VOI SIETE IL SALE DELLA TERRA
Oggi nella Chiesa si vedono piccoli uomini gonfiarsi con grandi discorsi e ci si chiede perplessi: Ma Dio dov’è, in tutto questo? Dov’è il Vangelo? Dove sono la preghiera l’unione mistica con Dio la fervida vita spirituale?
di Francesco Lamendola
La
minestra, e ancor più la pastasciutta, sono dei piatti gradevoli,
purché debitamente saporiti: se non c’è sale per insaporirli, diventano
immangiabili. C’è qualcuno che mangerebbe la pastasciutta perfino tutti i
giorni, anche senza sugo, solo con l’olio: però nemmeno costui, per
quanto di gusti semplici, per quanto di facile contentatura, ce la
farebbe a mangiare la pastasciutta completante senza sale: neppure una
volta sola. Priva di sale, la pastasciutta diventa una sbobba indecente,
che non si darebbe neanche a un cane; e così la minestra, senza un po’
di sale, fosse pur fatta con le migliori verdure, risulterebbe
indigesta; per non dire della carne.
Dunque:
niente sale, e il cibo perde tutto il suo sapore; perfino il cuoco più
abile rinuncerebbe a preparare un pasto, in tali condizioni. Eppure, il
sale non è che un po’ di cloruro di sodio; in quantità, in volume, in
peso, rappresenta una percentuale infinitesima del piatto in cui è
messo. Neanche una bilancia di precisione registrerebbe la differenza di
peso tra un piatto di pastasciutta con il sale, e senza il sale; e
nemmeno l’occhio più esperto riuscirebbe a vedere e a distinguere la
pastasciutta in cui è già stato messo il sale, durante la cottura nella
pentola, da quella messa nel piatto, ma che non ha il sale, perché il
cuoco si è dimenticato di scioglierlo nell’acqua.
Non
è il solo caso in cui la differenza decisiva fra due cose, l’una ben
riuscita, gradevole, perfetta, ed una mal riuscita, sgradevole e
imperfetta, risiede in una differenza di ingredienti che, dal punto di
vista quantitativo, e anche visivo, è praticamente impercettibile. Una
porzione di pasta di 250 grammi, non sale a 300 dopo che è stata salata,
e nemmeno a 260 o 265, la differenza è questione di una quantità
infinitesimale. Però, da quella quantità infinitesimale, dipende tutto.
Essa fa la differenza tra un ottimo piatto da mangiare, e un piatto
immangiabile, disgustoso. È una cosa che fa riflettere: una spruzzatina
di sale e cambia tutto; se il sale manca, o ci si dimentica di metterlo a
sciogliere nell’acqua, non resta che prendere la pasta e buttarla nel
secchio.
Una
riflessione molto simile si può fare a proposito della società. La
società è fatta innanzitutto di esseri umani, legati da un patto di
qualche tipo; poi, da molte altre cose, servizi, istituzioni, leggi,
eccetera: ma ognuna di queste cose è stata fatta dagli uomini, e, prima
ancora, pensata da loro: a loro tocca di organizzarla, perfezionarla,
ricostituirla di volta in volta, secondo le necessità. In ogni caso, l’elemento centrale e insostituibile resta pur sempre quello umano:
la quantità e l’eccellenza delle macchine di cui essa, eventualmente,
dispone, rimane un fattore secondario, non rispetto al suo
funzionamento, ma rispetto alla sua caratteristica essenziale, quella di
essere una società umana. Infatti, per funzionare a dovere, una società
ha bisogno di un elemento quasi impalpabile e certamente invisibile,
che non è dato dalle macchine, o dalle riserve auree, o dalle banche, ma
è un certo tipo umano, o meglio, è dato da certe caratteristiche
concentrate in un certo tipo umano. Per funzionare, una società ha
bisogno di una percentuale di esseri umani che non si limitino a vivere
in essa, sfruttando ciò che essa ha da offrire ai suoi membri e
prestandole, in cambio, una certa quantità di lavoro materiale; ma che
facciano di tutta la loro vita un progetto e una offerta di edificazione
a lungo termine, non in termini materiali, ma spirituali.
Una
società non potrebbe esistere senza questa componente umana di tipo
qualitativo: un certo numero d’individui, uomini e donne, i quali non
vivono solamente per se stessi, o per la propria famiglia; i quali non
si preoccupano solo di sé e di poche altre persone, i loro amici e
parenti; i quali non pensano solo al bene del loro ufficio, della loro
azienda, del loro quartiere, del loro ambito lavorativo, del loro
partito, ma sono ugualmente interessati a tutti indistintamente i membri
della società, al loro benessere interiore, e ciò in maniera gratuita,
senza secondi fini, ma solo per amore del prossimo, chiunque egli sia.
