TEOLOGI DI DIO O DEL DIAVOLO?
Teologi che cercano Dio o che servono il Diavolo? Si fa presto a dire teologi ma lo sono davvero? Il “prete bianco” cioè il Papa è ancora il presidio certo e il garante della verità cristiana, contro ogni eresia e apostasia?
di Francesco Lamendola
Si fa presto a dire: teologo. Tizio o Caio scrivono un paio di libri, in cui si parla di Dio, non importa come, non importa su quali basi, in quale prospettiva; pubblicano qualche articolo su riviste specializzate, con quattro lettori in tutto; infine fanno le conoscenze giuste, entrano nel grande circuito mediatico, ottengono degli inviti in televisione, parlano, pontificano e sproloquiano dal piccolo schermo, a beneficio di un pubblico cui vengono presentati, appunto, come “teologi”. Ma teologi lo sono davvero? A nome di chi o di che cosa scrivono i loro libri, rilasciano le loro interviste? Quale causa stanno servendo, a parte – ovviamente – quella della loro personale ambizione, che ha permesso loro di fare il salto di qualità (si fa per dire) da signori nessuno a volti noti e apprezzati (si fa sempre per dire) di Mamma Tivù?
Benché certe carriere folgoranti appaiano chiaramente misteriose e un po’ sospette, la Massoneria e altre società segrete non lasciano tracce facilmente riconoscibili; e, del resto, specialmente in Italia, non c’è niente di anomalo, niente di artificioso, nella vita pubblica, che non si possa spiegare semplicemente col malcostume di favorire gli amici degli amici, di raccomandare i parenti e i conoscenti, d’indirizzare e “blindare” le carriere d’illustri sconosciuti i quali improvvisamente, dall’oggi al domani, benché privi di meriti reali, giungono a sedere sulle poltrone più alte: quelle dell’amministrazione pubblica e privata, della politica, della finanza, del giornalismo, delle forze armate, delle baronie universitarie. Figuriamoci se il familismo, il nepotismo e il clientelismo, non possono spingere avanti nell’ambito della cultura, e non possono favorire provvidenzialmente e strepitosamente, dei mediocri, pieni d’ambizione e con pochissimi scrupoli.
Nel caso della teologia, però, c’è qualcosa di più, qualcosa di particolarmente delicato: la posta in gioco non è affatto ordinaria, perché dalla fede in Dio, dal tipo di fede che si diffonde in una società, dai suoi risvolti etici, quel che va di mezzo è l’orientamento spirituale e morale dei cittadini, ossia qualcosa d’infinitamente più prezioso, anche se impalpabile e invisibile, della fondazione di una banca, o di un’industria, o di una televisione, o della conquista di una posizione di carriera professionale o militare o accademica. Dal fatto che la gente creda in Dio, e in quale Dio creda, e come ci creda, dipende, in pratica, tutto il resto: sicché si capisce bene come mai la teologia, per secoli e secoli, sia stata considerata la disciplina più preziosa di tutte, la più importante, quella che comportava un corso di studi più lungo e impegnativo. Il fatto che oggi la teologia sia stata retrocessa a un livello infimo, rispetto alle altre discipline; che sia coltivata da un numero ormai ristretto di persone, e che le sue discussioni raramente coinvolgano un pubblico consistente, non deve trarre in inganno: pochi o tanti che siano i teologi, la loro funzione sociale e spirituale è pur sempre notevolissima. Una società può anche essere quasi sprovvista di cultura teologica, ma la teologia, che sia visibile oppure no, che sia prestigiosa oppure disprezzata, continua a pesare, e sia pure in negativo. Perfino se manca del tutto, perfino nelle società ufficialmente atee, come lo era quella dell’Unione Sovietica, esiste una anti-teologia che svolge un’influenza sul modo di pensare e di sentire delle persone. È sbagliato, pertanto, sottovalutare la sua importanza, perfino quando non c’è, o sembra che non ci sia più; perché, parafrasando una frase celebre, anche soltanto il suo cadavere sarebbe ancora abbastanza pesante da poter schiacciare la società intera.
