CAMBIARE IL PADRE NOSTRO ?
Vogliono cambiare anche il Padre nostro perché vorrebbero cambiare il Vangelo. E' davvero un mistero abissale: come può Dio amarci cattivi come siamo? una sola cosa ci chiede e dobbiamo farla da soli di aver fede in Lui
di Francesco Lamendola
Sarebbe curioso, e, per certi aspetti, quasi esilarante, se non fosse soprattutto deprimente, osservare con quanta cura e con quanto zelo i cattolici politicamente corretti, progressisti, modernisti, ecumenisti, dialoganti, vaticansecondisti, si stiano affannando a rimuovere tutto ciò che può fare problema dal loro punto di vista, da tutto ciò che rappresenta la Tradizione e quindi, secondo loro, un ostacolo al loro ardente desiderio di apertura e alla loro commovente volontà di dialogare con tutti, fino ad assumere le loro posizioni e ad accettare senza riserve le ragioni degli altri, quali che esse siano: di tutti gli altri, ma proprio tutti; tranne, si capisce, i cattolici "tradizionalisti", meritevoli solo di compatimento o disprezzo.
Una delle pietre d'inciampo più fastidiose, ovviamente, è data dalla "cattiva" traduzione delle Scritture. Delle due fonti della Rivelazione, la Tradizione e le Scritture, la prima non l'hanno abolita (di nome), ma solo "attualizzata”: l'hanno trattata come tradizione con la "t" minuscola, come una cosa puramente umana, dunque modificabile nel tempo, secondo le opportunità (decise da loro, beninteso); per la seconda, hanno mobilitato tute le risorse filologiche possibili e immaginabili, e anche qualcuna di più, allo scopo di modificarla in maniera surrettizia, in apparenza senza toccare nulla di sostanziale, anzi, con la scusa di "migliorarla" (senza neppure cogliere il significato blasfemo di un simile concetto),ma, in realtà, per cambiare ogni cosa, un poco alla volta.
Uno degli esempi più chiari ed evidenti è la nuova traduzione, voluta dalla Chiesa, niente di meno che della preghiera fondamentale dei cristiani: il Padre Nostro. Per duemila anni, i cristiani l'hanno recitato come ci era stato insegnato da bambini; ma ora sono arrivati i cattolici progressisti, i teologi modernisti alla Enzo Bianchi, e hanno scoperto quel che era sfuggito ai Padri della Chiesa, a 266 papi legittimamente eletti, a una ventina di concili ecumenici e a qualche migliaio di cardinali, vescovi e abati, oltre che a milioni e milioni di religiosi e fedeli laici: e cioè che la "vecchia" traduzione dal greco è sbagliata, o, quanto meno, gravemente inesatta, e che essa, pertanto, potrebbe provocare turbamento, disagio, imbarazzo, ai cuori semplici dei bravi cattolici. La frase incriminata è la seguente: e non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Apriti cielo! Dio non può fare una cosa del genere; e domandargli di non farla, è già una bestemmia. Come potrebbe Dio Padre, che è amore e soltanto amore, anche solo essere "sospettato" di volerci indurre in tentazione? E senza aver domandato il permesso al falso prete Enzo Bianchi, poi! Inaudito, inconcepibile!
Ed ecco uno stuolo di zelanti biblisti, esegeti, teologi, tutti rigorosamente aperti, dialoganti, gioiosamente proiettati nello "spirito" del Concilio Vaticano II (che, ovviamente, non ritengono essere stato attuato sino in fondo, inconveniente cui si sentono chiamati a rimediare), scatenarsi e sbizzarrirsi nel fornire una traduzione "migliore" di quel verbo, "indurre" - eisphérein, il quale diventa inducere nella traduzione di San Girolamo - che crea tanto disagio nei loro sensibili cuori. Ed ecco che si moltiplicano le parafrasi alternative: non ci mettere in condizione di essere tentati (da qualcun altro, è chiaro); non permettere che siamo tentati; non abbandonarci alla tentazione; non lasciarci soccombere; oppure, cambiando proprio il senso della frase, non abbandonarci al Maligno. Alla fine, la Conferenza Episcopale Italiana si è decisa per non abbandonarci alla tentazione. Certo che siamo dei cristiani fortunati, noi uomini del terzo millennio; abbiamo quel che i nostri genitori e i nostri avi non possedevano: uno stuolo di esperti e di specialisti bravissimi, capaci di restituire al Vangelo di Gesù le parole da Lui veramente pronunciate; fortuna che decine di generazioni non hanno avuto, per cui esse hanno seguitato a recitare un Padre nostro sbagliato, inattendibile, addirittura blasfemo. Perché Dio, si sa, non induce nessuno in tentazione: come sta scritto anche nella Lettera di Giacomo (1, 13), in quel passo che i bravi teologi moderni si affrettano a citare ogni volta che si parla di queste cose, per dimostrare come il concetto stesso di un Dio tentatore sia assurdo e non cristiano.