In effetti, secondo le normali categorie umane, riesce difficile perfino
immaginarsi un simile tipo umano; figuriamoci una certa percentuale di
tipi umani siffatti, i quali si prendano a cuore il bene spirituale
dell’intera società. Dove trovare un tale disinteresse, un tale spirito
di abnegazione? Secondo le logiche del mondo, cioè è quasi assurdo:
ciascuno lavora per se stesso, si preoccupa per se stesso, per i suoi
legittimi interessi, per i suoi diritti, e per quelli dei suoi intimi.
Nessuno lavora per coloro che non conosce, compresi i propri nemici.
Eppure,
una società formata esclusivamente da individui preoccupati soltanto di
se stessi e dei loro cari, per quanto laboriosi, per quanto onesti, per
quanto rispettabili, non funziona, né mai potrebbe funzionare. Sarebbe
sottoposta a un graduale processo di logoramento e finirebbe per
disgregarsi, per dissolversi, piombando nel caos e affondando nel
disordine, forse anche sanguinoso. Ed è precisamente quel che sta accadendo oggi:
la nostra società può vantare un numero assai più alto di laureati,
rispetto al passato; può disporre di un benessere assai maggiore; e la
speranza di vita dei suoi membri è di gran lunga superiore; ciò
nonostante, essa sta sprofondando nella palude della auto-dissoluzione, ha smesso di funzionare, o meglio, funziona solo dal punto di vista produttivo ed efficientistico, funziona come una macchina senz’anima,
ma le persone, in essa, vivono una crisi d’angoscia e di perdita di
senso quale non si era mai vista in precedenza, tranne nei momenti più
cupi della storia. Quelli, appunto nei quali le società si dissolvono.
Per
tenere unita una società, per darle coesione, per conferirle
vivibilità, è necessario che qualcuno, al suo interno, pensi
amorevolmente al bene di tutti, ma non nell’ambito della politica, o
dell’economia, o della cultura, bensì proprio nell’ambito più essenziale
che attenga alla dimensione umana: quello spirituale. Se non vi sono
uomini e donne spirituali, i quali non ragionano secondo il mondo, cioè
esclusivamente in termini di convenienza, ma secondo il precetto
dell’amore disinteressato, qualsiasi società, per quanto evoluta e
benestante, è destinata alla rovina. Ce ne accorgiamo oggi, eppure
stentiamo a trarne le logiche conclusioni: che abbiamo trascurato di
alimentare quella sorgente misteriosa, da cui scaturiscono le vocazioni
alla vita spirituale. Senza di esse, la società regredisce a quel che
era decine di migliaia di anni fa: una foresta di belve, le quali si
spiano l’un l’altra per cogliere le debolezze altrui, e approfittarne.
Gli uomini e le donne spirituali sono il sale della terra e la luce del mondo, per usare l’espressione evangelica. Voi
siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore, con
che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad esser
gettato via e calpestato dagli uomini. Queste parole (Matteo, 5,
13) Gesù le rivolse non solo ai suoi discepoli in senso stretto, ma a
tutta la vasta folla che era venuta ad ascoltarlo, e alla quale aveva
rivolto il suo discorso più famoso e importante, il cosiddetto Sermone
della montagna, vera e propria summa di tutto il Vangelo.
Per
secoli e secoli, le famiglie nelle quali fioriva una tale vocazione
gioivano e si congratulavano con se stesse, anzi, pregavano perché ciò
avvenisse; e si sottoponevano a duri sacrifici materiali perché un loro
figlio o una loro figlia potessero realizzarla. I genitori ne andavano
orgogliosi: e c’erano famiglie contadine, assai numerose, che offrivano
alla vita spirituale tre, quattro, cinque dei propri figli, sottraendoli
al lavoro dei campi. Grazie al sale rappresentato da questo tipo di
persone, la società acquistava il suo sapore: e bastava una percentuale
modestissima, bastava un cinque, un tre, un uno per cento di tali
vocazioni, nel complesso della popolazione, per fare sì che la società
non perdesse il suo sapore, continuasse ad essere un corpo vivo, animato
da una profonda tensione morale, in luogo di un corpo morto,
cadaverico, animato solo dalle logiche egoistiche dell’interesse, per
quanto rispettabili, se considerate una per una.
Quindi,
quelle persone non erano considerate alla stregua di “disertori” della
vita; al contrario: erano considerate il sale della terra. La loro
presenza era apprezzata: la società sentiva d’aver bisogno di esse;
sentiva che, senza di loro, le cose non avrebbero funzionato. La società
odierna ha mutato atteggiamento, e pensa di poter fare benissimo a meno
di quelle vocazioni, di quelle presenze: le considera alla stregua di
una stranezza, una eccentricità; e, in fondo, le compatisce o le deride,
perché le paiono un anacronismo, una sopravvivenza di antichi modi di
pensare e di sentire, ormai privi di alcuna ragion d’essere. Inoltre, le
società moderne vanno fiere del loro laicismo: ciò significa che delle
persone dichiaratamente religiose le risultano poco gradite. Sono degli
intralci fra le ruote del loro buon funzionamento. I valori ai quali si
ispirano sono stati rigettati con forza: per fare solo un esempio,
quelle persone tengono vivo il principio della santità della vita,
quindi condannano la pratica dell’aborto; e ciò incoraggia una certa
percentuale di medici e infermieri a dichiarare l’obiezione di
coscienza, il che intralcia il “buon” funzionamento della sanità
pubblica. E si potrebbero fare altri cento esempi, non meno
significativi.
