovazioni sia nella costituzione gerarchica sia nell’insegnamento e nei costumi”.
Si era negli psichedelici Anni Settanta e regnava Paolo VI, il Papa che legò indissolubilmente il suo nome alla devastazione della liturgia cattolica, alla dismissione della vita contemplativa, all’oscuramento dell’idea tradizione, alla deriva del democratismo cristiano, all’abbraccio appassionato per l’uomo e la sua religione prometeica, all’influenza del peggior Maritain nelle università e nei seminari, alla condiscendenza nei confronti dei preti operai… Se pure qualche tradizionalista di bocca buona oggi è disposto considerare con rimpianto quel pontificato, padre Calmel aveva compreso benissimo quale fosse la china verso cui si stava scendendo precipitosamente. Non aveva ancora assistito alla sostituzione del Corpo Mistico di Nostro Signore Gesù Cristo con il corpo mediatico di Bergoglio, ma già allora, al termine della descrizione citata si chiedeva: “Che fare?”. Era la domanda con cui apriva un paragrafo intitolato eloquentemente “Riedificare bastioni di santità”. Che fare al cospetto di una crisi così profonda dell’autorità, della gerarchia, della dottrina e della morale?
Con una premessa, cara Annarita, comincerei però da che cosa non fare, da quale tentazione evitare. La premessa consiste nella consapevolezza che la Chiesa è di Cristo e ha avuto dal suo fondatore la certezza di conservare fino alla fine del mondo quel tanto di gerarchia personale autentica per mantenere i sacramenti e l’insegnamento dell’unica dottrina di salvezza. La tentazione a cui sfuggire, invece, è quella di immaginare in proprio l’architettura di una Chiesa perfetta anche sul piano umano: finisce sempre per essere a nostra immagine e somiglianza, dunque imperfetta. Abbiamo la certezza che la Chiesa, il Corpo Mistico di Gesù Cristo non morirà, ma non è nostro compito scegliere come si debba presentare ai nostri occhi, i quali, invece, la devono solo riconoscere secondo quanto Nostro Signore ci ha detto una volta per sempre.
Dalla caduta in tale tentazione, che costituisce un errore di metodo, scaturisce l’errore di merito di vagheggiare la restaurazione di una Chiesa che tornasse agli anni prima del Concilio Vaticano II. Quasi che, prima dell’11 ottobre 1962, si vivesse in una sorta di Eldorado poi guastato dai lanzichenecchi calati inaspettatamente dal nord ad abbeverare i loro draghi teologici in San Pietro. Ma la Chiesa del 10 ottobre 1962, cara Annarita, è proprio quella che ha prodotto il Vaticano II e tutto quanto ne è seguito. Se oggi ci appare un mostro anticristico che non riesce comunque a soffocare definitivamente il segno di Cristo, simmetricamente allora si mostrava una gran macchina cattolica minata però dal seme dell’errore che faceva volentieri capolino in certe derive teologiche, in certi innamoramenti filosofici e andava a infettare curie e seminari.
Liberiamoci, dunque, dall’ansia di restaurazione e, soprattutto, di certe restaurazioni. Cerchiamo invece di uscire dal cumulo di macerie in cui la Chiesa è stata ridotta e sforziamoci di mantenere la fede tutta intera. Per il resto, lasciamo fare alla Provvidenza e vedrà, cara Annarita, che, affrontato così, il compito diventerà già più lieve. Che cosa fare, dunque? Ecco una prima indicazione di metodo e merito che ci offre padre Calmel:
“Nonostante la diminuzione progressiva – ma sempre limitata – dell’autorità gerarchica personale e reale, noi tutti, sacerdoti e laici, ognuno per conto nostro, deteniamo una piccola parte d’autorità. Noi sacerdoti abbiamo i poteri di celebrare la vera Messa, di assolvere, di predicare. I genitori, malgrado il totalitarismo statale e la decomposizione della società, non hanno perso ogni potere di formare ed educare i figli che hanno messo al mondo. Si potrebbe fare la stessa constatazione per le scuole e per coloro che ne sono responsabili: sacerdoti, fratelli, religiose o laici. Che il sacerdote fedele, atto a istruire e predicare, assolvere e dire la Messa, usufruisca dunque completamente del suo potere e della sua grazia di predicare e istruire, di perdonare i peccati e di offrire il Sacrificio secondo il rito tradizionale. Che la suora insegnante usufruisca completamente della sua grazia e del suo potere di formare le ragazze nella Fede, nei buoni costumi, nella purezza, nelle belle lettere. Che ogni sacerdote, ogni laico, ogni piccolo gruppo di laici e sacerdoti, che abbiano potere su una piccola roccaforte della Chiesa e della cristianità, usufruiscano completamente delle loro possibilità e del loro potere. Che i capi delle roccaforti, però, i loro occupanti non si ignorino e anzi comunichino tra loro. Che ognuna di queste roccaforti, protetta, difesa, spronata, diretta nella sua preghiera e nei suoi canti da un’autorità reale diventi un bastione di santità: così assicurerà continuità alla vera Chiesa e preparerà efficacemente il rinnovamento per il giorno del Signore”.
