La prostituzione e la misericordia della Chiesa
E’ chiaro come una certa esplosione modernista (o implosione visto che è interna alla Chiesa) si è avuta a causa dei “sensi di colpa” di molti cattolici (preti, frati, vescovi, papi, laici e suore) i quali, guardando al proprio passato schiavi di una certa propaganda ottocentesca anticlericale, massonica e pure protestante, si vergognavano della Chiesa interpretando e salutando così l’avvento del Concilio come un “voltare pagina e ricominciare tutto di nuovo, con una nuova Chiesa ripulita da un certo passato“… Oggi le cose sono peggiorate, molti Cattolici non amano il proprio passato, si vergognano di questo passato, si vergognano della propria Madre! Molti altri se ne vergognano ma non conoscono affatto la sua storia, o la rifiutano, o si accontentano di come la dipingono certi falsi maestri. Basti pensare a come viene dipinto il Concilio di Trento, un evento del quale vergognarsi, e con la pretesa che l’ultimo Concilio lo abbia così cancellato. Per questi falsi maestri il Vaticano II è stato il “cavallo di Troia” attraverso il quale fondare una “nuova” chiesa appoggiata sui loro sensi di colpa, una chiesa a misura d’uomo, una chiesa ad personam, una chiesa libera da dogmi e precetti colpevoli e responsabili di tanta frustrazione. Insomma, questa Madre, di ben duemila anni, proprio non piace! Non si vuole comprendere che a cambiare non deve essere la Madre, ma i figli che dovrebbero (e debbono come insegnano i Santi) cambiare per diventare, appunto, Santi.
Con questi sentimenti e professando la fede nella Madre Chiesa che Gesù Cristo ci ha dato perché ci santificasse, e non per essere da noi “aggiornata” a seconda delle mode dei tempi, vi offriamo quanto segue che è uno spaccato su come la Chiesa trattasse, in passato, il problema della prostituzione. Vi accorgerete che, forse, è stata più “misericordiosa” in passato che oggi. A parte il compianto Don Oreste Benzi con la sua opera umanitaria atta a liberare le donne costrette alla prostituzione, non ci sembra oggi che le diocesi brillino di più di quanto brillasse la Chiesa in passato su questi atti di autentica misericordia.
Quando la peccatrice diviene Sposa (*)
Poiché credevano alla possibilità e alla realtà dell’amore nel matrimonio, i monaci del XII secolo non potevano provare che dell’avversione per delle unioni in cui non vi è né amore né matrimonio. Più che nell’adulterio, che non rompeva il matrimonio e poteva comportare dell’amore, vedevano nella prostituzione l’anti-modello per eccellenza dell’amore coniugale; di conseguenza, ciò che lo faceva apprezzare.
Tuttavia, la loro reazione a questo proposito era complessa, perché la prostituzione non era solamente un fatto. Era stata utilizzata frequentemente dalla Sacra Scrittura come simbolo di certi momenti di crisi nelle relazioni tra Dio e il suo popolo. Non era dunque priva di significato e, in questo senso, di valore: come il matrimonio, era una metafora. Bisogna dunque, per cogliere il modo in cui i monaci ne discernevano il senso, richiamare brevemente il passato di questo tema, poi ciò che era la realtà della prostituzione e gli atteggiamenti che, nell’ambito pratico, suscitava tra i cristiani e specialmente, tra loro, tra i religiosi.
Una metafora tradizionale
Nella tradizione biblica la prostituzione era, secondo i casi, una realtà o un simbolo. In quanto realtà sociale — profana o, in certe religioni pagane, sacra — era stata condannata dagli autori dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ma gli uni e gli altri avevano talvolta attribuito a questa realtà il valore di un’immagine o di una parabola per evocare, sia l’infedeltà del popolo o di uno dei suoi membri verso Dio, sia il pentimento e la conversione a Dio.
Tamar; Raab; Dalila, che dominò Sansone; la madre di Jefte; Gomer, cui il profeta Osea si era unito per comandamento divino; le due prostitute che, davanti a Salomone, si disputano un bambino che amavano, e così di seguito, sino, nell’Apocalisse, Babilonia la grande: altrettante immagini che avevano sia svolto un ruolo storico, sia servito da simbolo, e talvolta tutte e due. Si sapeva che vi erano state diverse prostitute nella genealogia di Cristo: hanno dunque avuto un ruolo “provvidenziale”. L’autore della lettera agli Ebrei (11,32), facendo l’elogio di quelli e quelle che furono salvati per fede, scrive, riferendosi a Giosuè: «Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, avendo accolto con benevolenza gli esploratori» (2,11 e 6,17).
