Considerazioni sulla pratica delle Benedizioni e sul Culto delle Reliquie
Tacciate di “idolatria” nel mondo protestante, ridicolizzate dal materialismo scientista, incomprese e quindi marginalizzate anche da larga parte del clero cattolico, ridotte a reale “superstizione” da parte di certo devozionalismo religioso, il Culto delle Reliquie e la pratica delle Benedizioni rispondono al contrario a leggi di tipo “sottile” che, se comprese, permettono di inquadrarne la reale importanza e il giusto significato.
LA MATERIA E’ MOLTO PIU’ CHE “MATERIALITA’”
Riguardo al Culto delle Reliquie e alla pratica delle Benedizioni, peraltro, quello che appare più incomprensibile agli occhi dell’uomo moderno è soprattutto l’idea che la “materia” (sia essa un oggetto o le parti del corpo di un santo defunto o una particolare sostanza che viene “benedetta”, ecc.) possa avere la capacità di veicolare un “influsso spirituale”. E in effetti –almeno da Cartesio in poi- agli occhi dell’uomo moderno la materia appare come qualcosa di inerte e inanimato, del tutto separata dallo Spirito e, per così dire, “autosufficiente” e chiusa in se stessa. Nelle civiltà tradizionali e ispirate al sacro, al contrario, quello che noi moderni chiamiamo materia –ma che sarebbe meglio definire come l’aspetto “grossolano” e manifesto della realtà- non è affatto vista una dimensione “separata e autosufficiente” del creato, ma solo come un suo aspetto esteriore, che purtuttavia rimane sempre legato alla Realtà totale attraverso stati e passaggi differenti –oltre alla dimensione “fisica” e grossolana e a quella puramente Spirituale, vi è anche una dimensione intermedia, psichica e “sottile” che, in certo modo, fa da ponte fra le due.
La cosiddetta “materia”, dunque, è davvero molto più di quello che suppongono i moderni e, in determinati casi, può assumere sembianze e caratteristiche ben diverse da quelle a cui siamo abituati (lo stesso dogma monoteista della Resurrezione dei Corpi, implica necessariamente che la materia, sotto l’effetto dello Spirito, possa essere “glorificata” e “trasfigurata”).
Tale prospettiva, non solo rende intellegibili le cause di innumerevoli fenomeni che i moderni definiscono, in mancanza di termini più adatti, come “paranormali”, ma apre anche alla comprensione di pratiche e culti religiosi che proprio l’incomprensione ha fatto cadere nel disprezzo o nell’abuso.
Per molti sacerdoti cattolici moderni, cresciuti in contesti culturali protestantizzati e secolarizzati, la pratica delle Benedizioni –quando ancora non viene rifiutata decisamente- è ridotta al più ad una metafora, ad un “segno” dal valore puramente metaforico e soprattutto privo di qualsiasi effetto reale. In realtà, innumerevoli vicende realmente accadute che hanno come “protagonisti” oggetti benedetti –sia nelle storie dei santi che negli scenari di esorcismi, che nella stessa esperienza di vita di milioni di fedeli- dimostra a fortiori come il valore delle Benedizioni impartite sugli oggetti sia tutt’altro che “metaforico”.
Nella tradizione cristiano-ortodossa, per spiegare il cambiamento ontologico che avviene in un oggetto “benedetto”, si parla letteralmente di “materia noumenizzata”, ovvero di materia trasfigurata dalla Benedizione e resa, per così dire, trasparente e permeabile agli “influssi spirituali”.
SUL CULTO DELLE RELIQUIE
Un discorso analogo, ma per certi versi più complesso, può esser fatto riguardo il Culto delle Reliquie. Qui, in particolare, siamo di fronte ad oggetti o a parti del corpo appartenuti ad un Santo, attraverso i quali sembra prolungarsi un influsso spirituale strettamente legato all’Essere che li ha posseduti.