Non creda che sia una strada impervia, cara Annarita. Paradossalmente, penso che sia più praticabile oggi che ai tempi di padre Calmel. È più facile che gli uomini si muovano e reagiscano risolutamente quando hanno le spalle al muro invece che quando intravvedono qualche spiraglio rimasto aperto lungo i consueti canali. Ciò che conta, anche qui, è non pensare a grandi agglomerati o a complesse organizzazioni. Non abbiamo la forza per istituirli, ma, soprattutto non è quanto ci viene chiesto e non è quanto riuscirebbe a rimanere fedele al proprio scopo nel tempo. Bisogna formare piccoli gruppi che manifestino l’integrità delle fede di chi vi appartiene attraverso un compito specifico.
“Mi sembra che il mezzo per permettere alla battaglia cristiana di raggiungere la sua massima espansione, evitando i conflitti interni e le rivalità esterne”, dice ancora padre Calmel “sia quello di condurla per piccole unità, che si aiutino se necessario, ma che si rifiutino di far parte di non so quali organizzazioni sistematiche e universali. In queste varie unità, come una modesta scuola, un umile convento, una confraternita di pietà, un piccolo gruppo di famiglie cristiane, un’organizzazione di pellegrinaggi, l’autorità è reale e indiscussa; il problema del capo praticamente non si pone; l’opera si svolgerà precisa. Si tratta solamente di andare fino in fondo alla propria grazia e alla propria autorità nella piccola sfera della quale si ha certamente la responsabilità, tenendosi uniti, senza grandi organizzazioni amministrative, a coloro che fanno la stessa cosa”.
Si può fare, cara Annarita, e glielo posso dire per esperienza personale. Con un gruppo di amici, abbiamo costituito una piccola confraternita che si occupa della formazione cattolica dei componenti attraverso la liturgia, la dottrina e la pietà tradizionali. L’obiettivo non è quello di espandersi acquisendo nuovi aderenti, ma di andare fino in fondo alla nostra grazia nutrendo la nostra fede con cibo sempre più robusto e più buono. Questo, oltre a formare e saldare amicizie cristiane che aiutano a sopravvivere in questo mondo e in questa Chiesa, ha prodotto altre iniziative. Un’associazione che raccoglie fondi per il mutuo soccorso e per famiglie cattoliche in difficoltà, niente di straordinario, ma un segno concreto della fede. Anche la Lega Cattolica per la preghiera di riparazione è nata da qui e, pur essendo conosciuta ben oltre i confini del nostro operare, non ha assunto la forma di una struttura centralizzata per evitare di divenire un carrozzone su cui domina la logica del numero, che non è mai quella della Verità.
E perché non adottare lo stesso criterio, che è quello della fede, per le scuole parentali? Per la formazione religiosa che si potrebbe chiamare catechismo parentale? Per l’organizzazione di vacanze per piccoli gruppi di famiglie? Per l’assistenza ai malati, ai poveri, agli anziani? Cara Annarita, se qualche buon cristiano si riunisse per dedicarsi a una delle opere di misericordia spirituali o corporali, troverebbe mille modi per dare concretezza alla propria fede. Non si deve fare di più. Pensi quanto bene porterebbero all’intero Corpo Mistico tante minuscole aggregazioni di cristiani che esercitassero la misericordia vera e non quella massonica intronizzata a Roma via Buenos Aires.
Magari le sembrerà poco, ma è tutto quello che possiamo fare, anzi è proprio quello che siamo chiamati a fare poiché ne abbiamo la forza e le competenze. Pensi, solo per fare un esempio, alla possibilità di istituire una scuola di catechismo parentale. Bastano un papà o una mamma che abbiano fede e dottrina comprovati e l’assistenza di un sacerdote cattolico: a quel punto si può fare in casa. Ciò che serve veramente è abbattere la paura del sistema di oppressione messo in atto dalla neochiesa della misericordia. Serve coraggio, ma anche conoscenza della realtà. Davanti al ricatto della negazione dei sacramenti, si deve sapere che sarà sempre possibile, e non sarà difficile, trovare sacerdoti cattolici disposti a dare la prima Comunione ai bambini. E la stessa considerazione vale nel caso della Cresima, per la quale non sarà difficile trovare un vescovo o un suo delegato per amministrarla. Lo si fa già cara Annarita. Ci sono genitori cattolici disposti a compiere un po’ di fatica e un gesto di coraggio in più pur di non sottostare alla sacrilega imposizione dei Kommissari-del-popolo-di-Dio di impartire i sacramenti cristiani solo a bambini che professano formalmente una fede non cristiana.
