GESU' E LA SAMARITANA
Hai detto bene: Non ho marito… L’episodio di Gesù e della Samaritana è uno dei più belli, dei più struggenti, dei più intensamente veri e, allo stesso tempo, poetici di tutte le Sacre Scritture
di Francesco Lamendola
Giunse pertanto in una città della Samaria chiamata Sicar, vicino alle terre che Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe. Lì c’è il pozzo di Giacobbe. Gesù, stanco per il cammino, sedeva presso il pozzo. Era circa l’ora sesta (il mezzogiorno). Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Gesù le dice: “Dammi da bere”. I suoi discepoli infatti erano andati in città per comperare provviste. Ma la donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me che sono Samaritana?”. I Giudei, infatti, non mantengono buone relazioni con i Samaritani. (Gv 4, 5-9)
L’episodio di Gesù e della Samaritana è uno dei più belli, dei più struggenti, dei più intensamente veri e, allo stesso tempo, poetici di tutte le Sacre Scritture. Ed è anche scritto con arte somma: come, del resto, lo è tutto il quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni, che è una vera e propria perla letteraria, oltre che uno scrigno di sublime sapienza teologica. Colui che lo ha scritto non voleva essere un artista, non voleva fare della poesia: eppure esso ha un tale sapore di verità, di freschezza, di profondità, quale raramente è dato incontrare in un’opera scritta e quale, perfino, di rado si esperimenta nel proprio percorso di vita. Leggerlo è come trovarsi a tu per tu con l’Assoluto; e l’Assoluto emerge, d’improvviso, dai toni modesti, non appariscenti, della vita quotidiana. È un prodigio, semplicemente: qualcosa che lascia a bocca aperta.
Giunse pertanto in una città della Samaria chiamata Sicar, vicino alle terre che Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe. Lì c’è il pozzo di Giacobbe. Gesù, stanco per il cammino, sedeva presso il pozzo. Era circa l’ora sesta (il mezzogiorno). Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Gesù le dice: “Dammi da bere”. I suoi discepoli infatti erano andati in città per comperare provviste. Ma la donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me che sono Samaritana?”. I Giudei, infatti, non mantengono buone relazioni con i Samaritani. (Gv 4, 5-9)
La situazione è già insolita per il fatto che un gruppo di Giudei sta attraversando la Samaria, cosa che in genere essi evitavano: per recarsi da Gerusalemme alla Galilea e viceversa, infatti, di solito si tenevano accosto alla riva del Giordano e, se necessario, attraversavano il fiume, per poi risalire alla Città santa all’altezza di Betania, giunti quasi al Mar Morto. I discepoli se ne vanno per acquistare del cibo e Gesù rimane solo, seduto al pozzo, mentre arriva una donna samaritana e subito intavola con lei una conversazione: seconda stranezza. Un uomo che parla a una sconosciuta; un Giudeo che parla a una donna di Samaria: ciò era contro tutte le regole vigenti, non scritte, ma assai rigide; tanto è vero che, quando tornano i discepoli, se ne meravigliano alquanto, e muoiono dalla voglia di sapere che cosa stia succedendo, anche se non osano far domande al Maestro.