E invece no. Quei signori si sono scordati di una cosa essenziale (oltre che di parecchie cose meno essenziali, ma pur sempre importantissime, come la modestia intellettuale, l'umiltà, il senso del limite): che non vi è corrispondenza fra la mente dell'uomo e la sapienza di Dio; fra ciò che, della Verità, l'uomo può arrivare a comprendere, e la Verità in se stessa; fra i sentieri dell'uomo e le strade di Dio. E non se la sono scordata per caso: se la sono scordata a forza di voler abolire la distanza fra Dio e l'uomo, a forza di voler portare il Vangelo sullo stesso livello di esperienza del "mondo": dunque, per un peccato di superbia. Lo stesso peccato di Adamo ed Eva: il Peccato originale. Adesso tutti costoro, per voler essere simili a Dio, stanno cercando, da più di mezzo secolo, di abbassare Dio al livello umano. Ma Dio si è già abbassato da se stesso: si è incarnato, si è fatto uomo, si è lasciato sputacchiare, coronare di spine, flagellare, crocifiggere, trapassare con una lancia, quando era già morto, o morente. Poi è risorto ed è tornato al Padre, e ci ha mandato lo Spirito santo. Non sta a noi abbassarlo più di così; non sta a noi abbassare il contenuto di verità delle sue parole. Lui ha già parlato, e gli evangelisti hanno trascritto le sue parole, e la comunione dei santi le ha ripetute, nella preghiera, per circa due millenni. Se Gesù ha insegnato a recitare le parole: e non indurci in tentazione, vuol dire che dobbiamo farcene una ragione, che dobbiamo riflettere su di esse, ma senza pretendere di cambiarle, aggiornarle, chiarirle, migliorarle. Il fatto è che costoro vorrebbero togliere lo scandalo dal Vangelo e dalla Bibbia: vorrebbero togliere tutto ciò che fa problema alla loro mentalità moderna e "misericordiosa" (cioè alla loro maniera moderna d'intendere il concetto di "misericordia"), a cominciare dai miracoli e dal soprannaturale. Sono cattolici adulti e vaccinati, costoro, mica bambini! Non è possibile pretendere che si bevano le favolette sugli angeli e sui diavoli, della pesca miracolosa e della moltiplicazione dei pani e dei pesci: è ovvio che deve esistere una spiegazione perfettamente razionale di quei fatti, ed è ovvio che un cristiano "adulto" la deve trovare e vi si deve attenere.
Per esempio: come si fa ad ammettere che Dio abbia realmente chiesto ad Abramo di andare sul Monte Moria e sacrificargli il suo unico figlio Isacco, avuto quando ormai non sperava più di averlo, e sul quale si concentravano tutte le aspettative del vecchio padre? Solo i teologi del passato, come Kierkegaard, leggevano quell'episodio in senso letterale; ma i teologi moderni, di certo, non possono. Non possono e non devono. Dio non può aver chiesto una cosa simile, essi dicono. Se il senso della Bibbia dà scandalo, allora si cambia quel senso, e oplà, il gioco è fatto. Via il "timore e tremore" davanti a Dio: Dio, si sa, è un amicone, un compagnone: perché si vorrebbe farne uno spauracchio? Quanto alla misericordia, essi pretendono che Dio la intenda come la intendono loro: e cioè staccata dalla giustizia. Ma questo non è possibile. Senza giustizia, la misericordia diventa perdono all'ingrosso, liquidazione della bontà divina, come gli scampoli di magazzino che vengono svenduti a fine stagione. Diventa buonismo: e il buonismo non è una bontà spinta all'estremo, ma la negazione della bontà: perché la bontà, se si accompagna alla negazione del male, si rovescia nel suo contrario. Come minimo, diventa complicità col male: è complice del male chi nega che il male ci sia. Dio non è buonista; non lo è stato Gesù Cristo, nemmeno mentre, inchiodato sulla croce, pregava: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Non negava la realtà del male: chiedeva perdono per i malvagi. La misericordia di Dio si rivolge a tutti gli uomini, ma non a quelli che la rifiutano, che la disprezzano, che peccano contro lo Spirito santo. Per costoro non c'è misericordia possibile: se ci fosse, sarebbe contraddetta la giustizia di Dio. E non parliamo della "giustizia" nel senso vendicativo, della sanzione da infliggere ai peccatori; parliamo della "giustizia" come rispetto della libertà dell'uomo. Se l'uomo è libero, può scegliere se dire di sì a Dio, o se dire di no; può scegliere fra il bene e il male. Se Dio perdonasse anche a coloro che rifiutano di essere perdonati, non rispetterebbe la loro libertà: la libertà di rifiutarlo. Dio non trascina in Paradiso le anime controvoglia; non fa violenza alle anime perché ricevano il premio. Il premio, infatti, è la comunione con Dio: ed esso, per le anime che rifiutano Dio, sarebbe un castigo. E forse è proprio così, ma in un senso ben diverso, anzi, opposto a quello immaginato dai teologi buonisti: per le anime malvagie, che hanno rifiutato Dio, l'Inferno è il rovescio del Paradiso: è il supplizio di ciò che invece, per le anime buone, si manifesta come beatitudine.
