QUAL E' IL COMPITO DEL CRISTIANO
Qual è il compito del cristiano sulla terra? Essere cristiani significa anche annunciare il Vangelo: testimoniare apertamente la propria fede e invitare il prossimo con l’esempio a convertirsi cioè ad accostarsi al Vangelo di Francesco Lamendola
Si
dice: essere cristiani (oppure no). Va bene; ma che cosa significa?
Molti pensano che essere cristiani significhi vivere osservando la
morale cristiana, frequentando la Chiesa e accostandosi ai Sacramenti.
Senza dubbio, questo è l’essenziale per dirsi cristiani (con buona pace
di quei sedicenti cristiani che pretendono, appunto, di dirsi tali,
calpestando la morale del Vangelo e disconoscendo il sacro Magistero);
ma è sufficiente anche per esserlo? Essere cristiani non
significa soltanto credere a ciò che ha insegnato Cristo, così come lo
ha tramandato la Chiesa; non significa soltanto credere alla morte e
alla Risurrezione di Gesù, e che il suo sacrificio si rinnova sempre
nell’Eucarestia; non significa neppure limitarsi ad attendere la morte e
il Giudizio, coltivando le virtù teologali della fede, speranza e
carità. Essere cristiani non significa aggiungere qualcosa,
meccanicamente, al precedente modo di vivere, bensì morire all’uomo
vecchio, poi rinascere; e dell’altro ancora.
Essere cristiani significa anche annunciare il Vangelo: cioè testimoniare
apertamente la propria fede e invitare il prossimo, soprattutto con
l’esempio, più che con le parole, a convertirsi, cioè ad accostarsi al
Vangelo e a ripensare la propria vita alla luce del fatto
di Cristo, incarnato, morto e risorto, e destinato a ritornare una
seconda e ultima volta sulla terra, per giudicare i vivi e i morti e per
porre ogni cosa, come dice l’Apostolo, sotto i suoi piedi, affinché sin
l’ultimo nemico – la morte – venga sconfitto, e Dio diventi tutto in
tutti. Nascondere il fatto di essere cristiani, o viverlo esclusivamente
nella dimensione privata (non diciamo “interiore”, che ha una portata
molto più ampia), non è conforme all’essere cristiani. Ovviamente, ci
sono molti modi di testimoniare il cristianesimo: quello scelto dai
monaci e dalle monache di clausura non è affatto meno bello o meno
significativo di quello scelto da chi decide di annunciare Cristo per le
strade del mondo; semmai il contrario. In entrambi i casi, tuttavia,
siamo in presenza del fatto essenziale e irrinunciabile, che è quello di
rendere testimonianza.
Per
rendere testimonianza adeguata, bisogna essere in grazia di Dio.
Umanamente parlando, dovremmo dire che significa essere coerenti: ma la
coerenza, nel linguaggio abituale, è, appunto, una virtù meramente
umana, che, al limite, si può riscontrare anche nel delinquente, nel
criminale, nel sadico. Il cristiano non è chiamato a rendere
testimonianza coerente per mezzo delle sue sole forze: non ce la
farebbe, cadrebbe in contraddizione, e tutti vedrebbero la sua miseria e
il cattivo servizio che egli avrebbe reso al Vangelo. No: il cristiano è
chiamato ad essere coerente per mezzo della fede; e la fede è la porta
d’accesso della Grazia, mediante la quale gli vengono date, dall’alto,
la forza e la sapienza per essere all’altezza dell’impegno che si è
assunto: la forza e la sapienza per essere, umanamente parlando, un
cristiano coerente. In realtà, la coerenza del cristiano non è una virtù
umana, ma un dono soprannaturale; e non è nemmeno una virtù in se
stessa, cercata per se stessa, ma un effetto, una conseguenza logica e
necessaria di un certo modo di vivere, di sentire, di pensare: di quel
che si dice vivere nella grazia di Dio. Non è che il cristiano che si
affida completamente a Dio non incontri difficoltà, non debba sopportate
tensioni e sacrifici; è che gli viene dato quel supplemento di forza,
di saggezza, di prudenza e di discernimento, per vivere la sua vita non
secondo la logica degli uomini, non secondo i desideri e le aspettative
del mondo, ma così come piace a Dio. In tal modo, mediante la Grazia,
egli viene fatto partecipe, già in questa vita, di quell’altra, la vita
divina: E ciò non per merito suo e nonostante le sue insufficienze, le
sue debolezze, le sue umane fragilità: perché non è lui ad essere forte,
saggio, prudente e capace di discernimento, ma lo Spirito divino, lo
Spirito Santo, che è sceso su di lui ed è entrato in lui.