D’altra pare, la
società moderna non è afflitta solo dalla mancanza di vocazioni alla
vita spirituale; è afflitta anche da un altro problema: e cioè dal fatto
che quelle vocazioni, oggi, oltre ad essere insufficienti (se il sale è
tropo poco, non si percepisce il sapore della pietanza), sono anche,
non di rado, mal coltivate dalle strutture e dalla cultura, le quali
dovrebbero orientarle, sostenerle, accompagnarle. I seminari, per
parlarci chiaro, e i conventi, stanno perdendo, in molti casi, il loro
carattere genuino. Vi si insegnano molte cose, ma sempre meno la cosa
essenziale: la preghiera, l’unione mistica con Dio. Il futuro
prete, il futuro religioso e la futura religiosa rischiano di formarsi
l’idea che basti amare il prossimo, così, genericamente, e tutto andrà
bene; oppure che sia necessario aver letto e digerito libri di
psicologia, di economia, di politica, di critica sociale, ma che le
Sacre Scritture siano ormai “superate”, o che vadano lette in senso
puramente simbolico. Miracoli, risurrezione dai morti, giudizio finale,
cieli nuovi e terra nuova: tutto questo viene percepito come un residuo
di mentalità mitica, viene interpretato in senso allegorico.
In
questo modo, l’anima chiamata alla vocazione spirituale diventa
insipida, perde il suo sapore: parla di mille cose e si affaccenda in
mille altre, ma smarrisce l’essenziale: la preghiera e l’unione mistica
con Dio, che le permettono di essere d’esempio, di fornire il modello
della vita perfetta. E, senza di questo, la società non riceve alcun
beneficio dalla presenza delle persone consacrate, perché le vede
parlare, pensare ed agire proprio come qualsiasi altra persona, che è
immersa nello spirito del mondo e ragiona come ragionano le persone del
mondo. Non sente il soffio dell’infinito, non sente la presenza
ineffabile di Dio. Già da come si presentano: pare che abbiamo paura di
mostrarsi quali sono in realtà, persone chiamate da Dio; infatti si
vestono come tutti gli altri, quasi volessero mimetizzarsi, passare
inosservate. E ciò è profondamente sbagliato.
Ecco cosa diceva Pio XI nella enciclica Ad Catholici sacerdotii, del 20 dicembre 1935; sono passati ottant’anni, ma sembrano più che mai parole scritte per i nostri giorni (§ 225-6):
Chi
non si preoccupa di imporre con l’esempio della sua vita la verità che
va predicando, distrugge con una mano quello che edifica con l’altra. E
invece Do benedice largamente le fatiche di quei predicatori del
Vangelo, che prima di tutto e con serietà attendono alla propria
santificazione. Essi vedono sbocciare i fori irrorati dal loro sudore e
maturare frutti copiosi. Nel giorno della messe “torneranno cin gioia
portando i loro covoni” (Salmo 125, 6). Sarebbe un errore gravissimo e
pericolosissimo se il sacerdote si lasciasse trascinare da un falso zelo
e si immergesse talmente nelle opere esteriori, anche buone, del suo
ministero, da trascurare la propria santificazione. Con ciò metterebbe
in pericolo la sua salvezza eterna, come temeva di se stesso San Paolo:
“Castigo il mio lo rendo schiavo, perché non abbia a capitarmi di
diventare reprobo, dopo aver predicato agli altri” (1 Corinzi, 9, 27). E
si esporrebbe anche a perdere, se non la grazia divina, certamente
quella unzione dello Spirito Santo, che imprime una straordinaria
efficacia all’apostolato esterno.
Sono
parole chiare e concetti che dovrebbero risultare d’immediata
comprensione; eppure ci si è allontanati da essi, e il cattivo esempio è
partito dall’alto: dai pastori del gregge. Oggi vi sono troppi vescovi
che parlano fin troppo volentieri con la stampa e la televisione,
rilasciano interviste, fanno continue dichiarazioni: sostengono che la
Chiesa dovrebbe scusarsi con gli omosessuali, impegnarsi di più per la
giustizia sociale, mostrarsi indulgente e comprensiva con i divorziati,
abolire il celibato ecclesiastico e ordinare anche le donne al
sacerdozio; però nelle loro parole, e, molto più, nella loro vita, non
si vede il modello della santità cristiana, non si respira il soffio
dell’infinito. Si vedono piccoli uomini gonfiarsi con grandi discorsi e ci si chiede, perplessi: Ma Dio dov’è, in tutto questo? Dov’è il Vangelo? Dove sono la preghiera, l’unione mistica con Dio, la fervida vita spirituale…?
Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?
di Francesco Lamendola
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