E adesso torniamo al Padre nostro. Le parole non indurci in tentazione, chiarissime nel testo greco del Vangelo, non ammettono trucchi, furberie o manipolazioni: sono fin troppo esplicite. Vanno accettate, e vanno accettate con fede e umiltà, come tutto il resto. Il credente non dovrebbe chiedersi: Come posso fare per rendere accettabili queste parole alla mia sensibilità di uomo moderno, alla mia mentalità di cristiano "adulto" ed evoluto?; bensì, al contrario: Come posso fare per rendere me stesso piccolo e umile, quanto basta da poter accogliere queste parole, che non mi piacciono, m'inquietano e mi fanno problema? Non è il Vangelo che deve adattarsi a noi, ma siamo noi che dobbiamo entrare nel suo spirito; non è Gesù che deve rimpicciolire i suoi precetti affinché noi facciamo meno fatica a comprenderli e metterli in pratica; siamo noi che dobbiamo chiedergli l'aiuto per innalzarci verso di Lui. Chi opina diversamente, e vorrebbe capire tutto, spiegare tutto, razionalizzare tutto, si è dimenticato del Mistero e si è dimenticato della Grazia. Umanamente, non possiamo capire tutto, anzi, possiamo capire davvero molo poco; ma, con l'aiuto della Grazia, possiamo innalzarci abbastanza, non già da capire, ma da accettare la realtà del Misero. L'uomo resiste all'accettazione del Mistero quando è gonfio di orgoglio, quando pretende di mettersi sullo stesso piano di Dio. E solo se abbandona questa pretesa, solo se si fa piccolo come un bambino, e umile di cuore, solo allora diventa degno di ricevere l’aiuto divino, mediane il soccorso della Grazia, e di poter gettare uno sguardo fugace sulla Verità abissale, che Dio solo conosce, perché è tutt'uno con Lui; come dice Dante (Paradiso, XXXIII, 124-126): O luce etterna che sola in te sidi, / sola t'intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi. Dio solo conosce e comprende la Verità, perché Dio è la Verità: possibile che quei signori se ne siano davvero scordai? Il dubbio, inevitabilmente, si affaccia alla mente: costoro sono solamente degli sciocchi e dei presuntuosi, o sanno molto bene ciò che stanno facendo? E, in tal caso, fin dove vogliono arrivare, e fin dove intendono servire l’antico Nemico, che si serve della loro presunzione?
Pertanto, se le parole del Padre nostro sono: e non indurci in tentazione, ma liberaci dal male, non c'è altro da fare che prenderle sul serio. Dio ci tenta, dunque, o ci può tentare, e noi Lo preghiamo di non farlo; ma in che senso dobbiamo intendere la cosa? Partiamo dalla premessa che la sapienza di Dio è incommensurabile rispetto alla nostra. Per noi, un soggetto è, o non è, direttamente responsabile di una certa azione: non esiste una terza possibilità. Ma di quale azione si tratta? Che altro significa tentare qualcuno, se non metterlo alla prova? La vita, per il cristiano, è tutta una prova, e quindi una continua tentazione: ogni qualvolta noi vorremmo sottrarci al nostro dovere, che poi è il dolce/gravoso dovere dell’amore, passando attraverso la sofferenza della croce, stiamo subendo una tentazione. Chi è che ci tenta? Perfino Gesù, nell’Ora suprema, laggiù, nell’Orto degli olivi, fu messo alla prova; così come era stato messo alla prova al principio della sua vita pubblica, quando il Diavolo venne da Lui, nella solitudine del deserto, e cercò di approfittare della sua debolezza dovuta al lungo digiuno. Gesù ha assunto su di sé la condizione umana fino in fondo, in tutta la sua fragilità, tentazione compresa. Tanto da dire al Padre suo, agonizzando e sudando sangue e acqua (probabile indizio di un infarto): Padre, se è possibile, che passi da me questo calice. Sono le parole più “umane” che Gesù abbia mai pronunciato; così come il suo gesto più “umano” era stato quello di piangere davanti alla tomba del suo amico Lazzaro. Un gesto e una frase al limite della debolezza, se si vuole. Ma subito si era ripreso, e aveva aggiunto: Tuttavia, sia fatta la Tua volontà, non la mia. E con ciò ha indicato la strada a noi tutti. Aver paura di non farcela, di non essere all’altezza, di non superare la prova, è umano: ci è passato anche Gesù, il Redentore. Possiamo e dobbiamo passarci anche noi. Ma subito un Angelo scese dal Cielo a confortarlo; e anche questa è una certezza, per il credente: che non sarà lasciato solo da Dio, nel momento della prova. Il credente, deve fidarsi. Questa è la fede.
