MA TUTTE LE FEDI PORTANO A DIO?
I cattolici progressisti e modernisti:"Maestri dell'indifferentismo religioso, bugiardi che adulterano l’essenza del Vangelo allo scopo di distruggerlo dall’interno e vili perchè incapaci di confessare a se stessi i loro veri scopi"di F. Lamendola
Due
espressioni son venute di gran moda, nella cultura cattolica e nella
Chiesa stessa, dopo il Concilio Vaticano II: ecumenismo e dialogo
inter-religioso. Belle espressioni; suonano bene. Ma che cosa
significano, esattamente? Certo non possono e non devono equivalere ad
un’altra espressione, passata di moda proprio in quegli anni, ma ben
presente nei manuali di teologia e di catechetica fino a quel momento:
indifferentismo religioso. Indifferentismo, non nel senso di un
sentimento d’indifferenza, ma nel senso che tutte le fedi e tutte le
religioni andrebbero bene, non ha importanza quale si segua, tanto
conducono tutte alla stessa meta, cioè a Dio, infallibilmente, magari
dopo un percorso più lungo o più breve.
In particolare, è stata la dichiarazione Nostra aetate,
che rappresenta uno dei documenti più importanti del Vaticano II,
pubblicata il 28 ottobre 1965 dal pontefice Paolo VI, a promuovere la
nuova impostazione “dialogante” nei confronti delle altre religioni,
specialmente dell’islamismo, per il quale si proclamava stima e
rispetto, e per il giudaismo, nei cui confronti si riconosceva un
vincolo originario, impossibile da sottovalutare. Nella Nostra aetate,
dunque, si riconosceva il ruolo positivo svolto da tali religioni e si
proclamava che la Chiesa riconosceva quanto in esse vi era di giusto e
di buono; esortava inoltre tutti gli uomini alla fratellanza e alla
solidarietà, in quanto figli di Dio. Ma il Dio dei cristiani è davvero lo stesso delle altre fedi?
Ahimè, si lasciava nell’ombra, avvolta in una certa ambiguità, la questione centrale: vi è salvezza fuori della Chiesa? Perché
il magistero aveva sempre affermato che solo nella Chiesa cattolica vi è
la Verità integrale di Dio, nella persona del Figlio che si è fatto
uomo, e la cui presenza si rinnova incessantemente nel Sacrificio
eucaristico, nonché nell’opera consolatrice e illuminante dello Spirito
Santo, che è Spirito di Verità e di Vita. La domanda, pertanto, a
partire da quel momento, divenne questa: è cambiato qualcosa, nella
dottrina cattolica? La Chiesa ammette che ci si può salvare anche
attraverso altri messaggi religiosi? Tutte le strade portano a Dio,
indipendentemente dal Vangelo di Gesù, custodito e tramandato dalla
Chiesa cattolica?
Pio XI, con l’enciclica Mortalium animos,
del 6 gennaio 1928, era stato chiarissimo su questo punto: non solo
aveva ribadito che la Verità e la salvezza sono solo nel Vangelo di Gesù
e nella Chiesa da lui istituita, ma aveva anche messo in guardia contro
le illusioni dell’ecumenismo e aveva formalmente vietato ai cattolici
di partecipare ad incontri di tipo ecumenico con i rappresentanti delle
altre confessioni cristiane. Ora, se ciò era vero nei confronti dei
protestanti e degli ortodossi, a maggior ragione doveva esserlo nei
confronti delle religioni non cristiane. E ciò pur lasciando a Dio, e a
Dio solo, la scienza di ciò che, alle menti degli uomini, appare come un
fitto, impenetrabile mistero: quello della salvezza.
Si badi che il problema era assai antico: in pratica, era un dubbio che tormentava l’animo dei cristiani fin dagli inizi della storia della Chiesa.