Del resto, la società moderna ha proclamato, ormai da molto tempo, la morte di Dio, per cui non fa meraviglia che i teologi “fai da te”, venuti fuori non dai corsi di studi teologici, ma con una formazione da autodidatta, sempre più si adattino agli umori del pubblico e facciano in modo di assecondare la tendenza generale, formulando delle ipotesi peregrine circa un Dio “nascosto”, che ci vuole “adulti”, cioè che ci comportiamo come se Lui non ci fosse; un Dio che non sporca, non disturba, non abbaia, non chiede nulla di nulla, né sacrifici, né dedizione, né coerenza, né rigore di alcun tipo, proprio come un cagnolino di pezza che si regala ai bambini in luogo del cane vero, che essi vorrebbero, ma che i genitori non se la sentono di accudire; un cagnolino che il piccolo si può portare anche a letto, mettere sotto il guanciale, e del quale può fare quel che gli pare, se ne ha voglia: anche aprirgli la pancia con un tagliacarte, per vedere cosa c’è dentro; anche strappargli gli occhi o le orecchie, tagliuzzarlo con le forbici, spellarlo, bruciarlo, calpestarlo, immergerlo in acqua, gettarlo dalla finestra. Un Dio mille usi, docile, pieghevole, che si può restringere o allargare, per nulla esigente, che parla quando ci fa comodo e tace quando vogliamo che stia zitto; ma, soprattutto, che dice le cose che piacciono a noi, e che ci ama sempre, qualunque cosa facciamo (vero), anche se non ci pentiamo (falsissimo), che ci accetta così come siamo (falso), che non ci domanda nulla (falso), che rispetta la nostra libertà (certo: ma bisogna prima vedere che cosa s’intenda per “libertà”; e un teologo serio non adopera mai questa parola, senza prima averne chiarito il significato al di là di ogni possibile equivoco).
Quello che invece stupisce, o che dovrebbe stupire, è che a presentarci un Dio di questo genere – un Dio, per modo di dire – non siano soltanto i teologi improvvisati e cialtroni, ignoranti e presuntuosi, ma proprio alcuni dei teologi che vengono da ottimi studi di teologia, che hanno ricevuto una formazione culturale e spirituale completa, e che, sovente, vestono l’abito sacerdotale, per cui dovrebbero sapere benissimo quanto sia delicata la loro opera e quale peso possano avere le loro avventate e temerarie affermazioni; questo è veramente un segno dei tempi e ci dà la misura della decadenza morale e culturale in cui siamo sprofondati, e della totale inconsapevolezza, proprio da parte di coloro che dovrebbero essere guide e pastori del gregge. Siamo arrivati al paradosso che vivono, pensano e sentono in modo più “teologico”, più veritiero e morale, degli anonimi padri e madri di famiglia, dei laici qualsiasi, degli onesti e silenziosi lavoratori, dei miti vecchi e pensionati, delle persone senza istruzione, ma con un cuore grande, una retta volontà e con una sana educazione religiosa e morale alle spalle. Sì: costoro sono, sovente, più teologi di quegli altri – che oggi tengono banco e vanno per la maggiore -, ai quali la superbia intellettuale ha dato alla testa e che si sono letteralmente ubriacati al suono delle loro concezioni “innovative”, “moderne”, “aperte allo spirito dei tempi”. Tempi – aggiungiamo noi - di somma confusione, di superficialità generalizzata, d’incretinimento culturale e di asfissia spirituale; tempi di oscuramento delle coscienze e delle intelligenze, dove si applaudiscono i somari che ragliano più forte, mentre s’ignorano, o si riducono al silenzio, le voci – sempre più rare – le quali, incuranti delle mode, restano tuttavia fedeli alla Rivelazione nelle sue due fonti perenni: le sacre Scritture e la sacra Tradizione.