Sempre rimanendo alla tradizione cristiano-ortodossa, il culto delle reliquie è compreso a partire dalla realtà teantropica (divino-umana) e dalla partecipazione dello stesso corpo del santo alle “energie increate” divine. In questo senso, non solo l’anima ma lo stesso corpo sono “divinizzati” e trasfigurati a partire da alcuni “centri sottili” che sono, del resto, gli stessi che vengono segnati durante il Rito dell’Illuminazione (Battesimo, Cresima e Comunione ) con il sacro myron. Tali “centri sottili” sono i punti da dove, per azione dello Spirito Santo, agiscono le Energie Increate nel processo di trasfigurazione di tutto l’essere. Al pari delle Icone –che non sono affatto “quadri” di soggetto sacro, ma vere e proprie “finestre” sul mondo divino- anche il corpo dei santi assume pertanto questa caratteristica, divenendo veicolo di benedizione e di grazie anche dopo il trapasso.
In un’altra prospettiva, e riferendoci alla tradizione biblica ed ebraica, è nota inoltre l’idea che, al momento della morte di un individuo, certi “elementi” psichici e sottili rimangano legati ai resti corporei. Questi elementi, che non hanno direttamente a che fare con l’anima superiore (ruach) ma con quella parte della dimensione sottile più legata al corpo (nefesh), sono definiti nella Tradizione Ebraica come habal de garbin, letteralmente “il respiro delle ossa” (nel testo biblico vengono indicati come ob, plurale obòt). Si tratta di una sorta di “ombra” che non è identificabile con l’anima imperitura, ma che può considerarsi come una specie “doppio” sottile destinato a dissolversi presto o tardi insieme al corpo, secondo un’idea che si ritrova in forma identica anche presso altre tradizioni come quella egizia o indù[1].
L’esistenza di questi “residui psichici”, il cui contatto è considerato solitamente pericoloso –donde le tradizionali regole ebraiche sull’impurità dei cadaveri, del sangue umano e animale, ecc.- spiegano, peraltro, quale sia la vera natura di certi fenomeni che sbalordiscono i nostri contemporanei, quali i presunti “messaggi” postumi ricevuti mediante “sedute spiritiche”, i sedicenti “ricordi” di vite passate che sembrano affiorare alla coscienza di determinati individui, o persino alcuni strani fenomeni riscontrati dalla scienza medica, per i quali, a seguito di trasfusioni o trapianti, certi pazienti sembrerebbero aver assunto “ricordi” appartenenti ai propri donatori[2].
Tuttavia, quando sono appartenuti ad un santo, tali “residui” sottili sono essi stessi santificati e trasfigurati, divenendo “veicoli” di influssi spirituali. Per tale motivo, le reliquie dei santi diventano realmente, per quanto è possibile, dei veri e propri “ponti” che legano questo mondo alla Personalità imperitura e trascendente del Santo, il quale a sua volta è divenuto perfetta Immagine di Dio e dispensatore delle Sue grazie. .
Del resto, anche nel caso delle Reliquie, il Cristianesimo riprende e in certo modo “glorifica” una conoscenza di carattere universale condivisa nei millenni da tutte le culture tradizionali. Come spiega Titus Burkhardt, in un passaggio che vogliamo riportare integralmente, già“l’uso di coprire con una maschera il volto di un morto (…) nel senso originario di questa usanza doveva però essere il medesimo ovunque. Con la sua forma simbolica – talvolta simile a quella del Sole – questa maschera rappresentava il prototipo spirituale in cui si riteneva che il morto dovesse integrarsi. Si considera generalmente la maschera che copre i volti delle mummie egiziane come un ritratto stilizzato del defunto; ma ciò è vero solo in parte benché questa maschera divenga realmente, verso la fine del mondo egiziano e per l’influsso dell’arte greco-romana, un vero e proprio ritratto funebre. Prima di questa decadenza, la maschera non mostra il defunto come egli era, ma come sarebbe dovuto diventare: è un volto umano che si avvicina in qualche modo alla forma immutabile e luminosa degli astri. Ora, questa maschera svolge un ruolo ben determinato nell’evoluzione postuma dell’anima: secondo la dottrina egiziana, la modalità sottile inferiore dell’uomo, quella che gli Ebrei chiamano il «soffio delle ossa» e che si dissolve di norma dopo la morte, può essere trattenuta è fissata dalla forma sacra della mummia. Questa forma – o questa maschera – svolgerà dunque, in rapporto a questo insieme di forze sottili diffuse e centrifughe, il ruolo di un principio formale: essa sublimerà questo «soffio» e lo fisserà, facendone un legame fra questo mondo e l’anima stessa del defunto, un «ponte» attraverso il quale gli incantesimi e le offerte dei vivi raggiungeranno l’anima, e la benedizione del defunto potrà raggiungere i vivi. Questa fissazione del «soffio delle ossa», d’altronde, si produce spontaneamente alla morte di un santo, e da questo ha origine la virtù specifica delle reliquie. Nell’uomo che ha raggiunto la santità, la modalità psichica inferiore, o la coscienza corporea, è già stata trasformata nel corso della sua esistenza terrena: essa è diventata veicolo di una presenza spirituale, che verrà fissata alle reliquie ed alla tomba del santo” (Da «La maschera sacra e altri saggi»).