Diversi commentatori hanno avanzato molte ipotesi per spiegare la presenza di questa prostituta tra i modelli proposti; illustra «il trionfo della fede sull’essere più degradato». E, certamente, ci si ricordava anche di quella Maddalena cui Gesù aveva perdonato e di cui aveva preso le difese. Sarebbe facile trovare abbondanti testi biblici, patristici e medioevali a proposito di ciascuno di questi casi. Senza dimenticare il ritratto, tracciato con tanta arte, della prostituta nel libro dei Proverbi (7,7-9).
E facile allora capire come il tema paradossale della «casta prostituta» sia divenuto, nella tradizione patristica, il simbolo della Chiesa, che è insieme santa e costituita da peccatori.
Nell’agiografia, un caso illustre è quello di san Nicola da Bari, che aveva salvato dalla prostituzione tre ragazze che vi erano destinate, e che la leggenda e l’iconografia avrebbero trasformato in tre ragazzi per evitargli di peccare.
Poiché nell’Antichità, come nel Medioevo, la prostituta non era soltanto la povera donna che si guadagna da vivere come può, o secondo una facile etimologia — meretrix a merendo — colei che meritava la sua ricompensa (cfr. Sant’Isidoro di Siviglia, Dottore della Chiesa). Era anche quella professionista del lusso che s’ingegna, con danze, gesti, canti, ad eccitare le immaginazioni, a sedurre uomini sposati, a sviarli dalle loro spose: “bisognava dunque mettere in guardia, nello stesso tempo, contro tutte quelle e tutti quelli che costituivano un pericolo per l’amore coniugale: cortigiane, mimi, gente di teatro e di balletto, che davano spettacolo di se stessi e dei loro vizi”. (cfr San Giovanni Crisostomo).
Così si confondevano in una stessa condanna quanti venivano chiamati scurrae, histriones, pantomimi, ioculatores, comici, scenici e con una ventina di altri nomi. In effetti nel XII secolo erano una legione e Pietro il Cantore constatava «che in effetti tutti dovevano trattare in pubblico con prostitute, giullari e mimi».
Ma vi erano, tra questa gente giuridicamente malfamata – infames -, uomini e donne che avevano buoni sentimenti. E tutti e tutte rimanevano capaci di acquisirne con la conversione. Tanto, nell’XI secolo, davanti alla corruzione del clero, un monaco riformatore come san Pier Damiani aveva dovuto denunciare con vigore, e persino con violenza, le prostitute come pericolose, altrettanto, nel XII, si insisteva sul fatto che non erano radicalmente cattive: non lo erano che di fatto e potevano cessare di esserlo, a condizione che le si aiutasse. La letteratura monastica, dalle sue origini, offriva degli esempi illustri di santi eremiti che erano andati, non senza correre dei rischi, alla loro ricerca, e di alcuni successi. Quelle che più tardi furono pudicamente chiamate le «sante penitenti» erano all’inizio delle «sante puttane»: come la nipote di sant’Abramo, come Pelagia, come Taide. Le loro Vite continuavano ad essere lette, in particolare le leggende di santa Maria Egiziaca, quella di santa Taide, e di essere oggetto di amplificazioni: nel X secolo, la seconda offrì la materia ad uno dei drammi di Rosvita e, a partire dal XII secolo, ad un lungo romanzo francese.
Una realtà sociale
L’interesse allora rivolto alle prostitute non è che una delle manifestazioni del movimento in favore della povertà che si sviluppava, in particolare, tra gli eremiti; poiché questi praticavano la povertà, dimostravano compassione verso i diseredati di ogni tipo e predicavano in loro favore.
Questa era «la clientela degli eremiti: lebbrosi e prostitute accorrevano alla buona novella di un Cristo che aveva amato Lazzaro e perdonato Maria Maddalena! In particolare, reintegrare le donne pentite nella vita comunitaria era talvolta anche un mezzo per protestare contro i costumi poco edificanti di certi capitoli cattedrali non riformati. L’apostolato esercitato tra le prostitute entusiasmava le folle anche per questa ragione. L’ideale della povertà era cosi associato a quello della purezza, ed erano queste le conseguenze dell’impulso spirituale impresso dalla riforma gregoriana».