Dante Alighieri se ne fa direttamente interprete, in quei versi del
canto XIX del Paradiso (67-114), nei quali il sommo poeta rivolge,
appunto, all’Aquila, lo scomodo interrogativo:
Assait'è
mo aperta la latebra / che t'ascondeva la giustizia viva, / di che
facei question cotanto crebra; // ché tu dicevi: ``Un uom nasce a la
riva / de l'Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo né chi legga né
chi scriva; // e tutti suoi voleri e atti buoni / sono, quanto ragione
umana vede, /sanza peccato in vita o in sermoni. // Muore non battezzato
e sanza fede: / ov' è questa giustizia che 'l condanna? / ov' è la
colpa sua, se ei non crede?". // Or tu chi se', che vuo' sedere a
scranna, /
per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d'una spanna? / Certo a colui che meco s'assottiglia, /se la Scrittura sovra voi non fosse, / da dubitar sarebbe a maraviglia. // Oh terreni animali! oh menti grosse! / La prima volontà, ch'è da sé buona, / da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse. // Cotanto è giusto quanto a lei consuona: / nullo creato bene a sé la tira, / ma essa, radïando, lui cagiona». // Quale sovresso il nido si rigira / poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch'è pasto la rimira; // cotal si fece, e sì leväi i cigli, / la benedetta imagine, che l'ali / movea sospinte da tanti consigli. // Roteando cantava, e dicea: «Quali / son le mie note a te, che non le 'ntendi, / tal è il giudicio etterno a voi mortali». // Poi si quetaro quei lucenti incendi / de lo Spirito Santo ancor nel segno / che fe’ i Romani al mondo reverendi, // esso ricominciò: «A questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. // Ma vedi: molti gridan ``Cristo, Cristo!", /che saranno in giudicio assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo; // e tai Cristian dannerà l'Etïòpe, / quando si partiranno i due collegi, / l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe. // Che poran dir li Perse a' vostri regi, / come vedranno quel volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? //
per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d'una spanna? / Certo a colui che meco s'assottiglia, /se la Scrittura sovra voi non fosse, / da dubitar sarebbe a maraviglia. // Oh terreni animali! oh menti grosse! / La prima volontà, ch'è da sé buona, / da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse. // Cotanto è giusto quanto a lei consuona: / nullo creato bene a sé la tira, / ma essa, radïando, lui cagiona». // Quale sovresso il nido si rigira / poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch'è pasto la rimira; // cotal si fece, e sì leväi i cigli, / la benedetta imagine, che l'ali / movea sospinte da tanti consigli. // Roteando cantava, e dicea: «Quali / son le mie note a te, che non le 'ntendi, / tal è il giudicio etterno a voi mortali». // Poi si quetaro quei lucenti incendi / de lo Spirito Santo ancor nel segno / che fe’ i Romani al mondo reverendi, // esso ricominciò: «A questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. // Ma vedi: molti gridan ``Cristo, Cristo!", /che saranno in giudicio assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo; // e tai Cristian dannerà l'Etïòpe, / quando si partiranno i due collegi, / l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe. // Che poran dir li Perse a' vostri regi, / come vedranno quel volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? //
Come
si vede, fin dal Medioevo il pensiero teologico cristiano negava che la
conoscenza del Vangelo porti automaticamente alla salvezza dell’anima,
così come non escludeva che Dio, nella sua infinita sapienza e
misericordia, possa salvare anche chi non lo ha ricevuto (non, però, chi
lo ha ricevuto, ma lo ha rifiutato, o ignorato: e, su ciò, è già
sufficientemente chiara la Lettera ai Romani di San Paolo,
qualora non bastassero le stesse esplicite affermazioni di Gesù,
contenute nei quattro Vangeli). Una cosa, tuttavia, è negare che la
conoscenza della Verità cristiana sia sufficiente, di per sé, alla
salvezza dell’anima, e un’altra cosa, e ben diversa, sarebbe affermare, o
anche solo lasciar intendere, che qualsiasi religione va bene per
giungere alla verità e per essere salvi e che, pertanto, non vi sia
alcuna differenza sostanziale fra il Vangelo e i messaggi delle atre
religioni. Se fosse così, ci troveremmo in presenza di un vero e proprio
indifferentismo religioso. È questo che intendevano dire, i Padri del
Concilio Vaticano II? È questo che pensa la Chiesa, oggi, e che insegna attraverso il suo Magistero?