Quello che veramente si deve fare è decidere che con il mostro anticristico non è possibile collaborare. A proposito di questo non si mediterà mai abbastanza su quanto diceva Hanna Arendt: “Abbiamo la responsabilità della nostra obbedienza”. Siamo chiamati scegliere, ma questo non è solo un dovere di questi giorni, l’uomo lo deve fare sempre. Oggi è più urgente, più drammatico e più doloroso poiché il terreno su cui ci si illude di trovare una mediazione onorevole si va sgretolando ed esaurendo. Cosicché, paradossalmente, la scelta, mostrandosi inevitabile, diventa più facile.
Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle, definisce la decisione di opporsi radicalmente alla tirannia della modernità con l’evocativa immagine del “passaggio al bosco”. L’immagine del bosco dà forma al concetto di libertà intimamente radicato nell’essere e, dice Jünger, “è ben diverso dalla semplice opposizione, e non si trova neppure mediante la fuga. (…) Qui sono a disposizione mezzi diversi oltre al semplice ‘no’ da scrivere in una in una determinata casella. (…) Si può anche dire che nel bosco l’uomo dorme. Non appena aprendo gli occhi riconosce il proprio potere, l’ordine è ristabilito. (…) catturati nel gioco di potenti illusioni ottiche, siamo abituati a considerare l’uomo, se confrontato con le sue macchine e con l’arsenale della sua tecnica, un granello di sabbia. Ma queste illusioni sono e rimangono i fondali di una immaginazione gregaria”.
Se si considera che la neochiesa della Casa Comune è ridotta a un dinosauro burocratico che opprime il suo popolo grazie all’arma della blasfema misericordia mondana, cara Annarita, vedrà che queste considerazioni paiono scritte proprio per noi. E vedrà che urge scegliere di agire per il bene, come scrive ancora Jünger quando parla del “nichilismo cristiano che si rende il compito un po’ troppo facile. Non posiamo limitarci a riconoscere il vero e il buono ai piani nobili, mentre in cantina stanno scorticando vivi i nostri confratelli. Non sarebbe lecito neanche se ci trovassimo, spiritualmente intendo, in una posizione non soltanto più sicura ma addirittura superiore – poiché la sofferenza inaudita di milioni di schiavi grida comunque vendetta al cospetto del cielo. Le esalazioni che emanano dagli scorticatoi continuano ad appestarci. Non sono situazioni che si possono aggirare con qualche mezzuccio”.
Ma il bosco, se vogliamo mantenere questo nome per il luogo in cui esercitare fino al fondo la grazia della fede, non è fatto per ospitare i grandi agglomerati. Non può albergare movimenti, partiti e manifestazioni di massa, piccoli o grandi che siano, neanche quando sono frutto di buone intenzioni. Lo spiega con terribile lucidità padre Calmel:
“Penseremo, allora, a costituire un’immensa lega o associazione mondiale di sacerdoti e fedeli cristiani che, essendo diventati degli ‘interlocutori validi’ per la gerarchia ufficiale, l’obbligheranno a riprendere in mano le redini e ristabilire l’ordine? Progetto grandioso, progetto commovente, progetto chimerico. Perché in fin dei conti questo gruppo, che si vorrà di Chiesa ma non sarà né diocesi, né arcidiocesi, né parrocchia, né ordine religioso, questo gruppo sarà artificiale: arte-factum, estraneo ai gruppi reali, stabiliti e riconosciuti. Come per qualsiasi altro gruppo, il problema del capo e dell’autorità si porrà anche per questo; e con tanta più acutezza quanto più il gruppo è grande. Non tarderemmo ad arrivare a questo: ad un gruppo che, essendo un’associazione, non può eludere il problema dell’autorità; ad un gruppo che, essendo artificiale (e per questo al di fuori delle associazioni secondo natura e secondo la Rivelazione e la grazia), renderà insolubile il problema dell’autorità. Dei gruppi rivali non tarderanno a nascere. La guerra diventerà inevitabile. E tra i gruppi rivali non esisterà alcun mezzo canonico per porre fine a questa guerra né per guidarla”.
Cara Annarita, ecco che cosa non dobbiamo fare: non pensiamo in grande, lasciamolo fare al Padre Eterno, che lo fa infinitamente meglio di noi. Diamo vita piccole aggregazioni a nostra misura e non curiamoci del successo mondano, non stiamo a contare quante persone portiamo in piazza o nella cabina elettorale: non portiamocele proprio. Una volta presi dal morbo democratico del numero si finisce per ritenere secondario che, quanto più una piazza è gremita, tanto più diminuisce il tasso generale di adesione alle verità.
In questi giorni, un amico mi ha rammentato alcuni passi una splendida opera di Simone Weil che si intitola Manifesto per la soppressione dei partiti politici. Mi pare che siano tragicamente inoppugnabili e applicabili anche al nostro caso:
“Quando in un Paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco. (…) I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità. Ne risulta che – eccezion fatta per un piccolo numero di coincidenze fortuite – vengono decise ed intraprese soltanto misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non si saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso”.