Nel XII secolo, il beato Roberto d’Arbrissel aveva fondato a Fontevrault un monastero di monache che comprendeva quattro edifici: il primo dedicato alla Madonna, per le vergini e le vedove; il secondo, dedicato a san Benedetto, per i malati; il terzo, dedicato a san Lazzaro, per i lebbrosi; il quarto, dedicato alla Maddalena, per le prostitute pentite.
Tuttavia, dal momento che non tutte queste ultime perseveravano, Vitale di Savigny, sempre nel XII secolo, si sforzava di «procurare loro un matrimonio legittimo».
Simili iniziative preparavano la strada alle riflessioni dei canonisti e dei teologi e agli atteggiamenti adottati da alcuni religiosi a partire dalla seconda metà del XII secolo.
Il problema della prostituzione era particolarmente discusso in quella città di Parigi, in cui tanti chierici erano studenti. I maestri Pietro il Cantore, Roberto Courson, Stefano Langton, Pietro di Poitiers, Martino, Tommaso di Chobham e altri riaffermavano le due convinzioni che erano tradizionali, ma precisandone le conseguenze e le applicazioni.
Da una parte, disapprovavano la prostituzione; così quelle prostitute che erano note pubblicamente come tali ed erano incorreggibili venivano scomunicate, cioè non potevano assistere alla messa e non potevano ricevere la comunione. Se questa sanzione non fosse bastata, si aveva persino il diritto di espellerle dalla città. Ma, d’altra parte, si osservava e si raccomandava verso di loro un atteggiamento di dolcezza e di carità evangelica, ispirata insieme dalla compassione che si provava per loro e dalla speranza che si continuava a nutrire di vederle convertirsi. Di conseguenza, erano ammesse in chiesa nel momento dell’offerta delle preghiere e del bacio della pace; potevano, con le altre donne, presentare i ceri ai vespri della domenica.
Si ammetteva che non erano tenute a restituire il denaro che avevano guadagnato legittimamente, anche se illecitamente. Avevano il diritto, e persino il dovere, di offrire del denaro per delle cause pie, in particolare per i poveri, in segno di pentimento e del desiderio di convertirsi. Maria Maddalena non aveva cosparso i piedi del Signore con l’unguento che si era procurato con una vita di peccato?
In particolare, quando, sotto l’episcopato di Maurizio di Sully, si costruì la cattedrale di Notre Dame a Parigi, alcune di loro vollero offrire calici e vetrate. Ma, se questo fosse avvenuto pubblicamente, avrebbe potuto essere mal compreso dai fedeli; così certi teologi sostennero che le loro offerte potevano essere accolte a condizione che fossero fatte discretamente: altrimenti, si sarebbe data l’impressione di approvare il loro modo di vita.
Da tutte queste discussioni si coglie il posto che occupavano nella teologia e nella pastorale di allora. Anche Folco di Neuilly e altri predicatori si occuparono molto di loro. Nei loro sermoni, le esortavano a convertirsi, e s’impegnavano attivamente a facilitarlo loro. Così, quando predicava a Parigi nel 1198, Folco fondò il monastero cistercense di Saint-Antoine, nei dintorni di Parigi, per quelle di loro che volevano entrarvi. Ma per quelle che temevano di non poter perseverare nella continenza, cercò un’altra soluzione. Poiché la povertà che impediva loro di recare una dote era, per molte, l’ostacolo ad un legittimo matrimonio, costituì un fondo destinato ad assicurare loro delle doti.
Secondo il cronista benedettino Ottone di Saint-Blaise, gli studenti di Parigi versarono duecentocinquanta lire d’argento e la borghesia più di mille lire. Nello stesso tempo, Innocenzo III dichiarava che tutti coloro che redimevano delle prostitute e le sposavano, compivano un’opera meritoria per la remissione dei loro peccati.
Naturalmente questo consiglio non si rivolgeva ai religiosi; ma questi si dedicavano ad un ministero apostolico presso di loro. A Oxford, il rettore degli studi era incaricato di una catechesi destinata a queste ragazze.
Dal 1140 circa, il monaco Graziano aveva fissato le norme secondo cui i canonisti posteriori avrebbero trattato il problema della prostituzione nel suo insieme.