Molto
opportunamente, a proposito dei due Sinodi sulla famiglia del 2014 e
del 2015 (ma il discorso si può applicare anche ad altri documenti),
Federico Catani ha fatto notare l’uso surrettizio di “parole
talismaniche” (l’espressione è dello studioso Guido Vignelli, che, a sua
volta, si rifà al brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira) con le quali si
veicola una nuova pastorale, tendente a mutare la mentalità dei fedeli,
pur senza aperte rotture con il passato, nondimeno operando uno
slittamento di significato rispetto all’uso originale della parole
stesse. Si pensi, per essere più chiari, all’abuso della stessa espressione “pastorale”:
adoperandola in maniera ambigua e scivolosa, è possibile servirsene per
operare un vero e proprio “trasbordo ideologico inavvertito”. In altre
parole, dopo aver sentito adoperare una “parola talismanica” in maniera
insistente e quasi ossessiva, si finisce per introiettare una
sensibilità nuova e per trovarsi fra le mani non solo delle parole, ma
dei concetti, che non hanno alcuna continuità con il Magistero e con la
fede cattolica; dei concetti modernisti abilmente travestiti e
mimetizzati, al punto che non ci si è accorti per tempo di quel che
stava accadendo e non si è reagito in maniera pronta e decisa finché c’erano il tempo e il modo per farlo. E
questa, sia detto fra parentesi, è proprio la situazione che si sta
creando con il pontificato di Francesco, e in modo particolare con
l’esortazione apostolica Amoris laetitia, a
proposto della cui interpretazione regna la più grande confusione, così
come, del resto, a proposito di una serie di interviste e prediche
tenute dal pontefice. Ed è una confusione della quale egli non
sembra minimamente preoccuparsi, visto che si guarda bene dal chiarire i
frequenti malintesi e continua, piuttosto, a far piovere sulla testa
dei fedeli una quantità impressionante di esternazioni, per la maggior
parte a braccio, alcune delle quali hanno un sapore sconcertante e, per
dirla tutta, quasi blasfemo: come quando dice (durante la S. Messa del
15 marzo 2016) che Gesù si è fatto peccato.
Ma
ecco che cosa scriveva, a proposito dell’indifferentismo confessionale,
il teologo Giovanni Battista Guzzetti (nato a Turate, in provincia di
Como, nel 1912 e spentosi a Milano nel 1996), soltanto pochi anni prima
del Concilio Vaticano II, nel suo Manuale di predicazione per i Vangeli domenicali e festivi (Torino, Marietti, 1956, pp. 538-539):
L’INDIFFERENTISMO
CONFESSIONALE. Vi sono masse di uomini del mondo civile occidentale che
credono in Dio e si dichiarano ossequienti alla religione e alla
morale, ma ritengono inezie le divisioni confessionali. Come tutte le
strade portano a Roma, essi dicono, così tutte le fedi possono condurre a
Dio. Cosa può importare a Dio del modo con cui gli uomini vanno a lui?
Altrimenti si tornerebbe alle arcaiche posizioni d’intolleranza e di
lotta religiosa.
LA
PAROLA DI GESÙ. L’ipotesi astratta che Dio possa essere indifferente
alle varie forme religiose, salvo magari la condizione che non
contengano riti immorali, non è assurda. Si tratta di vedere se è
storicamente reale.
È
evidente che tale indifferenza o meno dipende dalla sua onnipotenza e
sapienza, essendo tutte le creature sgorgate da Lui e assolutamente
dipendenti da Lui. Ora Cristo ha dichiarato solennemente il contrario e
ai suddetti indifferenti non resta dunque che inchinarsi alla divina
positiva volontà, sotto pena di trasformare il loro preteso ossequio in
ribellione e oltraggio supremo. “Chi crede e si fa battezzare si
salverà; chi non crede sarà condannato” (Mc. 16, 16). Il comando è
perentorio. Si tratta della religione rivelata da Gesù: religione
dell’amore, della unione intima cin Lui, fino a diventare a Lui
innestati come i tralci alla vite (Gv. 15, 5). Il perché è detto nel
tratto evangelico […]: “Il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato
me e avete creduto che io provenga da Dio [Gv. 16, 27]. L’adesione
amorosa di Gesù è dunque la condizione per essere accolti nell’abbraccio
amoroso e salvifico del Padre. Ed evidentemente non si tratta di un
amore a Cristo platonico, perché poco prima Gesù aveva detto: “Se mi
amate osservate i miei comandamenti” (Gv. 14, 15). Né si dimentichi che
Egli disse anche: “Chi non è con me, è contro di me; e chi non raduna
con me disperde” (Mt 12, 30).