Qualcuno potrebbe pensare che tutto ciò sia abbastanza giusto, ma, forse, un pochino esagerato; che la situazione, dopotutto, non sia poi così grave, come l’abbiamo descritta; che non bisogna generalizzare e che alcuni fermenti della nuova teologia sono apprezzabili o, quanto meno, contengono un nocciolo di verità. A ciò rispondiamo (prescindendo dal fatto che, in filosofia e in teologia, la verità c’è o non c’è; non si danno porzioni di verità, perché delle verità parziali equivalgono a delle menzogne) che la situazione, probabilmente, non è meno grave, ma assai più grave di come l’abbiamo descritta. Il tumore è già in metastasi, quando ancora il corpo, esternamente, presenta una qualche apparenza di salute: il marciume che è dentro, non si rivela se non quando è già troppo tardi per fare qualsiasi cosa. E a dire queste cose non è una voce umana: è la voce della Madonna, in tutta una serie di apparizioni e rivelazioni che caratterizzano la storia religiosa del XIX e XX secolo, da quelle di Rue du Bac fino a oggi; ed è anche… il Diavolo in persona, così come si è espresso, nel corso di una lunga sequela di esorcismi, rispondendo alle intimazioni dei sacerdoti a ciò preposti, persone degne di fede e anche stimati studiosi, fra i quali il padre benedettino Pellegrino Ernetti (1925-1994), teologo, musicologo e scienziato.
Vale la pena di riportare alcune delle affermazioni fatte da Satana, nel corso degli esorcismi condotti da padre Ernetti, a proposito di quella particolare categoria dei suoi servitori che sono i cattivi pseudo-teologi modernisti e progressisti; affermazioni uscite dalla bocca dei posseduti, nel vivo dei riti di liberazione, in circostanze altamente drammatiche, così come sono riportate nel suo libro intitolato La catechesi di Satana (Udine, Edizioni Segno, 1992, pp. 165-167):
“… I MIEI TEOLOGI, con le dottrine da me ispirate… Oh, questi sì che costituiscono la mia “punta di diamante”di prima trincea! Che teologi intelligenti! Essi hanno capito che quei dogmi rigidissimi, dettati da certi sciocchi capi ecclesiastici, in realtà sono delle falsità puerili, che crollano al semplice confronto con la realtà quotidiana… Che bravi… bravissimi…!
Del resto, li ho portati a insegnare le mie dottrine non soltanto nei seminari ordinari, ma persino nelle più alte e prestigiose Università Pontificie, persino in quella romana del vostro prete bianco (il Papa; l’Università Lateranense).
La dottrina della “morte di Dio” l’ho ispirata io e, con essa, mi sono venuti dietro milioni di studiosi, che sono diventati miei discepoli e fedeli convinti. Da quando io regno, il vostro Dio è morto, non esiste più. È finita così ogni legge costrittiva: tutti possono e devono vivere liberamente, come insegno io: libertà di idee, libertà di pensiero, libertà di azione… Ognuno è liberissimo finalmente di agire e fare quello che crede e vuole, ovunque e sempre, e con chiunque… Non esiste più norma né regola…Ciascuno è come sono io, padrone di tutto e di tutti: il vostro Dio è morto! E chi potrebbe negarlo, se lo stesso vostro Crocifisso ha dichiarato che io solo io, sono “il principe di questo mondo”? E se Lui stesso ha detto che “tutto il mondo è in mia insindacabile balìa e padronanza”?... Finalmente questo teologi, i più intelligenti in assoluto, mi hanno dato ragione.
Ma se Dio è morto, allora è chiaro che sono crollati tutti gli altri dogmi: la Creazione, l’Incarnazione, la Risurrezione, l’Immacolata, l’Assunzione, l’Eucarestia e tutti i sacramenti… tutte storielle inventate per tenere costretti gli allocchi cristiani… Ed ecco centinaia e centinaia dei miei teologi, che hanno persino il coraggio di sfidare il prete bianco (il Papa) con lettere e firme…che provi il contrario, se ha coraggio e se è capace…Ha scrollato la testa e ha lasciato, i miei teologi, che continuassero questi insegnamenti, senza il minimo rimprovero né punizione… Dunque anche lui è d’accordo con me, nella negazione di tutti i suoi dogmi… ma che bravo! (risata…).
E mentre questi grandi teologi sono con me, vi sono altri piccoli teologi untorelli che, per rivalsa, negano la mia esistenza come fiaba da medioevo, rinviando tutte le mie presenze e manifestazioni a fatti unicamente psichiatrici e psichici… Bravissimi, questi teologi, questi preti e… tanti vescovi… bravissimi! È il servizio migliore che mi potete fare: farmi agire silenziosamente, senza minimamente lottare contro la mia presenza e le mie astuzie… bravissimi… fate sempre così e io continuerò la mia opera infernale senza colpo ferire!