E poi ancora:
“È desiderando la verità a mente sgombra e senza tentare di indovinarne in anticipo il contenuto che si riceve la luce. A questo si riduce l’intero meccanismo dell’attenzione. È impossibile esaminare i problemi spaventosamente complessi della vita pubblica prestando attenzione contemporaneamente da un lato a discernere la verità, la giustizia e il bene pubblico, dall’altro a conservare l’atteggiamento che si conviene a un membro di un certo raggruppamento. La facoltà d’attenzione umana non è capace di rispondere simultaneamente a queste due preoccupazioni. In effetti, chiunque si dedichi a una di esse, abbandona l’altra. Ma nessuna sofferenza attende chi si abbandona alla giustizia e alla verità, mentre il sistema dei partiti comporta le penalità più severe per l’indocilità. Penalità che toccano quasi tutto: carriera, sentimenti, amicizie, reputazione, onore, talvolta addirittura la vita di famiglia. Il partito comunista ha portato questo sistema alla perfezione”.
Ma Simone Weil non fece in tempo a vedere la neochiesa della misericordia, che ha saputo fare di più e meglio rispetto all’orrore comunista. Quello si spingeva sino alla distruzione dei corpi, ma, quanto meno, lasciava intatte le anime. Qui e ora è in gioco molto più che la salvezza terrena, poiché si decide di quella eterna. Come non era possibile salvare l’integrità del proprio corpo e del proprio pensiero entrando anche con riserva mentale nel meccanismo comunista, così non è possibile salvare l’integrità della propria fede e della propria anima esercitando tale riserva per entrare nella pancia del mostro anticristico che padre Calmel chiama falsa Chiesa e pseudo-Chiesa. Tutti coloro che ci hanno provato, pensando di “fare almeno un po’ di bene”, si sono persi. Quando ci si costringe all’ossequio per l’autorità iniqua nell’illusione di rivolgersi solo alla piccola porzione di buono che nonostante tutto permane, si compie un gesto umano che perverte quello spirituale creando abitudine al male.
In questa rubrica ho parlato a lungo di quella che padre Clamel chiama la “vera Messa” e mi limito solo a una considerazione. So che per molti buoni cattolici è difficile e quasi impossibile trovare un luogo in cui frequentarla stabilmente. Ma penso che sia vitale non dare per scontato che, quindi, si vada a quella inventata da Annibale Bugnini per conto di Paolo VI. Se cominci almeno a coltivare la nostalgia per un tesoro che magari non si è neppure mai visto e l’inquietudine per non poterlo contemplare quanto si vorrebbe.
Per finire, la necessità della preghiera, sulla quale lascio la parola a Hugo Ball, uno dei fondatori del dadaismo poi convertito al cattolicesimo. In Cristianesimo bizantino, nella parte dedicata a San Giovanni Climaco scrive:
“La preghiera è aristocrazia della povertà. In essa si tocca tutto ciò che è esclusivo nel cielo e nella terra. Solo colui che qui è emarginato è là benvenuto e solo colui che qui è imprigionato là si libera. Nessun intelletto penetra con uno scopo o un tornaconto in questo luogo santo. La meditazione può infiammare, ma solo la preghiera illumina. Essere assorti nel proprio cuore è già molto. Ma cosa ben diversa è ‘che lo spirito visiti il cuore come un principe vescovo e intanto offra ostie a Cristo, suo ospite’. Allora più nessuna immagine tocca i sensi. Una ‘pia tirannia di Dio’ prende possesso. La preghiera e il pensiero della morte si fondono. Lo scioglimento del dubbio, la rivelazione certa di ciò che è incerto è per Giovanni il segno che siamo esauditi”.
Ecco che cosa possiamo fare, cara Annarita.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
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(2 – fine)
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Pubblichiamo la seconda parte della risposta alla lettera della lettrice Annarita. Per leggere la prima parte della risposta,clicca qui:
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Caro Alessandro Gnocchi,
le scrivo in breve per chiederle: cosa facciamo? La crisi della Chiesa non risparmia nessuno, cadendo il Papa, si brancola nel buio, perché viene a mancare la visibilità della Chiesa e dunque ci si chiede dove è visibile oggi la Chiesa? Il buio è tanto grande che ci si chiede dove stia il nostro Ovile. Io ho un’unica certezza, quella che bisogna salvare la fede e cercare nel proprio piccolo di fare tutti quegli atti possibili per ricostruire dentro la propria famiglia la Città di Dio e partendo da questo piccolo mondo espandere il Regno di Dio, agli amici, sul lavoro, ovunque. Se avessi soldi farei una scuola veramente cattolica, una cappella da dare a quei sacerdoti ai quali non vengono date le chiese, un posto dove ospitare fedeli, dove insegnare ai ragazzi un lavoro, dove fare buone conferenze, trasmettere la dottrina… Ma il Buon Dio pare lasciarci come abbandonati, con le nostre piccole e grandi croci, per farci meritare qualcosa e per farci probabilmente capire che non siamo noi ma è Lui a salvare. Lei, dottor Gnocchi, ci aveva promesso che ci avrebbe detto cosa si può fare in questo panorama disastroso, dove la paglia sembra diventata pesante anche per i più tenaci. Che fare dunque?