È
entrato perché ha trovato la porta aperta: questo è, se vogliamo, il
solo merito dell’uomo, del credente. Dio non sfonda le porte chiuse, non
pretende d’imporre la sua presenza a chi non ne vuole sapere: ha voluto
gli uomini liberi per questo motivo, per poterli chiamare figli e non
servi.
Hanno scritto Giampiero Bordino e altri in un noto manuale di storia (da: I giorni e i perché, Torino, Lattes & C., 1977, vol. 1, Dalla preistoria ai regni romano-barbarici, pp. 265-267):
IL MESSAGGIO DI CRISTO CONTIENE UN ELEMENTO NUOVO?
Nella
dottrina predicata e vissuta da Cristo compare un principio veramente
nuovo, che porta lo scompiglio nel mondo ebraico dominato
dall’obbedienza, divenuta ormai formale, alla legge mosaica. “Vi do un
comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda: amatevi l’un l’altro come
io ho amato voi. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli,
se avrete amore gli uni verso gli altri” (Giovanni, 13, 34-35).
Il
nuovo comandamento dell’amore esige dal cristiano non una fuga dal
mondo ma una responsabilità in esso e una partecipazione alle sue sorti.
Egli ha da compiere una missione di amicizia tra tutti gli uomini della
terra, non deve costruire delle strutture in contrasto con le strutture
economiche e politiche già esistenti, ma deve comprenderle, animarle e
vivificarle dall’interno, inserendosi attivamente in esse. In questo
consiste la collaborazione che ciascun uomo è chiamato a dare per la
costruzione del regno di Dio.
QUAL È IL COMPITO DEL CRISTIANO SULLA TERRA?
Egli
ha il compito di annunciare il Vangelo(da “Eu-Anghelion = Buona
Novella) a un mondo che si muove, ad un popolo che è in cammino. Questo
esige da lui un’attenzione costante a Dio che parla. Ma la parola di
Dio, che è immutabile, entra nella storia attraverso il cristiano che
deve trovare il modo di realizzarla nella sua vita e nella sua epoca.
Il
mandato di Cristo agli apostoli: “fate miei discepoli tutti i popoli” è
rivolto non solo a tutti gli abitanti della terra, ma a tutte le
generazioni. “Ed ecco ch io sono con voi tutti i giorni fino alla fine
del mondo” (Matteo, 28, 20). Il seguace di Cristo non può affermare di
amare Dio, che non vede, se non prova questo amore con la
partecipazione alla vita dei suoi simili che gli sono fratelli, essendo
figli di uno stesso Padre.
Questo
induce Paolo a dire: “Mi sono fatto debole coi deboli per guadagnare i
deboli; mi sono fatto tutto a tutti per salvare, in ogni modo, alcuni. E
tutto questo lo faccio per il vangelo, affinché ne diventi anch’io
partecipe insieme a loro” (1 Cor. 9, 22-23).
LA SOLLECITIDINE DEL PADRE VERSO GLI UOMINI SUOI FIGLI.
In questa nuova famiglia il PADRE
non solo non sdegna le sue creature ma ha una cura speciale per loro.
Egli conosce i bisogni dei suoi figli: “Or voi non state a cercare che
cosa mangerete né cosa berrete; non agitatevi l’animo perché sono le
genti di questo mondo che vanno in cerca di tutte queste cose; ma il
Padre vostro sa che ne avete bisogno (Luca, 12, 29-30). L’importante è
rispondere all’amicizia di Dio che ha stretto una NUOVA
ALLEANZA attraverso il Figlio con tutti gli uomini. Essi si costruiranno
come esseri consapevoli e liberi perché non c’’è nulla di più spontaneo
e libero dell’amore, cioè del domo d sé che una persona fa a chi
riconosce degno di essere amato.