I miei teologi intelligenti negano i dogmi della vostra Chiesa e teologi stupidi negano la mia esistenza… Che trionfo… (risata…).
Ma allora dove sono più gli eretici di una volta? Nessuno! Né chi nega i dogmi, né chi nega me, che pure nell’elenco dei dogmi era anche quello della mia esistenza…! Ho vinto la vostra Chiesa.”
Non facciamo particolari commenti su queste affermazioni dell’antico Nemico degli uomini; ci sembra che parlino da sole, in maniera più che eloquente: solo sull’ultima riflessione, che è anche una domanda, ci sembra che valga la pena di spendere qualche parola. Dove sono finiti gli eretici, oggi? Non ci sono più, evidentemente non perché non ci siano più davvero – l’eresia è una errata interpretazione della Verità cristiana, ed eresie ci sono sempre state e sempre ce ne saranno – ma perché, nell’ambito della teologia moderna, qualunque verità, qualsiasi affermazione sono diventate legittime: in nome della tolleranza, del pluralismo, della democrazia e della libertà di pensiero, il sacro feticcio che svetta su tutti gli altri, ogni eresia, anche la più pericolosa o la più ripugnante, è diventata una voce fra le altre, nell’attuale dibattito teologico; dal momento che la teologia, in nome dell’anti-autoritarismo (altra formula idiota di sessantottesca memoria), è diventata un porto di mare dove arrivano e ripartono tutti, e ciascuno lascia quel che gli pare, affinché i suoi rifiuti, finanche i suoi escrementi, siano coscienziosamente raccolti e conservati e possano rimanere a disposizione e a edificazione delle generazioni future.
C’è un’ultima domanda, inquietante, che non possiamo non farci, nel particolare momento storico che stiamo vivendo. Il “prete bianco” di cui sopra, cioè il Papa, è stato, finora, il presidio certo e il garante della verità cristiana, contro ogni eresia e apostasia. Ma se, Dio non voglia, così non fosse?
Teologi che cercano Dio o che servono il Diavolo?
di Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9455:teologi-che-cercano-dio-o-che-servono-il-diavolo&catid=131:mistero-a-trascendenza&Itemid=162
STORICI PROTESTANTI MANIPOLANO
Come gli studiosi protestanti manipolano la storia per auto-glorificare la loro causa. Spesso di estrazione anglosassone, in loro l’orgoglio di stirpe e di nazione si fonde con la rocciosa convinzione di avere Dio dalla propria parte
di F. Lamendola
Garrett Mattingly non è stato un grande storico, tanto è vero che quasi nessuno, fuori degli Stati Uniti (e anche dentro, a soli pochi anni di distanza dalla sua morte) ne conosce il nome; ma è stato uno storico popolare, uno storico di successo, quanto può esserlo uno che ha vinto il Premio Pulitzer nel 1960, per un suo libro dedicato alle vicende dell’Armada spagnola.
Era nato a Washington, D. C., il 6 maggio 1900 ed è morto il 18 dicembre 1962, al culmine della carriera e della notorietà, dopo avere occupato per parecchi anni la cattedra di Storia d’Europa alla Columbia University. Le sue opere maggiori sono state: Caterina d’Aragona, del 1942; Diplomazia del Rinascimento, del 1955; e L’Armada, del 1959, che, come si è detto, gli valse il Pulitzer e consacrò la sua fama anche presso il grande pubblico dei non specialisti.
Se ora siamo qui a parlare di lui, non è perché questo mite e decoroso professore americano abbia lasciato una traccia particolarmente originale o profonda nel suo campo di studi, tutt’altro; ma piuttosto perché in lui bene si esemplificano certe caratteristiche peculiari degli storici di estrazione protestante, specialmente nell’area anglo-sassone, nei quali l’orgoglio di stirpe e di nazione si fonde con la rocciosa convinzione di avere Dio dalla propria parte, sicché il loro nazionalismo si tinge di austere venature religiose – essi hanno una missione decisiva da svolgere nella storia dell’umanità: diffondere la “giusta” maniera di adorare il Dio dei cristiani – e il loro protestantesimo si alimenta e si rafforza di nobili motivazioni patriottiche – l’espansione imperiale dei loro stati finisce per realizzare i misteriosi disegni della Provvidenza divina.