[1] Nella tradizione indù, tali elementi sono indicati col termine preta; nella tradizione egizia, questa sorta di “anima inferiore” destinata a rimanere legata ai resti cadaverici è detta ka, mentre l’anima superiore –identificata col Cuore e che dopo la morte è sottoposta al giudizio divino- è detta ba.
[2] Un caso piuttosto noto di “memoria ereditata” attraverso un trapianto di cuore è quello di Claire Sylvia:https://wellthiness.wordpress.com/2011/10/18/claire-sylvia-il-cuore-trapiantato-le-danno-abitudini-e-gusti-del-donatore/. Inutile dire come tali fenomeni siano assolutamente inspiegabili in un’ottica scientista ma sia comprensibili, al contrario, alla luce delle scienze sacre tradizionali.
http://www.gianlucamarletta.it/wordpress/2016/06/benedizioni-reliquie/
NEMESI DI UN'AUTODISTRUZIONE
L’uomo non separi ciò che Dio ha unito. L’autodistruzione della società è incominciata dal divorzio. La famiglia naturale formata da un uomo, una donna e dei bambini è sotto attacco e l’utero in affitto è il colpo grazia finale di Francesco Lamendola
Ci si lamenta del fatto che la nostra società si sta sfilacciando, si sta disgregando, si sta autodistruggendo; che gli adulti non sono più capaci di offrire ai bambini e ai giovani un modello di vita credibile, che hanno perso prestigio e autorevolezza; che ciascuno insegue i propri desideri e i propri comodi, o come oggi si usa dire, “i propri sogni”, nella più totale indifferenza nei confronti di quel che gli altri pensano, sentono, credono, di quel che sperano, di ciò che legittimamente si aspetterebbero da lui; ma non si ha il fegato, o piuttosto la coerenza, di farsi un serio esame di coscienza ed una severa, ma giusta, autocritica.
Si dà la colpa del degrado sociale all’economia, alla finanza, alla politica, alla scuola, al terrorismo, alla cattiva informazione, alla droga, ai preti, alla criminalità diffusa, al cambiamento climatico, e Dio sa a quali altre cause; ma non si vuol vedere che tutto ha origine dalla guerra spietata che poteri nascosti e terribili, servendosi della imbecillità o della perversione dei cosiddetti intellettuali, sta conducendo ormai da tempo contro il fondamento stesso della società: la famiglia; la società essenziale, primaria, indispensabile, senza la quale nessun’altra società esisterebbe, nessun’altra società sarebbe possibile, credibile, desiderabile.
La famiglia – la famiglia naturale: formata da un uomo, una donna e dei bambini – è sotto attacco; e le recenti decisioni legislative dei principali Paesi occidentali, in fatto di equiparazione alla famiglia delle cosiddette unioni omosessuali, con la possibilità di adottare dei bambini, o di ottenerli mediante pratiche quali la fecondazione eterologa o l’utero in affitto, non sono che l’ultimo colpo, il colpo grazia, di una guerra che parte da lontano, che è stata accuratamente pianificata, e che non è stata riconosciuta per tempo da chi avrebbe dovuto capire quel che stava succedendo, correre ai ripari, mobilitare la parte sana della cultura e della società.