In
conclusione, la grande novità del cristianesimo è stata quella di
annunciare il regno dell’amore; e l’essere cristiano, di conseguenza, si
caratterizza in primo luogo nella capacità di amare, nel vedere l’amore
come ciò che è indispensabile all’interno delle relazioni umane. Il
concetto della paternità di Dio è d’importanza fondamentale, perché da
esso deriva quello della fratellanza universale tra gli uomini, al di là
delle divisioni di razza, di censo, di lingua e di cultura.
Ora,
il fatto che la fratellanza universale degli uomini, più che
scavalcare, include e supera le differenze storicamente esistenti, non
significa che il Vangelo di Gesù sia venuto ad abolirle, sic et simpliciter:
valga per tutti il caso della schiavitù, una istituzione che era
essenziale all’economia e alla società del mondo antico, e che il
cristianesimo abolì gradualmente e senza proclamare rivoluzioni
politiche o sociali, ma proprio con la forza dell’amore che trasforma i
padroni e i servi, in fratelli, perché figli dello stesso Padre. Ciò
appare chiaramente nella lettera di San Paolo a Filemone, che tratta, e
in concreto, questo specifico problema: Onesimo era uno schiavo
fuggitivo e l’Apostolo invita il suo padrone cristiano a riaccoglierlo
senza punirlo, con amore, e a trattarlo non più come schiavo, ma come
fratello in Cristo. Perciò bisogna che i cattolici progressisti,
propensi a vedere nel Vangelo una specie di libretto rosso ante litteram, si rassegnino: Cristo non è Marx.
Dunque,
l’essere cristiano comporta il dovere dell’annuncio; il Vangelo stesso è
un Annuncio: il cristiano lo deve testimoniare, con gli atti, con le
parole, con il suo modo di vivere, fondato sulla capacità di amare.
Gesù, nell’accomiatarsi dai suoi discepoli, ha dato loro quest’ultima
istruzione (Marco, 16, 15-16): Andate in tutto il mondo e portate il
messaggio del vangelo a tutti gli uomini. Chi crederà e sarà
battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà sarà condannato. Parole
molto impegnative, in tutti sensi, anche teologicamente: che spazzano
via l’indifferentismo religioso oggi molto in voga nella stessa Chiesa
cattolica, quasi che aderire a una fede religiosa oppure a un’altra sia,
suppergiù, la medesima cosa, e quasi che tutte le fedi portino al vero e
unico Dio e alla salvezza dell’anima.
La salvezza dell’anima!
Ecco un altro concetto che par quasi passato di moda, a leggere i libri
di certi sedicenti teologi cattolici e ad ascoltare le omelie di
parecchi sacerdoti e anche di non pochi vescovi. Non se ne parla quasi
più; è un argomento che suscita imbarazzo, se non proprio vergogna, come
se i cattolici dei nostri giorni, così evoluti e moderni, non
ricordassero volentieri questo aspetto della loro religione, che pure è
sempre stato considerato fondamentale, almeno fino all’epoca del
Concilio Vaticano II. Del resto, è logico: dal momento che pure del
peccato si è praticamente smesso di parlare, si comprende bene come non
si parli volentieri neanche della salvezza dell’anima. Ci si è scordati,
o almeno così pare, che esiste un Giudizio, che esistono l’Inferno e il
Paradiso; ci si è scordati che esiste una vita eterna, e che essa sarà
dannata o beata, a seconda delle scelte che si fanno in questa vita.
Annunciare il Vangelo, però, non è una questione di scelte o di gusti
personali: è un preciso comandamento di Gesù, avente per scopo la
salvezza di tutte le anime; disattendere tale comandamento, equivale a
non essere realmente cristiani.