Prendiamo, a titolo di esempio, la sua opera più famosa e celebrata, nella quale egli rievoca una delle battaglie decisive nella storia d’Europa, e non solo per ragioni militari e politiche, ma anche, e soprattutto, religiose e culturali: la spedizione condotta dalla flotta spagnola di Filippo II contro l’Inghilterra della regina Elisabetta, risoltasi nella sua sconfitta, nel Canale della Manica, presso Gravelines, l’8 agosto del 1588 (sconfitta in realtà non fu decisiva, ma cui si aggiunsero le tre violentissime tempeste che semidistrussero le navi superstiti sulla via del ritorno). In quell’opera, traspare chiaramente l’influsso della teologia proestante, e, insieme, di un ideale di tipo pacifista e socialista, quale poteva nutrirlo un americano che fosse anche buon cittadino e timorato di Dio, secondo il modello rappresentato, in politica, dal pastore presbiteriano Norman Mattoon Thomas (1884-1968), che fu anche esponente di spicco del Partito Socialista d’America. Di quell’opera vogliamo andare a rileggerci, perché particolarmente significativa ai fini del nostro discorso, la riflessione conclusiva (da: Garrett Mattingly, L’invincibile Armada; titolo originale: The Armada, Boston, Houghton Mifflin Co., 1959; traduzione dall’inglese Eladia Rossetto, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1967, pp. 324-326):
… Ad ogni modo, la sconfitta dell’Armada spagnola fu in un certo senso un evento decisivo, non tanto per i combattenti, quanto per gli osservatori. Sorprendente per gli esperti delle due parti l’esito di Gravelines, soprattutto avendo l’Armada fatto tutto il possibile. Ma a terra inglesi e spagnoli erano meno sicuri di sapere da che parte si sarebbe inclinato il piatto della vittoria, e altri lo erano ancora meno. Francia, Germania, Italia, avevano visto il colosso spagnolo passare di vittoria in vittoria. La Provvidenza, il disegno di Dio sempre più chiaro, il corso della storia futura, tutto sembrava in favore degli spagnoli: ma i cattolici francesi, tedeschi, italiani, che in quanto tali si compiacevano che la Spagna fosse evidentemente il campione prescelto della Chiesa di Dio, apprezzavano mediocremente l’eventualità di un dominio spagnolo, e dappertutto i protestanti erano altrettanto preoccupati e inquieti. Quando l’Armada sfidò gli antichi signori della Manica in casa loro, il conflitto in corso prese l’aspetto di un giudizio di Dio, in cui, come avviene in questi casi, Dio avrebbe preso le parti del giusto. La solennità dell’occasione fu ancora aumentata dalle profezie prodigiose riguardanti l’anno del conflitto, così antiche e venerabili che neppure i più scettici e disincantati potevano ignorarle del tutto. E quando le due flotte si avvicinarono alle acque prestabilite dello scontro, tutta l’Europa stava ad osservarle.
Per gli spettatori delle due parti, l’esito, determinato anche, come si credeva, da una grande burrasca, fu davvero decisivo. I protestanti di Francia e d’Olanda, di Germania e di Scandinavia scoprirono con sollievo che Dio era realmente dalla loro parte, come avevano sempre creduto. E i cattolici di Francia, Italia, Germania scoprirono con pari sollievo che la Spagna in fondo non era il campione scelto da Dio. Benché la preponderanza spagnola durasse ancora per più di una generazione, da quel momento si chiuse il periodo di massimo prestigio. Soprattutto la Francia, dopo il colpo di Stato di Enrico III a Bois, incominciò a ritornare all’antica funzione d’equilibrio di fronte alla casa d’Austria, e ad essere la maggior garante delle libertà europee, finché quelle libertà erano minacciate dagli Asburgo. Senza la vittoria inglese a Gravelines e la successiva conferma delle notizie dall’Irlanda, Enrico III forse non avrebbe mai trovato il coraggio di scuotere il giogo della lega e forse la storia successiva d’Europa sarebbe stata imprevedibilmente diversa.