Tutto è cominciato con l’introduzione del matrimonio civile e, successivamente, con l’approvazione della legge sul divorzio. Il matrimonio civile riduce il matrimonio a un contratto come qualsiasi altro, basato sull’interesse e sulla convenienza; era perfettamente logico che, una volta sottratto il matrimonio alla sfera del sacro, una volta eliminata la presenza del divino, si introducesse la reversibilità di un tale contratto: qualora vengano meno le condizioni iniziali, perché non si dovrebbe poterlo rescindere, come qualunque altro? Una volta che venga a cadere l’idea che ci si sposa in tre: l’uomo, la donna e Dio, e la si sostituisce con la prassi di una unione a due, uomo e donna, senza alcuna giustizia superiore, senza alcun principio soprannaturale, senza la Grazia che infonde negli sposi la forza e la costanza per continuare ad amarsi e a rispettarsi in mezzo a qualsiasi difficoltà, è logico e inevitabile che si guardi al matrimonio come a una operazione puramente umana, limitata, contingente, il cui consenso può venire ritirato in qualsiasi momento. I casi sono due: o il matrimonio è un impegno che si prende, per la vita, davanti a Dio, oppure è un normalissimo contratto che si firma davanti al sindaco; nel primo caso ha un carattere sacro e indissolubile, come lo sono tutti gli altri sacramenti; nel secondo, è un atto profano, che non impegna per sempre, né sino in fondo. Impegna fino a dove arriva la buona volontà di ciascuno dei due contraenti; e, dove questa finisce, finisce anche il contratto.
Il cosiddetto matrimonio omosessuale non è che il logico coronamento di questa prospettiva. Una volta che il matrimonio sia degradato a contratto civile, effettivamente non si vede perché ciascuno non possa ritenersi libero di sposare chiunque: fosse pure il proprio cane, come ha fatto un ragazzo australiano di vent’anni, tale Joseph Guiso. I figli, poi; altro che benedizione: diventano un peso e un fastidio per le coppie che non ne vogliono avere; viceversa, un diritto da esigere e da riscuotere ad ogni costo, per quelle che assolutamente li vogliono. Anche a costo di ricorrere alla fecondazione eterologa o alla pratica dell’utero in affitto. L’aborto legalizzato rientra logicamente in questo quadro. Se tutte le relazioni umane sono basate sui diritti della persona, allora è chiaro che esiste non solo il diritto ad avere un figlio, ma anche quello di non averlo: vale a dire, di sopprimere l’embrione nell’utero materno. La stessa società che legalizza l’aborto, e che pratica migliaia e milioni di aborti, stabilisce che nessuno ha il diritto di negare ad alcuno il diritto d’essere genitore: né a una donna di sessant’anni, né a una persona con gravi disturbi psichici o con problemi di tossicodipendenza, né a una coppia omosessuale. Non fa una grinza: c’è una logica, eccome; la contraddizione è solo apparente, è solo per chi non condivide la premessa, l’assoluta priorità dei diritti rispetto ai doveri, agli impegni e alle responsabilità: cioè solo per chi rimane penosamente aggrappato a una concezione della vita ormai sorpassata e anacronistica.
La cosa più triste è vedere come una parte considerevole dei cosiddetti cattolici, e perfino del clero, non trovino in tutto questo nulla di particolarmente strano, nulla di moralmente riprovevole; eppure, si era capito da molto tempo che la tendenza era questa, non solo nella società profana, ma anche nella comunità cristiana. In Italia, l’approvazione della legge 898 sul divorzio, detta legge Fortuna-Baslini, da parte del parlamento, il 1° dicembre 1970, e la sua successiva conferma in seguito all’esito del referendum abrogativo del 12 maggio 1974, ha dimostrato come la pensavano non solo i laici, ma anche moltissimi cattolici. Non si spiega diversamente quel 59,3% di “no” contro il 40,7% di “sì”, se non ammettendo che molti cattolici votarono come gli elettori dei partiti laici. Ancora più significativa è stata l’approvazione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, in Parlamento, il 22 maggio 1978, confermata dalla consultazione referendaria del 17 maggio 1981. In quel caso, i voti favorevoli all’abrogazione della legge furono appena il 14,88%, contro uno schiacciante 85,12% di “no”.