Gesù, dunque, è seduto presso il pozzo di Sicar: è mezzogiorno, fa molto caldo, e lui è stanco. Molti cristiani sono abituati a pensare a Gesù come a un superuomo, o come a una entità disincarnata, che non ha fame, non ha sete, non ha sonno, non avverte la stanchezza – almeno fino al momento della Passione. Invece qui ci troviamo di fronte a un Gesù fisicamente stanco e assetato, come qualsiasi altro essere umano, dopo un lungo cammino sotto il sole a picco. Un’altra volta, nell’episodio della risurrezione di Lazzaro, lo si vede addirittura piangere per la commozione. I Vangeli non cercano di nascondere questi aspetti della umanità, e quindi della fragilità, di Gesù; sono i cristiani che non vogliono prenderne nota. È più facile pensare a un Messia onnipotente, che, tutto sommato, fa finta di essere uomo, ma che, essendo Dio, ha sempre il paracadute pronto per qualsiasi evenienza, e, se dovesse cadere, non si farebbe male. Invece no, Gesù non aveva alcun paracadute. Quando il Diavolo, tentandolo, lo sfidò a gettarsi dal pinnacolo del Tempio, se egli si fosse lasciato tentare da quel peccato di vanità, si sarebbe certamente sfracellato, come qualunque altro essere mortale. Il Verbo non si è incarnato per finta: questa, semmai, è la vecchia eresia dei monofisiti. Gesù aveva in sé due nature, la divina e l’umana; ma, uomo fra gli uomini, scelse di condividere con essi la loro condizione, sino in fondo, fame, sete e stanchezza comprese. Se così non avesse fatto, nemmeno la Resurrezione sarebbe stata reale, ma solo apparenza, e la redenzione sarebbe stata vanificata: come si può redimere qualcuno, se non si condivide la sua sorte fino in fondo, morte compresa?
Dunque, arriva la donna e si dispone ad attingere l’acqua del pozzo con la sua brocca; Gesù, che la osservava in silenzio, senza tanti preamboli, le chiede, anzi, le ordina di dargli da bere. Non dice: “Per piacere”, ma soltanto: “Dammi da bere”. È una richiesta, ma fatta con tono imperativo; tono che appare doppiamente incongruo, sia perché, come straniero, come uomo e come Giudeo, egli non dovrebbe neppure rivolgerle la parola, sia perché, non avendo nulla per attingere, ed essendo visibilmente stanco e assetato, non sembrerebbe in grado di pretendere nulla, e dunque dovrebbe, come minimo, mostrare un poco di umiltà, insomma tentare d’impietosirla.
Si ponga mente alla situazione: si fa presto a dire sete. Oggi, se si ha sete durante una escursione o una gita turistica, basta introdurre un paio di monete in un distributore automatico, a qualunque ora del giorno o della notte: non servono negozi aperti, e tanto meno brocche, fontane o pozzi. I contenitori di plastica, poi, hanno semplificato ulteriormente le cose: è difficile farsi sorprendere dalla sete, quando si può portarseli sempre dietro, con pochissima spesa e quasi nessuna fatica. Ma allora non era così; e la sete, in un Paese arido e assolato, come la Palestina, era un affare serio. Trovarsi mezzi disidratati, dopo molti chilometri di viaggio a piedi, sotto il sole cocente del mezzodì, senza nulla cui attingere, e sia pure davanti a un pozzo d’acqua fresca, era non solo imbarazzante, ma tormentoso: come il supplizio di Tantalo. Si ricordi quel che dice l’Evangelista: Gesù era assetato, non faceva finta di aver sete, come probabilmente avrebbe pensato l’eresiarca Eutiche, per il quale la natura divina di Gesù assorbiva interamnente quella umana, per cui, alla fine, restava solo la sua natura divina. Aveva sete, era a due passi dall’acqua fresca, ma non poteva bere; e intanto una donna, una straniera, appartenente a una comunità ostile, stava attingendo con la sua brocca, sotto i suoi occhi. Chi non ha mai provato la sete, la sete vera, tormentosa, non può immaginare veramente la scena: lei che attinge l’acqua fresca e lui che la osserva, assetato e accaldato, senza potersi bagnare neppure le labbra.
Fin qui, il Gesù umano; ma c’è anche il Gesù divino, il Verbo incarnato. Non è un caso se egli è seduto lì, in quel momento; e non è un caso se ora si trova accanto proprio quella donna: nulla avviene a caso, tanto meno nella vita di Cristo. Gesù la conosce: sa chi è, perché al suo sguardo interiore il film della sua vita scorre senza possibilità di finzioni. Gesù, impotente come uomo, perché assetato e privo di una brocca, si accinge a impartire a quella donna straniera una lezione meravigliosa, che rivela una tenerezza, una sollecitudine infinite. L’appuntamento col destino ha permesso a quella donna, di cui non sappiamo nulla, neppure il nome, di imbattersi nell’evento più grande di tutti, quello che sconvolgerebbe la vita del più sapiente filosofo o del sovrano più famoso: l’incontro con il Verbo fatto uomo; e la consolazione provvidenziale, infinitamente preziosa, di poter ascoltare le Sue parole, di potersi abbeverare – lei, che ha i mezzi per bere quando vuole – alla sorgente di Verità che Lui le sta per offrire.