Così, nonostante la lunga guerra non risolutiva che ne seguì, la disfatta dell’Armada spagnola fu realmente decisiva. Essa dimostrò che l’unità religiosa non poteva essere imposta con la forza agli eredi della Cristianità medioevale, e se, così facendo, convalidò soltanto quella che era già la conseguenza probabile, forse le battaglie cosiddette decisive hanno avuti sempre soltanto questa funzione. Non sapremo mai se il duca di Parma sarebbe riuscito a riconquistare alla Spagna Olanda e Zelanda, come aveva fatto per le province meridionali. Dopo il 1588 non ebbe più occasioni favorevoli, troppe delle sue scarse forze si erano logorate per sostenere la Lega contro Enrico di Navarra. Cominciavano a delinearsi gli stati territoriali, poi “nazionali”, tipici dell’Europa moderna, e dopo il 1588 ciascuno dei grandi stati non soltanto tese alla libertà, ma ancor più volle sentirsi libero, sviluppare le proprie energie individuali senza conformarsi a un sistema di credenze imposto dall’esterno. Tuttavia le potenze europee non erano abbastanza forti, né lo sarebbero state per secoli, per infliggersi reciprocamente danni irreparabili, e il problema di come combinare la libertà d’essere diversi con la sicurezza dalla distruzione totale fu rinviato al secolo in cui esso si sarebbe presentato.
Intanto, man mano che l’episodio dell’Armada si allontanava nel passato, influiva sulla storia in modo diverso. La sua vicenda, esaltata e deformata in un velo di nebbia dorata, divenne l’apologo eroico della difesa della libertà contro la tirannide, il mito eterno della vittoria del debole sul forte, del trionfo di Davide contro Golia. Nelle ore buie, infuse coraggio ai cuori degli uomini e fece sì che l’uno dicesse al’altro: “Quel che abbiamo fato una volta, possiamo di nuovo farlo”. Per aver raggiunto questo risultato, la leggenda della sconfitta dell’Armada spagnola divenne tanto importante quanto l’evento reale, e forse di più.
A conclusione del suo ragionamento, dunque, il Mattingly – dopo essere incorso nella cattiva abitudine di dire solo delle mezze verità, tipico della storiografia ideologica, come quando esalta la funzione della Francia quale arbitro e modello delle “libertà” d’Europa, e la sua utile funzione di contrappeso agli Asburgo d’Austria, ma tace sulla scellerata alleanza con i Turchi Ottomani quando essi minacciavano non solo Vienna, ma l’Europa intera – ammette, sì, che la ”leggenda” della sconfitta dell’Invincibile Armata fu più reale dell’evento stesso, ma, nel medesimo tempo, sembra compiacersene, visto il tono piuttosto trionfalistico della sua osservazione finale. E si capisce perché: da quella leggenda ebbe inizio la riscossa delle nazioni protestanti contro il fronte cattolico e contro la Chiesa di Roma, il che – secondo lui – ebbe una funzione decisiva nella nascita e nello sviluppo della moderna idea di “tolleranza”, che, altrimenti, non ci sarebbero stati, o, tutt’al più, si sarebbero verificati chissà quanto tempo dopo. Ora, a parte il fatto che ciò equivale ad accaparrarsi, anacronisticamente, i meriti di un determinato evento o fenomeno storico, non solo con il senno del poi, ma soprattutto mediante un giudizio arbitrario su chi o cosa ebbe quei meriti, e chi non li ebbe, o avversò quella benefica evoluzione; a parte questo, dicevamo, il Mattingly compie una forzatura inaccettabile quando suggerisce che, nella storia, l’importante non è quel che accade, ma quel che si crede sia accaduto, senza poi prendere le distanze, storiograficamente appunto, da una simile prospettiva, e senza evidenziare come il compito dello storico sia proprio quello di separare ciò che è leggenda da ciò che è realtà, per porre in risalto solo quest’ultima.