Un osservatore un po’ distratto avrebbe potuto rimanere sorpreso, se non dal risultato, dalle percentuali: sarebbe stato più “logico”, almeno in teoria, che, su una questione come quella dell’aborto, i cattolici si sentissero più vincolati dall’insegnamento della Chiesa, e soprattutto dalla loro stessa cultura e sensibilità, di quanto non avessero dimostrato all’epoca del referendum sul divorzio: perché interrompere volontariamente una gravidanza indesiderata, senza alcuna particolare motivazione di ordine medico, è certamente, da un punto di vista etico, una decisione più grave che non quella di rompere l’unione matrimoniale; qui non c’è in ballo solo un principio e uno stile di vita, ma la sopravvivenza del nascituro. Invece l’esito del referendum sull’aborto fu addirittura plebiscitario, mentre quello sul divorzio era stato tutt’altro che scontato, e la vittoria dei “no” era stata contenuta entro neppure una decina di punti percentuali di scarto. Questo avrebbe dovuto far riflettere; ma, a ben guardare, non si era trattato di un esito totalmente imprevedibile. Una volta che la diga sia stata incrinata, è anzi logico che il cedimento strutturale coinvolga sempre più la tenuta complessiva di essa; si tratta di rompere un tabù, di infrangere una regola, di smentire un magistero, quello della Chiesa – e ciò mentre le correnti cattoliche progressiste e moderniste seguitavano a parlare di sempre nuove mete da raggiungere, di sempre nuovi orizzonti da aprire, nello “spirito” del Concilio Vaticano II. Diciamo la verità: siamo certi che tutti i preti e i vescovi si siano impegnati a fondo, all’epoca del referendum abrogativo del 1974? O non hanno forse subito, molti di essi, la pressione della “base”, che disapprovava la “rigidità” del Magistero (a dispetto della Humanae vitae di Paolo VI, del 1968), e il ricatto psicologico e culturale di poter essere giudicati retrogradi e oscurantisti, impregnati di clericalismo, non abbastanza emancipati e “laici”, al punto da voler mettere i bastoni fra le ruote della volontà del popolo sovrano? Ebbene, il referendum sul divorzio fu la premessa di quello sull’aborto: fu la breccia che incrina la solidità della diga e ne prepara il crollo totale. Tutto quel che è accaduto in seguito, e che sta accadendo ora, sotto i nostri occhi, non è che l’ulteriore svolgimento logico di quelle premesse. E lo è anche l’approvazione delle unioni di fatto equiparate al matrimonio; anche la legalizzazione delle unioni omosessuali; anche – in un domani ormai non lontano – la liberalizzazione della fecondazione eterologa per le coppie lesbiche e dell’utero in affitto a vantaggio delle coppie di omosessuali maschi, oltre che per le coppie eterosessuali che non possono aver figli, ma non intendono avviare le pratiche per ottenere l’adozione, poiché vogliono un figlio che sia proprio tutto “loro”, come un bel giocattolo privato.
Divorzio e aborto sono stati due colpi mortali inferti alla famiglia: il primo ha ufficializzato l’idea che il matrimonio è solo un contratto di tipo commerciale, basato sulla convenienza e destinato a durare fin che se ne abbia voglia, e non un giorno di più; il secondo, ha ufficializzato l’idea che i figli non sono un dono che qualcuno fa ai genitori (Dio, per il credente; la natura, per gli altri), ma un diritto, che si può accettare o rifiutare: nel secondo caso, scatta automaticamente il diritto a sopprimere il nascituro, purché ciò avvenga entro un termine di tempo stabilito per legge. È lo Stato che decide fino a quante settimane il feto è solo una “cosa” inerte e priva di diritti, a cominciare dal più fondamentale di tutti, il diritto alla vita; e dopo quante settimane, invece, quella “cosa” diventa un “individuo”, a sua volta tutelato dalla legge. È lo Stato che stabilisce la differenza fra una normale pratica “sanitaria” e un assassinio: e lo fa guardando il calendario e contando il numero dei giorni da che l’embrione si è formato.