Per quanto non facessero del sentimento, né cercassero di entrare in quelli delle prostitute, i canonisti manifestavano verso di loro molta più comprensione di quanto non avesse dimostrato il diritto romano, sotto l’influsso, indubbiamente, di quella realtà cristiana che è la carità. Nella scia di questo atteggiamento di comprensione si svilupparono, da una parte, la dottrina dei decretalisti e, dall’altra, gli istituti destinati ad accogliere antiche prostitute come religiose: lo scopo era sempre la loro conver-sione e la riforma della loro vita.
Un altro riflesso dell’atteggiamento verso le prostitute si trova nella letteratura dei fatti meravigliosi, miracula, attribuiti ai santi, e degli exempla redatti per i predicatori. Indubbiamente diversi di questi racconti sono stati trasmessi da testimoni del tardo Medioevo. Ma vi è, alla origine del loro insieme, un fondo comune di storie edificanti che è in parte anteriore al XII secolo e risale talvolta all’antichissima letteratura monastica.
Il male costituito dalla professione della prostituzione è denunciato talvolta dallo stesso demonio (cfr. anche i Dialoghi di San Gregorio Magno), che si spinge a rivestire l’apparenza di queste peccatrici per tentare gli sposi fedeli, monaci e preti. Esse imperversano in tutte le classi della società: anche un re è ridotto come in schiavitù da una di loro. Le concubine dei preti sono loro assimilate. Accade che una stessa punizione le colpisca insieme ai loro complici: per esempio muoiono insieme strangolati. O, ancora, un leone attacca e uccide una prostituta e il suo protettore. Dopo la loro morte, il diavolo si porta via il cadavere delle colpevoli. Eccezionalmente, una monaca decide di raggiungere delle prostitute. Ma più frequentemente sono loro che si convertono. Ora il Bambin Gesù distoglie il suo sguardo da una di loro, ora il Cristo parla loro. Degli uomini di Dio si recano da loro per esortarle. Si pentono, si confessano; ve ne sono alcune che si ritirano nel deserto.
Tra gli scrittori monastici testimoni del XII secolo, abbiamo visto prima che Guiberto di Nogent, Galtiero di Cluny e Guglielmo di Malmesbury contrappongono una sposa abbandonata, ma piena di rancore, ad una «peccatrice», espressione applicata a Maria di Magdala nel Vangelo: la seconda è umile e dolce, il che viene più apprezzato dalla Vergine Maria e, sicuramente, anche dai monaci che raccontano la storia perché serva da esempio: l’umiltà e la bontà non sono virtù cristiane inferiori alla castità.
Tra i cistercensi, Cesario di Heisterbach si fa eco del «potere irresistibile posseduto da donne di questo genere: non vi è nulla che non possano estorcere dagli uomini».
E cita l’esempio di un guardiano delle reliquie di san Giovanni Battista, nell’ospedale che gli è dedicato a Gerusalemme: questa «ignobile donna» (turpis femina) riesce a corromperlo e a fargli vendere ad un mercante un intero braccio del Precursore.
È vero che la congenita debolezza che si attribuisce al sesso femminile vale loro una compassione speciale: il monaco e il novizio che Cesario fa dialogare si trovano d’accordo nel considerare come più grave la colpa di un prete di quella della sua concubina.
Per terminare, ecco l’inizio di un lungo inno di Alano di Lilla in onore del matrimonio:
“Oh! quanto è grande la dignità del matrimonio! Incominciò in Paradiso. Evita il vizio dell’incontinenza. Contiene in se stesso un sacramento celeste. Garantisce quella fedeltà al letto coniugale che conserva tra gli sposi una comunità di vita senza divisione. Libera la discendenza dall’infamia, rende esente da colpa il commercio carnale. In questo stato, i Patriarchi si sono guadagnati la loro salvezza, gli Apostoli sono stati scelti. Come è grande la potenza di questo sacramento: grazie ad essa, ciò che farebbe cadere nel precipizio della lussuria e dell’incontinenza, è assunto dall’onestà coniugale”. (Summa de arte praedicatoria. Ad coniugales, F.L., 210, 193)
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– dallo stesso libro vedi qui: San Bernardo e il vero matrimonio amplexio e amplexus
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Note
(*) I Monaci e il Matrimonio dell’abate Jean Leclercq – 1982 Ed. SEI
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