La scena è pronta: i personaggi ci sono, la situazione è – apparentemente – chiara; ma niente è come sembra. Lei, in casa sua, con la sua brocca sul capo, sembra la più forte; Lui, straniero e assetato, pare il più debole: fra i due, è lui quello che deve domandare, e lei quella che può concedere o no. Infatti, quando Gesù le chiede, anzi, le dice: Dammi da bere, lei, invece di rendergli il favore, o, se si vuole, l’atto di misericordia – si ricordi la dura ostilità, anche di natura religiosa, che separa i due gruppi – vuol far pesare la sua posizione di forza, e a sua volta lo interroga: Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono Samaritana? Forse è malizia; forse, prudenza. Se li vedessero, i suoi compaesani potrebbero criticarla, o peggio: non sta bene, per una donna samaritana, dare da bere a un Giudeo; neppure se a farlo è una donna dalla dubbia reputazione, come questa. Dunque, forse lei vuole mettere Gesù alla prova, e lo sfida a darle una buona ragione perché lei debba accontentarlo; forse, vuole impartirgli una lezione, fargli abbassare quel tono di comando, fargli capire che deve essere umile e che non può permettersi di pretendere alcunché; forse, infine, vuole semplicemente guadagnare tempo, sperando che qualcosa accada: che arrivi qualcuno, che qualcosa la tolga da quella situazione imbarazzante, compromettente. Lei non dovrebbe nemmeno parlare con lui; invece, una curiosità invincibile la sta catturando. Quell’uomo ha un’aria fuori del comune: il suo aspetto, la sua voce, il suo sguardo, non sono affatto ordinari; e poi, che stranezza, quel chiedere da bere, con assoluta tranquillità, come se fosse una cosa dovuta, quando invece vi sono diverse ragioni per cui non avrebbe neanche dovuto parlarle. Possiamo immaginare che la donna sia giovane e bella; non giovanissima, perché ha avuto sei mariti: ma, allora, le ragazze si sposavano prestissimo, per cui, in teoria, potrebbe avere poco più di vent’anni. Ma potrebbe anche averne trenta, o quaranta: nessuno lo sa. È probabile che fosse bella, o che fosse, comunque, affascinante, perché una vita così movimentata presuppone una certa inquietudine, ma anche una capacità di seduzione non comune. Sposare una vedova o una divorziata, allora, non era cosa molto gradita agli uomini; tanto più che il divorzio avveniva a senso unico, e cioè per il ripudio da parte del marito, cosa che si giustificava, di solito, con l’adulterio o col sospetto della infedeltà di lei. Un’altra possibilità era la sterilità: forse la donna non poteva avere figli; e gli uomini ci tenevano moltissimo, sposandosi, a propagare la loro discendenza. Anche qui, le differenze culturali con la società moderna sono talmente grandi, che a stento si riesce a immaginare quale fosse realmente la situazione in cui si verificò l’incontro fra Gesù e la Samaritana. Tutto quel che sappiamo, però, ci permette d’intuire che fossero circostanze difficili, aggrovigliate, ambigue: un vero e proprio nodo di contraddizioni, quasi impossibile da sciogliere.