Il fatto che i cattolici non parlino nemmeno più della cosa; che i politici cattolici non sollevino mai la questione, né in Parlamento, né fuori; che gli intellettuali cattolici lo ricordino assai di rado, e sempre con i toni bassi e timidi di chi teme di scocciare e infastidire il prossimo, e non si sente troppo sicuro del suo buon diritto ad alzare la voce: tutto questo la dice lunga su fino a che punto essi abbiano subito il condizionamento della cultura laicista, materialista, edonista e radicale. Non osano più dire apertamente come la pensano, non osano esprimere il loro dissenso; e non è lontano il momento in cui il Parlamento voterà una legge per sanzionare i medici e le infermiere che ricorrono all’istituto giuridico dell’obiezione di coscienza, per “interruzione di servizio pubblico”, con grave danno della salute del paziente. Rischieranno una multa, o una ritorsione professionale; rischieranno di perdere il posto di lavoro. Ma i cattolici, in politica e fuori della politica, hanno altro a cui pensare. Si preoccupano di mille cose: dei diritti dei “profughi” (pur sapendo benissimo che neanche il 10% degli immigrati clandestini sono tali), delle donne prete, della comunione ai divorziati e ai risposati, delle coppie omosessuali, del loro desiderio di maternità e paternità tramite le adozioni; si commuovono per il degrado dell’ambiente, per i progressi dell’inquinamento, per i diritti degli animali (tutte cose importanti, beninteso, queste ultime; ma, forse, non altrettanto importanti), e tacciono ormai del tutto sull’aborto. Anche se le cifre delle donne che vi fanno ricorso sono sempre altissime, a dispetto delle previsioni e delle promesse degli abortisti, i quali, negli anni Settanta del secolo scorso, preconizzavano una rapida scomparsa del fenomeno, una volta che fosse stata eliminata la piaga degli aborti clandestini.
Ma tutto, ripetiamo, è cominciato col divorzio. Gesù, interrogato su questo punto - e interrogato in mala fede, dai soliti rabbini e farisei che speravano di coglierlo in fallo, come già avevano fatto chiedendogli di esprimersi a proposito del tributo a Cesare – aveva risposto: l’uomo non separi ciò che Dio ha unito. E aveva scontentato tutti: sia quelli che, in base alla legge mosaica, speravano di rendere il divorzio più facile, sia quelli che speravano di restringerne la pratica. Ma Gesù si espresse contro il divorzio, sempre e in qualsiasi caso: l’uomo e la donna, una volta uniti in matrimonio, diventano una carne sola. Questo precetto può piacere o non piacere, ma, per un vero cattolico, è logico e assolutamente vincolante; non ammette deroghe, né furberie da quattro soldi, come l’appellarsi al tribunale della Sacra Rota per far annullare un matrimonio che era stato, in moltissimi casi, perfettamente valido sotto ogni punto di vista. Certo, sappiamo bene che l’indissolubilità del matrimonio suscita una certa soggezione, un certo timore, anche fra i credenti; così come sappiamo che vi sono sposi messi duramente alla prova dalle vicende del loro matrimonio. Essi, però, si sono giurati reciproca fedeltà e unione per tutta la vita, e l’hanno fatto davanti a Dio: e un cristiano serio non tenta di prendere in giro Dio. Non lo sfiora nemmeno il pensiero. A Dio, non la si fa.
D’altra parte, una volta che la legge abbia equiparato una unione di fatto all’unione matrimoniale sacra e indissolubile, è evidente che molti giovani si domandano perché mai dovrebbero prendersi, a parità di diritti, anche un dovere così oneroso, come quello dell’indissolubilità. Però, se si fanno questa domanda, significa che hanno già subito il contagio del mondo: e che non sono più cristiani...
L’autodistruzione della società è incominciata dal divorzio
di Francesco Lamendola
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