Si direbbe che questo fardello, che è anche una fonte d gioia, sia diventato troppo difficile da portare per i cristiani moderni. Abituati sonnecchiare e a vivere di compromessi; abituati ad andare d’accordo col mondo, ad assecondare lo spirito del mondo, e a vedersi perfino applauditi quando dicono sì al mondo (cosa perfettamente logica, dal punto di vista del mondo; ma niente affatto da quello del Vangelo), non se la sentono di affrontare il rischio della fede, il paradosso della fede. Vorrebbero le certezze anticipate. Vorrebbero piacere al mondo, e intanto non dispiacere a Dio. Ma Dio sa quello che fa. Se noi siamo sottoposti alla prova; se siamo tentati; se siamovagliati come il grano, non ci accade nulla di diverso da quanto Gesù ha profetizzato per i suoi seguaci, rassicurandoli, però, nello stesso tempo, sul fatto che non li lascerà soli, che manderà loro lo Spirito di verità e di consolazione, il Paraclito. Se siamo tentati, siamo tentati per il bene: perché Dio è amore. L’amore di Dio, però, non è paragonabile a quello degli uomini: sa essere dolcissimo, ma anche severo; sa carezzare, ma anche scuotere con forza. L’amore di Dio non è una sdolcinatezza per signorine romantiche: è invito alla Verità; e la Verità è dura, se non si è preparati ad affrontarla. Nessuno di noi è del tutto preparato: di qui sorge la necessità di un aiuto soprannaturale, della Grazia, che illumini e sostenga quanti si affidano a Dio. Ma Dio sostiene gli uomini nel modo che Lui solo conosce, non nel modo che vorrebbero essi. Ecco il grande equivoco, il grande malinteso: pensare che Dio ci debba amare come sappiamo amare noi; ma la misura dell’amore di Dio per noi è talmente immensa, infinita, che noi non arriveremo mai a comprenderne neppure una milionesima parte.
Un carissimo amico, grande credente e grande uomo, ci ha detto, una volta, che non vuole sentirsi un bambino al cospetto di Dio, e che, per questo motivo, si ritiene non indegno di prendere l’Ostia consacrata con le mani. Noi pensiamo che nessuna mano, che non sia stata consacrata mediante il sacerdozio, è degna di farlo: perché il sacerdote, nel momento dell’Eucarestia, è Cristo medesimo; il fedele, no. A quel carissimo amico vorremmo ricordare che Gesù stesso ha detto: Se non diverrete piccoli come questi bambini, non entrerete nel regno dei Cieli. Non vi è nulla di scandaloso nel farsi piccoli, nel ritornare come bambini davanti al mistero abissale dell’amore e della sapienza di Dio. Ed è davvero un mistero abissale: come può Dio amarci, cattivi come siamo? Eppure ci ama e continua a chiamarci a sé; se ci smarriamo, ci viene a cercare, come il Buon Pastore; e, quando ci ha trovati, ci prende sulle spalle e ci riporta a casa Lui stesso. Però una cosa ci chiede, e dobbiamo farla da soli: di aver fede in Lui. E non c’è altro modo di aver fede, che quello di farsi simili a dei bambini fiduciosi: perché, intellettualmente parlando, noi non arriveremo mai a capire perché Dio ci ami, né come ci ami, né come Egli sappia, possa e voglia colmare la distanza infinita che ci separa da Lui. State contenti, umana gente, al quia;/ – dice ancora Dante - ché, se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria (Purgatorio, III, 37-39)…
Vogliono cambiare anche il Padre nostro perché vorrebbero cambiare il Vangelo
di Francesco Lamendola
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