Gli
Autori sopra citati insistono, e a ragione, sulla dimensione storica in
cui il cristiano è chiamato a testimoniare il Vangelo. Tuttavia, non si
dovrebbe dimenticare che il cristiano è chiamato a partecipare alla
vita del mondo, non già per amore del mondo, ma per amore di Cristo: il
mondo, per lui, ha valore in quanto teatro della Redenzione, che si
rivolge indifferentemente a tutti gli uomini; per cui il cristiano è
chiamato a collaborare alla chiamata universale e alla salvezza di tutti
i suoi fratelli. La dimensione contemplativa, la spiritualità pura, non
possono e non devono essere viste in contrapposizione all’attivo
impegno del cristiano nella vita sociale. L’impegno nella vita sociale,
al contrario, rischia di diventare “profano”, cioè di perdere il suo
carattere specificamente cristiano, se smette di abbeverarsi alla
sorgente perenne della vita soprannaturale. È dalla vita soprannaturale
che il cristiano riceve i doni spirituali con i quali operare nel mondo,
al fine di contribuire a redimerlo. Il mondo, così com’è, non è buono: è
ferito dalle conseguenze del Peccato originale; ma non sarà buono
nemmeno domani, o dopodomani, o fra mille anni; non sarà buono del tutto
in alcuna maniera, per opera degli uomini, perché, se potesse
diventarlo, ciò vorrebbe dire che l’uomo ha il potere di redimersi da
solo, il che è impossibile - come la storia non si stanca di mostrare -,
oltre che moralmente sbagliato e teologicamente sacrilego.
Del
resto, l’impegno sociale del cristiano muove da una prospettiva
spirituale e ha come fine una meta spirituale: non ha in se stesso le
proprie radici, ma in Cristo. Se il cristiano si dimentica di questa
semplice verità, allora succede che le logiche del mondo lo catturano e
lo portano via con sé, lo trascinano senza che egli neppure se ne
avveda: tutto preso dall’ambizione di “cambiare” il mondo, risanando le
ingiustizie e soccorrendo i bisognosi, si scorderà di essere solo un
operaio della vigna, e che il suo lavoro ha un senso se è un riflesso
dell’amore di Dio, non se pretende di sostituirsi al disegno divino. Il
signore della storia è Dio, e Dio solo; il mondo non ha valore in se
stesso, ma in quanto opera di Dio e da Dio chiamato al suo progetto di
redenzione universale. Se il mondo resiste alla chiamata di Dio, se gli
uomini si chiudono e si corazzano nella loro pretesa di autosufficienza,
il mondo diventa una realtà demoniaca, nella quale il cristiano vive
materialmente, ma dalla quale deve prendere intimamente le distanze. Di
fatto, il cristiano è chiamato sempre a realizzare questo difficile
equilibrio: partecipare alla vita del mondo per quanto è necessario a
testimoniare il Vangelo e l’amore di Dio, ma non fino al punto di
innamorarsene come cosa avente in se stessa la propria ragion d’essere,
bensì ricordare sempre che tutto ha un senso solo nella prospettiva del
Vangelo. Il cristiano deve morire allo spirito del mondo, per rinascere
in Cristo…
Qual è il compito del cristiano sulla terra?
di Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9230:qual-e-il-compito-del-cristiano&catid=70:chiesa-cattolica&Itemid=96
La speranza della novità cristiana. Un paradiso pieno di sorprese
L'Osservatore Romano
La speranza della novità cristiana. Un paradiso pieno di sorprese
L'Osservatore Romano
(Inos Biffi) La Chiesa ha come missione quella di essere il segno e la testimonianza di Gesù Cristo nel mondo; ora, questa missione si avvera, se il suo sguardo e il suo desiderio sono incessantemente rivolti anzitutto e totalmente a lui e quindi al Padre. La Chiesa è, senza dubbio, dedita al mondo, ma non lo è perché sottrae un po’ di amore a Dio per riservarlo agli uomini. Al contrario, essa si occupa del mondo e delle sue vicissitudini proprio amando in modo assoluto e con cuore indiviso il Padre, a imitazione di Gesù. A Gesù, il Figlio eterno di Dio, al quale nulla importava più del Padre e nulla aveva più a cuore del compimento fedele e premuroso della volontà del Padre: «Io — egli ha dichiarato — faccio sempre quello che a lui piace».
La vita di Cristo, infatti, è stata tutta un’attenzione e un ascolto di quanto maggiormente piacesse al Padre. Certo, egli ha amato il mondo; anzi, per la salvezza del mondo si è fatto uomo e come salvatore il Padre lo ha donato a noi. Nel Credo diciamo: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è incarnato e si è fatto uomo». Mentre nel suo Vangelo Giovanni scrive che «Dio ha tanto amato il mondo, da offrire al mondo il suo Unigenito» (3, 16). Ma questo amore per l’umanità non ha attenuato la totale e assoluta dedizione di Gesù a Dio, né ha diviso il suo amore, riservandone parte a Dio e parte al mondo. Al contrario, amando supremamente e assolutamente il Padre, Gesù ha ritrovato in lui tutti gli uomini come figli di Dio e come fratelli da salvare. Coerenti col modello offerto da lui, quindi a imitazione di lui, i cristiani danno, a loro volta, nel mondo la testimonianza di questo sguardo amoroso e di questa passione unica per il Padre.