La ringrazio, con stima,
Annarita
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Cara Annarita,
alla sua descrizione dello stato in cui versa la Chiesa aggiungo le considerazioni che il domenicano padre Roger Thomas Calmel scriveva nell’aureo volumetto Breve apologia della Chiesa di sempre, meritoriamente pubblicato in Italia dall’Editrice Ichthys:
“La falsa Chiesa, che si rivela a noi a partire dallo strano Vaticano II, si allontana visibilmente, anno dopo anno, dalla Chiesa fondata da Gesù Cristo. La falsa Chiesa postconciliare si distingue sempre di più dalla Santa Chiesa che salva le anime da ormai venti secoli (e per di più illumina e sostiene la società. La pseudo-Chiesa in costruzione si distingue sempre più dalla vera Chiesa, dalla sola Chiesa di Cristo, per le sue strane innovazioni sia nella costituzione gerarchica sia nell’insegnamento e nei costumi”.
Si era negli psichedelici Anni Settanta e regnava Paolo VI, il Papa che legò indissolubilmente il suo nome alla devastazione della liturgia cattolica, alla dismissione della vita contemplativa, all’oscuramento dell’idea tradizione, alla deriva del democratismo cristiano, all’abbraccio appassionato per l’uomo e la sua religione prometeica, all’influenza del peggior Maritain nelle università e nei seminari, alla condiscendenza nei confronti dei preti operai… Se pure qualche tradizionalista di bocca buona oggi è disposto considerare con rimpianto quel pontificato, padre Calmel aveva compreso benissimo quale fosse la china verso cui si stava scendendo precipitosamente. Non aveva ancora assistito alla sostituzione del Corpo Mistico di Nostro Signore Gesù Cristo con il corpo mediatico di Bergoglio, ma già allora, al termine della descrizione citata si chiedeva: “Che fare?”. Era la domanda con cui apriva un paragrafo intitolato eloquentemente “Riedificare bastioni di santità”. Che fare al cospetto di una crisi così profonda dell’autorità, della gerarchia, della dottrina e della morale?
Con una premessa, cara Annarita, comincerei però da che cosa non fare, da quale tentazione evitare. La premessa consiste nella consapevolezza che la Chiesa è di Cristo e ha avuto dal suo fondatore la certezza di conservare fino alla fine del mondo quel tanto di gerarchia personale autentica per mantenere i sacramenti e l’insegnamento dell’unica dottrina di salvezza. La tentazione a cui sfuggire, invece, è quella di immaginare in proprio l’architettura di una Chiesa perfetta anche sul piano umano: finisce sempre per essere a nostra immagine e somiglianza, dunque imperfetta. Abbiamo la certezza che la Chiesa, il Corpo Mistico di Gesù Cristo non morirà, ma non è nostro compito scegliere come si debba presentare ai nostri occhi, i quali, invece, la devono solo riconoscere secondo quanto Nostro Signore ci ha detto una volta per sempre.
Dalla caduta in tale tentazione, che costituisce un errore di metodo, scaturisce l’errore di merito di vagheggiare la restaurazione di una Chiesa che tornasse agli anni prima del Concilio Vaticano II. Quasi che, prima dell’11 ottobre 1962, si vivesse in una sorta di Eldorado poi guastato dai lanzichenecchi calati inaspettatamente dal nord ad abbeverare i loro draghi teologici in San Pietro. Ma la Chiesa del 10 ottobre 1962, cara Annarita, è proprio quella che ha prodotto il Vaticano II e tutto quanto ne è seguito. Se oggi ci appare un mostro anticristico che non riesce comunque a soffocare definitivamente il segno di Cristo, simmetricamente allora si mostrava una gran macchina cattolica minata però dal seme dell’errore che faceva volentieri capolino in certe derive teologiche, in certi innamoramenti filosofici e andava a infettare curie e seminari.