Gesù le risponde: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice: ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato dell’acqua viva”. Gli disse la donna: “Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli ed il suo gregge?” (Gv 4, 10-12)
La Samaritana, dunque, si sente forte: lei ha la brocca piena d’acqua, lui no; lei è nel suo paese, lui no; lei è bella, se ha saputo accendere la passione di tanti uomini diversi, nonostante la cattiva fama che l’accompagna; a Sicar, le altre donne dovevano guardarla un po’ come i compaesani della Lupa nella celebre novella del Verga guardavano lei, la ‘Gnà Pina, che si spolpava i loro figli e i loro mariti e che aveva fatto perdere l’anima anche al quel sant’uomo del parroco. Pensava forse di divertirsi un po’, giocando come il gatto col topo: Vediamo come farà questo Giudeo, palesemente assetato, a indirmi a dargli da bere, visto che si trova in condizioni di debolezza; voglio tenerlo un po’ sulla corda, vedere come se la cava. E se resiste al mio fascino, se mi prega per la mia bellezza. Del resto, tutti gli uomini mi guardano con desiderio, ma questo, no: possibile che io lo lasci indifferente? Mi ha detto: Dammi da bere, come se fossi la sua serva; ma io non sono la sua serva, e, per giunta, so di esercitare un potere sugli uomini: voglio piegare anche lui, voglio vedere se si ammansisce e se nei suoi occhi compare la luce del desiderio. A quel punto, potrei anche dargli da bere; ma non prima. Voglio gratificare il mio io; devo avere una ulteriore conferma all’ascendente che so di esercitare su tutti gli uomini, giovani e vecchi.
Stiamo lavorando troppo di fantasia? Non crediamo. Ci sono tutti gli indizi per pensare che i pensieri della Samaritana, in quel momento, non fossero molto lontani o molto diversi da quelli che abbiamo provato a ricostruire. Quella donna, per come ce la presenta il Vangelo di Giovanni, doveva essere molto femminile; e la psicologia femminile si muove in questo ordine di pensieri e sentimenti, a meno che si tratti di quello che Nietzsche chiamava il tipo femminile superiore, che è anche molto al disopra del tipo maschile superiore. Questo, però, non sembra il nostro caso: la Samaritana doveva essere bella, intelligente, interessante: ma non particolarmente evoluta sul piano spirituale. Più curiosa, che profonda; più maliziosa, che sensibile. In lei si manifesta l’eterno femminino: quello che spinge una bimba di tre o quattro anni a pavoneggiarsi davanti allo specchio, indossando i vestiti o i cappelli di sua madre, e sbirciandosi con una punta di malizia nello sguardo per misurare l’effetto.
Gesù la spiazza, la incuriosisce, la sfida: le dice che, se lei sapesse di quale acqua egli è portatore, lei stessa lo pregherebbe di dargliene. Punta sul vivo della propria curiosità, ma forse più divertita che incuriosita, lei allora lo provoca: se lo straniero non ha una brocca, come potrà darle dell’acqua? E quale acqua, poi? Lei ha capito che non si tratta di quell’acqua, di quel pozzo; ma di quale acqua e di che pozzo, allora? Pensa sempre, ovviamente, ad un’acqua materiale; e, quasi irridendolo, gli domanda se ritiene di essere più grande di Giacobbe, il quale, in antico, scavò quel pozzo per sé e per tutti i suoi animali.
Rispose Gesù: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve del’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”. “Signore, disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”. Le disse: “Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui. (Gv 4, 13-16).