Il fatto è che la “leggenda” della sconfitta dell’Armada (l’espressione è sua, non nostra) fa troppo comodo alla sua tesi precostituita, ossia che quella sconfitta fu un bene, non solo per i protestanti di tutta Europa – e perfino, secondo lui, per i cattolici – ma per l’Europa in se stessa, in quanto creò le condizioni che avrebbero reso possibile la nascita e lo sviluppo dell’idea di tolleranza. Come dire che l’idea di tolleranza (Spinoza e Locke lo “dimostrerebbero”) è una acquisizione del pensiero protestante; mentre una eventuale vittoria spagnola, cioè cattolica, avrebbe ripiombato il nostro continente nelle tenebre del Medioevo, cioè nella repressione religiosa e nella superstizione. Ma tutto questo è falso, o, quanto meno, è altamente opinabile: e il compito dello storico che voglia portare avanti una propria tesi, semmai, è proprio quello di argomentare, di mettere avanti dei ragionamenti e, se possibile, delle prove a sostegno di ciò che afferma: non di darlo per acquisito solo perché, col senno del poi (vale a dire, con la ragione che sempre i vincitori avocano a se stessi), così dicono “tutti”. Ribadiamo il concetto: non vi sono affermazioni false nel modo di procedere di Mattingly, bensì delle frequenti mezze verità; e una verità incompleta, e tenuta volutamente come tale, equivale, di fatto, a una menzogna. Ciò che egli suggerisce è che, se l’Armada avesse vinto e l’Inghilterra fosse stata invasa e sottomessa dalle truppe del duca di Parma, e quindi, verosimilmente, anche ricattolicizzata, lo sviluppo dell’idea di libertà sarebbe stato ritardato per dei secoli; ma tace sul fatto che, nell’Inghilterra protestante, vigeva lo squartamento per i preti cattolici, la confisca dei beni e l’esilio per i cittadini che praticassero il culto cattolico, anche in privato, anche in segreto. Il fanatismo, l’intolleranza e la violenza a sfondo religioso esistevano da entrambe le parti, la protestante non meno della cattolica: e come tacere del rogo di Michele Serveto, nella “libera” Ginevra calvinista, per volontà esplicita dello stesso Calvino? Il rogo di Michele Serveto era divampato nel 1553, ben trentacinque anni prima dell’epica battaglia navale nel Canale della Manica: chi voleva prendere atto della brutale intolleranza religiosa dei protestanti, aveva avuto tutto il tempo per farlo. A maggior ragione uno storico americano del XX secolo, che aveva tutti i documenti a disposizione. Né si dimentichi che, nell’Europa protestante, si bruciavano più streghe, o presunte streghe, e stregoni, di quanti se ne bruciassero nell’Europa cattolica.
Dove, tuttavia, il modo di procedere dell’Autore ci sembra più criticabile, è proprio nella conclusione: che le ripercussioni della leggenda della sconfitta dell’Armada furono altrettanto reali, anzi, persino più notevoli, del fatto in se stesso. Tradotto nel linguaggio della storia moderna, sarebbe come affermare che la leggenda dell’attacco “inaspettato” di Pearl Harbor, da parte del Giappone, fu più importante della realtà: una affermazione che si può anche fare, a patto di soggiungere, subito dopo, che di una leggenda, appunto, si trattava, e che l’opinione pubblica americana fu abilmente manipolata dal presidente Roosevelt per trascinarla là dove egli aveva solennemente promesso di non condurla, se fosse stato rieletto: alla guerra. E la stessa cosa si può dire, restando nell’ambito della storia americana recente, a proposito dell’esplosione della corazzata Maine, nel 1898, nel porto dell’Avana, che diede occasione allo scoppio della guerra contro la Spagna; oppure all’affondamento del transatlantico Lusitania, nel 1915, che preparò al presidente Wilson il terreno per portare l’America in guerra contro gl’Imperi centrali. Gli storici anglosassoni sembrano pensare che il loro mestiere consiste nel dimostrare che il Dio dei protestanti è dalla parte delle loro nazioni, e che esse, come Davide contro Golia, lottano e vincono (ieri come oggi) perché rappresentano la causa della giustizia. Ma è proprio vero che la Spagna del 1588 era il gigante Golia e l’Inghilterra era il piccolo Davide? Perché, se cadesse questa tesi, cadrebbe anche tutto il resto…
Come gli studiosi protestanti manipolano la storia per auto-glorificare la loro causa
di Francesco Lamendola
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