Liberiamoci, dunque, dall’ansia di restaurazione e, soprattutto, di certe restaurazioni. Cerchiamo invece di uscire dal cumulo di macerie in cui la Chiesa è stata ridotta e sforziamoci di mantenere la fede tutta intera. Per il resto, lasciamo fare alla Provvidenza e vedrà, cara Annarita, che, affrontato così, il compito diventerà già più lieve. Che cosa fare, dunque? Ecco una prima indicazione di metodo e merito che ci offre padre Calmel:
“Nonostante la diminuzione progressiva – ma sempre limitata – dell’autorità gerarchica personale e reale, noi tutti, sacerdoti e laici, ognuno per conto nostro, deteniamo una piccola parte d’autorità. Noi sacerdoti abbiamo i poteri di celebrare la vera Messa, di assolvere, di predicare. I genitori, malgrado il totalitarismo statale e la decomposizione della società, non hanno perso ogni potere di formare ed educare i figli che hanno messo al mondo. Si potrebbe fare la stessa constatazione per le scuole e per coloro che ne sono responsabili: sacerdoti, fratelli, religiose o laici. Che il sacerdote fedele, atto a istruire e predicare, assolvere e dire la Messa, usufruisca dunque completamente del suo potere e della sua grazia di predicare e istruire, di perdonare i peccati e di offrire il Sacrificio secondo il rito tradizionale. Che la suora insegnante usufruisca completamente della sua grazia e del suo potere di formare le ragazze nella Fede, nei buoni costumi, nella purezza, nelle belle lettere. Che ogni sacerdote, ogni laico, ogni piccolo gruppo di laici e sacerdoti, che abbiano potere su una piccola roccaforte della Chiesa e della cristianità, usufruiscano completamente delle loro possibilità e del loro potere. Che i capi delle roccaforti, però, i loro occupanti non si ignorino e anzi comunichino tra loro. Che ognuna di queste roccaforti, protetta, difesa, spronata, diretta nella sua preghiera e nei suoi canti da un’autorità reale diventi un bastione di santità: così assicurerà continuità alla vera Chiesa e preparerà efficacemente il rinnovamento per il giorno del Signore”.
Non creda che sia una strada impervia, cara Annarita. Paradossalmente, penso che sia più praticabile oggi che ai tempi di padre Calmel. È più facile che gli uomini si muovano e reagiscano risolutamente quando hanno le spalle al muro invece che quando intravvedono qualche spiraglio rimasto aperto lungo i consueti canali. Ciò che conta, anche qui, è non pensare a grandi agglomerati o a complesse organizzazioni. Non abbiamo la forza per istituirli, ma, soprattutto non è quanto ci viene chiesto e non è quanto riuscirebbe a rimanere fedele al proprio scopo nel tempo. Bisogna formare piccoli gruppi che manifestino l’integrità delle fede di chi vi appartiene attraverso un compito specifico.
“Mi sembra che il mezzo per permettere alla battaglia cristiana di raggiungere la sua massima espansione, evitando i conflitti interni e le rivalità esterne”, dice ancora padre Calmel “sia quello di condurla per piccole unità, che si aiutino se necessario, ma che si rifiutino di far parte di non so quali organizzazioni sistematiche e universali. In queste varie unità, come una modesta scuola, un umile convento, una confraternita di pietà, un piccolo gruppo di famiglie cristiane, un’organizzazione di pellegrinaggi, l’autorità è reale e indiscussa; il problema del capo praticamente non si pone; l’opera si svolgerà precisa. Si tratta solamente di andare fino in fondo alla propria grazia e alla propria autorità nella piccola sfera della quale si ha certamente la responsabilità, tenendosi uniti, senza grandi organizzazioni amministrative, a coloro che fanno la stessa cosa”.
Si può fare, cara Annarita, e glielo posso dire per esperienza personale. Con un gruppo di amici, abbiamo costituito una piccola confraternita che si occupa della formazione cattolica dei componenti attraverso la liturgia, la dottrina e la pietà tradizionali. L’obiettivo non è quello di espandersi acquisendo nuovi aderenti, ma di andare fino in fondo alla nostra grazia nutrendo la nostra fede con cibo sempre più robusto e più buono. Questo, oltre a formare e saldare amicizie cristiane che aiutano a sopravvivere in questo mondo e in questa Chiesa, ha prodotto altre iniziative. Un’associazione che raccoglie fondi per il mutuo soccorso e per famiglie cattoliche in difficoltà, niente di straordinario, ma un segno concreto della fede. Anche la Lega Cattolica per la preghiera di riparazione è nata da qui e, pur essendo conosciuta ben oltre i confini del nostro operare, non ha assunto la forma di una struttura centralizzata per evitare di divenire un carrozzone su cui domina la logica del numero, che non è mai quella della Verità.
E perché non adottare lo stesso criterio, che è quello della fede, per le scuole parentali? Per la formazione religiosa che si potrebbe chiamare catechismo parentale? Per l’organizzazione di vacanze per piccoli gruppi di famiglie? Per l’assistenza ai malati, ai poveri, agli anziani? Cara Annarita, se qualche buon cristiano si riunisse per dedicarsi a una delle opere di misericordia spirituali o corporali, troverebbe mille modi per dare concretezza alla propria fede. Non si deve fare di più. Pensi quanto bene porterebbero all’intero Corpo Mistico tante minuscole aggregazioni di cristiani che esercitassero la misericordia vera e non quella massonica intronizzata a Roma via Buenos Aires.