È arrivato il momento di lasciar cadere la maschera e di andare dritto al nocciolo della questione. Gesù si serve di questa schermaglia fra un uomo e una donna spavalda, di questo gioco di sottintesi e di furbizia fra chi ha la brocca e chi non ce l’ha, per introdurre il discorso veramente serio: la conversione, la parola di Dio, la vita eterna. Questa è sempre stata la pedagogia di Gesù: partire dal quotidiano per arrivare all’eterno. I suoi discorsi, le sue parabole, sono pieni di pastori, di vignaioli, di servi, di padroni, di vergini, di sposi, di pecore, di monete smarrite e ritrovate, di zizzania e di buon grano: tutte cose e persone tratte dalla vita d’ogni giorno. Niente discorsi colti, niente ragionamento filosofici: Gesù vuole essere un pescatore di uomini, e rendere i suoi discepoli simili a sé; vuole essere come il buon pastore per il suo gregge: vuole farsi tutto a tutti. Va in casa del pubblicano e si lascia lavare e profumare i piedi da una peccatrice, incurante del mormorio dei benpensanti: non rifiuta nessuno, se non chi rifiuta Colui che lo ha mandato, Una sola volta lo vediamo rifiutarsi di parlare con chi lo interroga: quando è davanti a Erode Antipa, l’assassino del Battista. Con tutti egli è sempre aperto al dialogo, e con tutti coglie la più piccola occasione per aprire una breccia nei cuori, per gettare il seme della conversione. Nei suoi discorsi non vi è traccia di mondanità, di frivolezza, di banalità: tutte le occasioni gli servono per cercar di giungere al fondo dell’anima del suo interlocutore. Non ci sentivamo forse ardere il cuore in petto, mentre ci parlava?, diranno i discepoli di Emmaus, dopo la sua partenza. Questo fascino, questo fluido, questo magnetismo inesprimibile a parole, deve aver caratterizzato tutte le relazioni di Gesù con gli altri uomini: impossibile stargli vicino e non sentirlo. C’era qualcosa, in lui, nello sguardo, nella voce, nel portamento, di terribilmente serio, ma anche d’infinitamente dolce e accogliente. Ciò non significa che fosse un predicatore sdolcinato, alla Zeffirelli: sapeva essere anche estremamente severo. Certi suoi discorsi contro l’ipocrisia dei farisei sono terribili; ed è terribile la maledizione che lancia contro i seminatori di scandali. Quando, poi, si scaglia contro i profanatori del Tempo, sembra un profeta adirato del Vecchio Testamento. Ciononostante, egli emanava un flusso quasi insostenibile di amore: gli altri lo percepivano e ne restano confusi, turbati. Un flusso anche fisico, tanto che l’emorroissa volle toccare la veste di Gesù per essere guarita; e Lui, immediatamente, sentì che una parte della sua energia divina era uscita, e vi volse per vedere chi lo avesse toccato. In una folla di centinaia di persone che lo stringeva e lo premeva da ogni parte!
Anche la Samaritana percepisce quel flusso; quella calma, quella compostezza, quelle parole misteriose, le accendono nell’anima un sentimento nuovo: poco a poco, la curiosità maliziosa comincia a cedere il posto ad un atteggiamento nuovo, più serio, più sincero. Sentendo parlare dell’acqua di vita eterna, intuisce che deve trattarsi di un dono grandissimo; e, chiamando ora “signore” quello straniero, che prima trattava con una certa diffidenza, mista a un senso di superiorità, ora è lei a chiedergli come un favore di ricevere quell’acqua prodigiosa. Oppure sta ancora celiando, si sta ancora prendendo gioco di Lui, Lo sta provocando, vedendo benissimo che egli non ha con sé né brocca, né otre, né alcun altro recipiente? Se è così, Gesù decide di stringere i tempi della sua pedagogia e mette le carte in tavola: per metterla alla prova, le ordina di andare a chiamare suo marito e poi di ritornare. Non sta bene proseguire quella conversazione fra un uomo e una donna che non si conoscono; chiamando il marito, Gesù mostra di non avere intenzioni nascoste nei confronti di lei: ma, intanto, vuole vedere se ella è capace di sincerità. Vuole offrirle la possibilità di dire il vero, di presentarsi per quella che è. Egli sa bene che ella ha avuto sei mariti, compreso l’ultimo, che è un uomo con cui convive, ma senza essere sposata: perciò le dice di chiamare il marito; vuol vedere cosa lei risponderà.
Rispose la donna: “Non ho marito”. Le disse Gesù: “Hai detto bene: ‘Non ho marito; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”. Gli replicò la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte, e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. (Gv 4, 17-21).