Dopo
queste esplicite dichiarazioni divine non vi sono più discussioni da
fare e l’indifferentismo confessionale, sia teoretico, sia pratico, non
può spiegarsi che col menzognero intento (che i protagonisti stessi
forse non hanno il coraggio di confessare a se stessi) di conciliare
l’ossequio astratto a Dio col pratico accontenta mento dei propri
capricci.
INDIFFERENTISMO
E CATTOLICESIMO. Alla stessa conseguenza di arriva analizzando il
contenuto del cristianesimo, nella sua integrale trasmissione cattolica.
Se si fosse trattato di un generico invito morale, predicato magari da
un grande santo in nome di Dio, si sarebbe potuto discutere sulla sua
forza impegnativa. Ma è possibile non ritenersi assolutamente impegnati
quando il Messia è lo stesso Verbo eterno incarnato? E quando all’apice
dei sacri riti ha posto l’Eucaristia, in cui Egli si rende realmente
presente come vivo cibo dell’anima? È tanto poco indifferente essere o
no cattolici, quanto a quello stia essere pane o essere Dio.
Qualsiasi indifferentismo confessionale cade, davanti all’enorme grandezza dei dogmi cattolici.
Ecco:
a questo hanno portato il cristianesimo, certi teologi “cattolici” alla
Hans Küng, o alla Enzo Bianchi, per non parlare dei Vito Mancuso (che
non si possono ritenere affatto cattolici): a ridurre il
Vangelo ad una generica esortazione morale, e Gesù Cristo, alle
dimensioni di un santo uomo che predicava alcune norme di saggezza e di
bontà. Non Dio fatto uomo; non la Via, la Verità e la Vita, per usare le
parole di Giovanni, ma un semplice profeta, uno fra i
tanti. Morto e nemmeno risorto; morto, come muoiono tutti. E, una volta
operata questa drastica riduzione del cristianesimo, questa
umanizzazione di Cristo, questo restringimento del significato della sua
venuta, è una logica conseguenza porre le cose insegnate da Cristo
sullo stesso piano, o su di un piano equivalente, di quelle insegnate
dal giudaismo, dall’islamismo, dal buddismo, dal taoismo, e così via.
Manca poco che nel grande e fraterno abbraccio ecumenico non siano
compresi anche i riti Umbanda, Macumba, Candomblé, Voodoo; oppure lo
spiritismo di Allan Kardec, o la teosofia di Madame Blavatsky; oppure,
ancora, la stregoneria e il feticismo praticati da alcuni popoli
primitivi. Se ciò non viene detto, è solo per un residuo di timidezza da parte di codesti cattolici progressisti e modernisti;
per una loro mancanza di coerenza e di coraggio concettuale, perché,
una volta poste tutte le fedi sullo stesso piano, non si vede per quale
ragione qualcuna dovrebbe rimanere esclusa.
Comunque, come osservava il Guzzetti sessant’anni fa, codesti maestri di indifferentismo religioso,
anche se hanno conquistato sempre più spazio e acquistato sempre più
peso predicando le loro dottrine dall’alto dei pulpiti e insinuando le
loro ambigue “parole talismaniche” fin nei documenti ufficiali del
Magistero, restano pur sempre dei bugiardi che adulterano
l’essenza del Vangelo allo scopo di distruggerlo dall’interno, nonché
dei vili, incapaci di confessare a se stessi i loro veri scopi.
Tutte le fedi portano a Dio?
di Francesco Lamendola
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