D’altronde è quanto illustra e insegna la storia della Chiesa, in particolare la storia dei santi, che nelle loro opere attestano e descrivono l’essenza stessa della vita ecclesiale. Quando si fa la storia della Chiesa, ci si sofferma ai dati che appaiono, diremmo alla fenomenologia dei santi, mentre la storia più autentica sta oltre quello che si percepisce. «Tutta la gloria della figlia del Re, risiede nell’intimo», ricorda il salmista. Da questo profilo dobbiamo riconoscere i limiti inevitabili delle nostre storie della Chiesa. Intanto, solo Dio può conoscere in verità la storia della Chiesa; essa per lo più sfugge ai nostri giudizi e alla nostra possibilità di narrarla. Ed è la ragione per la quale non ci deve premere per nulla che il bene che facciamo sia riconosciuto e propalato. Anzi, è sempre rischioso quando questo avvenga. C’è il rischio che la nostra azione venga sciupata e perda la sua fragranza. Al riguardo mi viene in mente che, quando da ragazzi si coglievano dei fiori per porli dinanzi a una immagine della Madonna, non potevamo odorarli e gustarne prima noi il profumo. I grandi ce lo vietavano, mostrando il senso profondo di quell’omaggio devoto, che doveva essere riservato tutto all’onore e al piacere della Vergine. Credo che una delle sorprese del Paradiso sarà quella di vedere chi sono i santi. E potrebbero essere quelli che non avremmo mai immaginato proprio per il riserbo in cui quella santità era stata avvolta. Si potrebbe ritenere che la vera santità sfugge a quegli stessi che ne sono i portatori, i quali non ne sono affatto coscienti e quindi saranno i primi giunti in Paradiso a meravigliarsene.
La storia della Chiesa, del resto, documenta largamente questa antropologia teologica, questo interesse per gli uomini e per le loro più concrete necessità in santi impegnati nell’adorazione e intensamente dediti alla preghiera. E non sorprende: il loro animo, infatti, si avvicina alla “sensibilità” del Padre celeste, premuroso per i piccoli uccelli dei cielo e per i gigli del campo (cfr. Matteo, 6, 25 ss). Vengono in mente Vincenzo de’ Paoli, il Cottolengo, don Bosco, il Cafasso, don Orione e tanti altri, forse della porta accanto, che donano senza far rumore, come direbbe Manzoni, con «quel tacer pudico, che accetto il don ti fa» (La Pentecoste). Ma torniamo da dove siamo partiti, per ritrovare il tema dello sguardo della Chiesa e dei cristiani, che, fissandosi su Gesù, si ritrovano insieme e in comunione con lui interessati al mondo: un mondo assunto con lo stesso amore del Signore, che ha amato il mondo non alienandosi dal Padre, ma, al contrario, redimendolo e consacrandolo al Padre, suo “termine fisso” e unificante nella varietà delle vicissitudini terrene. Se così non fosse, la Chiesa perderebbe la sua identità di Corpo di Cristo e di Sposa, da lui amata fino al sacrificio della croce e a lui sempre indissolubilmente unita. E per questo, segno e causa di salvezza per tutti i popoli. L'Osservatore Romano, 20 luglio 2016.
La vita di Cristo, infatti, è stata tutta un’attenzione e un ascolto di quanto maggiormente piacesse al Padre. Certo, egli ha amato il mondo; anzi, per la salvezza del mondo si è fatto uomo e come salvatore il Padre lo ha donato a noi. Nel Credo diciamo: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è incarnato e si è fatto uomo». Mentre nel suo Vangelo Giovanni scrive che «Dio ha tanto amato il mondo, da offrire al mondo il suo Unigenito» (3, 16). Ma questo amore per l’umanità non ha attenuato la totale e assoluta dedizione di Gesù a Dio, né ha diviso il suo amore, riservandone parte a Dio e parte al mondo. Al contrario, amando supremamente e assolutamente il Padre, Gesù ha ritrovato in lui tutti gli uomini come figli di Dio e come fratelli da salvare. Coerenti col modello offerto da lui, quindi a imitazione di lui, i cristiani danno, a loro volta, nel mondo la testimonianza di questo sguardo amoroso e di questa passione unica per il Padre.