Magari le sembrerà poco, ma è tutto quello che possiamo fare, anzi è proprio quello che siamo chiamati a fare poiché ne abbiamo la forza e le competenze. Pensi, solo per fare un esempio, alla possibilità di istituire una scuola di catechismo parentale. Bastano un papà o una mamma che abbiano fede e dottrina comprovati e l’assistenza di un sacerdote cattolico: a quel punto si può fare in casa. Ciò che serve veramente è abbattere la paura del sistema di oppressione messo in atto dalla neochiesa della misericordia. Serve coraggio, ma anche conoscenza della realtà. Davanti al ricatto della negazione dei sacramenti, si deve sapere che sarà sempre possibile, e non sarà difficile, trovare sacerdoti cattolici disposti a dare la prima Comunione ai bambini. E la stessa considerazione vale nel caso della Cresima, per la quale non sarà difficile trovare un vescovo o un suo delegato per amministrarla. Lo si fa già cara Annarita. Ci sono genitori cattolici disposti a compiere un po’ di fatica e un gesto di coraggio in più pur di non sottostare alla sacrilega imposizione dei Kommissari-del-popolo-di-Dio di impartire i sacramenti cristiani solo a bambini che professano formalmente una fede non cristiana.
Quello che veramente si deve fare è decidere che con il mostro anticristico non è possibile collaborare. A proposito di questo non si mediterà mai abbastanza su quanto diceva Hanna Arendt: “Abbiamo la responsabilità della nostra obbedienza”. Siamo chiamati scegliere, ma questo non è solo un dovere di questi giorni, l’uomo lo deve fare sempre. Oggi è più urgente, più drammatico e più doloroso poiché il terreno su cui ci si illude di trovare una mediazione onorevole si va sgretolando ed esaurendo. Cosicché, paradossalmente, la scelta, mostrandosi inevitabile, diventa più facile.
Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle, definisce la decisione di opporsi radicalmente alla tirannia della modernità con l’evocativa immagine del “passaggio al bosco”. L’immagine del bosco dà forma al concetto di libertà intimamente radicato nell’essere e, dice Jünger, “è ben diverso dalla semplice opposizione, e non si trova neppure mediante la fuga. (…) Qui sono a disposizione mezzi diversi oltre al semplice ‘no’ da scrivere in una in una determinata casella. (…) Si può anche dire che nel bosco l’uomo dorme. Non appena aprendo gli occhi riconosce il proprio potere, l’ordine è ristabilito. (…) catturati nel gioco di potenti illusioni ottiche, siamo abituati a considerare l’uomo, se confrontato con le sue macchine e con l’arsenale della sua tecnica, un granello di sabbia. Ma queste illusioni sono e rimangono i fondali di una immaginazione gregaria”.
Se si considera che la neochiesa della Casa Comune è ridotta a un dinosauro burocratico che opprime il suo popolo grazie all’arma della blasfema misericordia mondana, cara Annarita, vedrà che queste considerazioni paiono scritte proprio per noi. E vedrà che urge scegliere di agire per il bene, come scrive ancora Jünger quando parla del “nichilismo cristiano che si rende il compito un po’ troppo facile. Non posiamo limitarci a riconoscere il vero e il buono ai piani nobili, mentre in cantina stanno scorticando vivi i nostri confratelli. Non sarebbe lecito neanche se ci trovassimo, spiritualmente intendo, in una posizione non soltanto più sicura ma addirittura superiore – poiché la sofferenza inaudita di milioni di schiavi grida comunque vendetta al cospetto del cielo. Le esalazioni che emanano dagli scorticatoi continuano ad appestarci. Non sono situazioni che si possono aggirare con qualche mezzuccio”.
Ma il bosco, se vogliamo mantenere questo nome per il luogo in cui esercitare fino al fondo la grazia della fede, non è fatto per ospitare i grandi agglomerati. Non può albergare movimenti, partiti e manifestazioni di massa, piccoli o grandi che siano, neanche quando sono frutto di buone intenzioni. Lo spiega con terribile lucidità padre Calmel:
“Penseremo, allora, a costituire un’immensa lega o associazione mondiale di sacerdoti e fedeli cristiani che, essendo diventati degli ‘interlocutori validi’ per la gerarchia ufficiale, l’obbligheranno a riprendere in mano le redini e ristabilire l’ordine? Progetto grandioso, progetto commovente, progetto chimerico. Perché in fin dei conti questo gruppo, che si vorrà di Chiesa ma non sarà né diocesi, né arcidiocesi, né parrocchia, né ordine religioso, questo gruppo sarà artificiale: arte-factum, estraneo ai gruppi reali, stabiliti e riconosciuti. Come per qualsiasi altro gruppo, il problema del capo e dell’autorità si porrà anche per questo; e con tanta più acutezza quanto più il gruppo è grande. Non tarderemmo ad arrivare a questo: ad un gruppo che, essendo un’associazione, non può eludere il problema dell’autorità; ad un gruppo che, essendo artificiale (e per questo al di fuori delle associazioni secondo natura e secondo la Rivelazione e la grazia), renderà insolubile il problema dell’autorità. Dei gruppi rivali non tarderanno a nascere. La guerra diventerà inevitabile. E tra i gruppi rivali non esisterà alcun mezzo canonico per porre fine a questa guerra né per guidarla”.