D’altronde è quanto illustra e insegna la storia della Chiesa, in particolare la storia dei santi, che nelle loro opere attestano e descrivono l’essenza stessa della vita ecclesiale. Quando si fa la storia della Chiesa, ci si sofferma ai dati che appaiono, diremmo alla fenomenologia dei santi, mentre la storia più autentica sta oltre quello che si percepisce. «Tutta la gloria della figlia del Re, risiede nell’intimo», ricorda il salmista. Da questo profilo dobbiamo riconoscere i limiti inevitabili delle nostre storie della Chiesa. Intanto, solo Dio può conoscere in verità la storia della Chiesa; essa per lo più sfugge ai nostri giudizi e alla nostra possibilità di narrarla. Ed è la ragione per la quale non ci deve premere per nulla che il bene che facciamo sia riconosciuto e propalato. Anzi, è sempre rischioso quando questo avvenga. C’è il rischio che la nostra azione venga sciupata e perda la sua fragranza. Al riguardo mi viene in mente che, quando da ragazzi si coglievano dei fiori per porli dinanzi a una immagine della Madonna, non potevamo odorarli e gustarne prima noi il profumo. I grandi ce lo vietavano, mostrando il senso profondo di quell’omaggio devoto, che doveva essere riservato tutto all’onore e al piacere della Vergine. Credo che una delle sorprese del Paradiso sarà quella di vedere chi sono i santi. E potrebbero essere quelli che non avremmo mai immaginato proprio per il riserbo in cui quella santità era stata avvolta. Si potrebbe ritenere che la vera santità sfugge a quegli stessi che ne sono i portatori, i quali non ne sono affatto coscienti e quindi saranno i primi giunti in Paradiso a meravigliarsene.
La storia della Chiesa, del resto, documenta largamente questa antropologia teologica, questo interesse per gli uomini e per le loro più concrete necessità in santi impegnati nell’adorazione e intensamente dediti alla preghiera. E non sorprende: il loro animo, infatti, si avvicina alla “sensibilità” del Padre celeste, premuroso per i piccoli uccelli dei cielo e per i gigli del campo (cfr. Matteo, 6, 25 ss). Vengono in mente Vincenzo de’ Paoli, il Cottolengo, don Bosco, il Cafasso, don Orione e tanti altri, forse della porta accanto, che donano senza far rumore, come direbbe Manzoni, con «quel tacer pudico, che accetto il don ti fa» (La Pentecoste). Ma torniamo da dove siamo partiti, per ritrovare il tema dello sguardo della Chiesa e dei cristiani, che, fissandosi su Gesù, si ritrovano insieme e in comunione con lui interessati al mondo: un mondo assunto con lo stesso amore del Signore, che ha amato il mondo non alienandosi dal Padre, ma, al contrario, redimendolo e consacrandolo al Padre, suo “termine fisso” e unificante nella varietà delle vicissitudini terrene. Se così non fosse, la Chiesa perderebbe la sua identità di Corpo di Cristo e di Sposa, da lui amata fino al sacrificio della croce e a lui sempre indissolubilmente unita. E per questo, segno e causa di salvezza per tutti i popoli. L'Osservatore Romano, 20 luglio 2016.
Mi lascia perplesso quella richiesta al cristiano di annunciare il Vangelo. Forse sarebbe più corretto chiedergli di vivere il Vangelo. L'annuncio credo che appartenga alla Chiesa in quanto istituzione divina con al suo capo nostro Signore. Ecco perché nei secoli essa impone in maniera gerarchica il suo insegnamento che, appunto, viene dall'alto, tramite gli strumenti che si è data ed i suoi insegnanti (in ultimo catechismo e sacerdoti). Non si deve incorrere nell'errore di "protestantizzare" l'annuncio divino con teorie soggettiviste e quindi relativiste. Facciamo attenzione ai confini che non possiamo travalicare. Mick
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