Cara Annarita, ecco che cosa non dobbiamo fare: non pensiamo in grande, lasciamolo fare al Padre Eterno, che lo fa infinitamente meglio di noi. Diamo vita piccole aggregazioni a nostra misura e non curiamoci del successo mondano, non stiamo a contare quante persone portiamo in piazza o nella cabina elettorale: non portiamocele proprio. Una volta presi dal morbo democratico del numero si finisce per ritenere secondario che, quanto più una piazza è gremita, tanto più diminuisce il tasso generale di adesione alle verità.
In questi giorni, un amico mi ha rammentato alcuni passi una splendida opera di Simone Weil che si intitola Manifesto per la soppressione dei partiti politici. Mi pare che siano tragicamente inoppugnabili e applicabili anche al nostro caso:
“Quando in un Paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco. (…) I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità. Ne risulta che – eccezion fatta per un piccolo numero di coincidenze fortuite – vengono decise ed intraprese soltanto misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non si saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso”.
E poi ancora:
“È desiderando la verità a mente sgombra e senza tentare di indovinarne in anticipo il contenuto che si riceve la luce. A questo si riduce l’intero meccanismo dell’attenzione. È impossibile esaminare i problemi spaventosamente complessi della vita pubblica prestando attenzione contemporaneamente da un lato a discernere la verità, la giustizia e il bene pubblico, dall’altro a conservare l’atteggiamento che si conviene a un membro di un certo raggruppamento. La facoltà d’attenzione umana non è capace di rispondere simultaneamente a queste due preoccupazioni. In effetti, chiunque si dedichi a una di esse, abbandona l’altra. Ma nessuna sofferenza attende chi si abbandona alla giustizia e alla verità, mentre il sistema dei partiti comporta le penalità più severe per l’indocilità. Penalità che toccano quasi tutto: carriera, sentimenti, amicizie, reputazione, onore, talvolta addirittura la vita di famiglia. Il partito comunista ha portato questo sistema alla perfezione”.
Ma Simone Weil non fece in tempo a vedere la neochiesa della misericordia, che ha saputo fare di più e meglio rispetto all’orrore comunista. Quello si spingeva sino alla distruzione dei corpi, ma, quanto meno, lasciava intatte le anime. Qui e ora è in gioco molto più che la salvezza terrena, poiché si decide di quella eterna. Come non era possibile salvare l’integrità del proprio corpo e del proprio pensiero entrando anche con riserva mentale nel meccanismo comunista, così non è possibile salvare l’integrità della propria fede e della propria anima esercitando tale riserva per entrare nella pancia del mostro anticristico che padre Calmel chiama falsa Chiesa e pseudo-Chiesa. Tutti coloro che ci hanno provato, pensando di “fare almeno un po’ di bene”, si sono persi. Quando ci si costringe all’ossequio per l’autorità iniqua nell’illusione di rivolgersi solo alla piccola porzione di buono che nonostante tutto permane, si compie un gesto umano che perverte quello spirituale creando abitudine al male.
In questa rubrica ho parlato a lungo di quella che padre Clamel chiama la “vera Messa” e mi limito solo a una considerazione. So che per molti buoni cattolici è difficile e quasi impossibile trovare un luogo in cui frequentarla stabilmente. Ma penso che sia vitale non dare per scontato che, quindi, si vada a quella inventata da Annibale Bugnini per conto di Paolo VI. Se cominci almeno a coltivare la nostalgia per un tesoro che magari non si è neppure mai visto e l’inquietudine per non poterlo contemplare quanto si vorrebbe.
Per finire, la necessità della preghiera, sulla quale lascio la parola a Hugo Ball, uno dei fondatori del dadaismo poi convertito al cattolicesimo. In Cristianesimo bizantino, nella parte dedicata a San Giovanni Climaco scrive:
“La preghiera è aristocrazia della povertà. In essa si tocca tutto ciò che è esclusivo nel cielo e nella terra. Solo colui che qui è emarginato è là benvenuto e solo colui che qui è imprigionato là si libera. Nessun intelletto penetra con uno scopo o un tornaconto in questo luogo santo. La meditazione può infiammare, ma solo la preghiera illumina. Essere assorti nel proprio cuore è già molto. Ma cosa ben diversa è ‘che lo spirito visiti il cuore come un principe vescovo e intanto offra ostie a Cristo, suo ospite’. Allora più nessuna immagine tocca i sensi. Una ‘pia tirannia di Dio’ prende possesso. La preghiera e il pensiero della morte si fondono. Lo scioglimento del dubbio, la rivelazione certa di ciò che è incerto è per Giovanni il segno che siamo esauditi”.
Ecco che cosa possiamo fare, cara Annarita.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
.
(2 – fine)
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