La donna supera la prova della sincerità, ma solo a metà; non dice tutta la verità, ma una parte: non ho marito. L’altra parte la dice Lui, completando il quadro: ella ha avuto cinque mariti, e il sesto non è un marito, ma un semplice convivente, cosa – allora – rarissima e particolarmente scandalosa (mentre oggi sta diventando la norma). Ella è colpita in pieno dalle parole di Lui; si vede messa a nudo. Allora, pronta com’è nelle reazioni, decide di spostare immediatamente l’argomento della conversazione: Vedo che sei un profeta, dice, e con ciò riconosce che Egli ha detto il vero; implicitamente, conferma quel che Lui ha detto della sua vita. Però è troppo imbarazzata, senza dubbio è violentemente arrossita: quella vaga sensazione, di avere a che fare con un uomo eccezionale, si è rivelata esatta: Gesù non è un uomo qualsiasi; è uno che sa tutto, che legge nei cuori e che conosce anche il passato. Per deviare l’attenzione da sé, la donna prende lo slancio dal riconoscimento che Egli è un “profeta” e gli chiede quale sia il luogo in cui si deve adorare Dio, se quello che dicono i Samaritani, cioè il Monte Garizim, o quello che affermano i Giudei, il Tempio di Gerusalemme. Così facendo, peraltro, riporta la conversazione su una questione religiosa di estrema importanza; perché dal luogo in cui si deve adorare Dio, a chi sia Dio stesso, il passo è breve: ed è appunto qui che Gesù vuole arrivare. Senza averne l’aria, Egli la sta portando proprio lì dove desidera che arrivi: a riflettere sul mistero di Dio e a decidere, in conseguenza di ciò, che cosa fare della propria vita.
Gesù le dice: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devo adorarlo in spirito e verità”. Gli rispose la donna: So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): e quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Le disse Gesù: “Sono io, che ti parlo”. (Gv 4, 21-26).
Credimi, donna: due parole di enorme spessore affettivo. Credimi, è una espressione che si rivolge a qualcuno a cui si tiene molto; non lo si dice a chi ci è indifferente. Donna, poi, al contrario di quel che potremmo pensare noi moderni, è, nella Nuova Scrittura, una espressione estremamente riguardosa: pochissime volte l’adopera Gesù, in particolare quando parla con Sua madre, come si vede nell’episodio delle nozze di Cana. Donna, significa qui signora: è una espressione solenne, di tutto riguardo. Gesù sta valorizzando al massimo la sua interlocutrice: Egli ha intuito il suo dramma; dietro la sua civetteria, la sua malizia, c’è un’anima ferita, profondamente insicura, minata dal disprezzo della gente: vuol farle capire che anche lei è importante, che è una creatura di Dio. E che non è importante perché è bella o perché sa sedurre gli uomini, ma perché possiede un’anima immortale, e un cuore capace di aprirsi alla Verità. Vuole farle capire, ma con estrema discrezione, che deve cambiar vita: che deve convertirsi. Perciò risponde alla domanda della donna, ma in maniera articolata: circa le cose di Dio, i Giudei hanno più ragione dei Samaritani, ma entrambi sbagliano, se s’illudono che Dio voglia essere adorato per forza in un luogo materiale. L’unico luogo in cui Duo vuole essere adorato è la profondità del cuore. Non sa che farsene di quanti lo adorano in maniera formalistica, con le labbra e non con il cuore; perché Egli è Spirito, e in spirito lo si deve adorare.
La conversazione sta raggiungendo l’acme: la donna, ormai presa, dice di sapere che verrà un Messia; e Gesù, lasciando cadere l’ultimo velo, le si mostra per quel che è, dicendole, senza altri commenti e fissandola nel profondo: sono Io che ti parlo. Possiamo solo immaginare l’espressione del viso dei lei, a queste parole sconvolgenti, e, per la mentalità del tempo (ma anche per la nostra, se è per questo), blasfeme. Un uomo, lì davanti a lei, si è appena proclamato il Messia: un uomo assetato, che, solo pochi minuti prima, le aveva chiesto da bere.
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: “Che desideri?”, o: “Perché parli con lei?”. La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?”. Uscirono allora dalla città e andavano da lui. (Gv 4, 27-30).
I discepoli sono tornati, l’incanto di quella conversazione solitaria è rotto, ma la donna, tutt’altro che rasserenata, non si dà pace: va in giro dappertutto a raccontare che ha incontrato uno straniero eccezionale, un profeta che conosce i segreti degli uomini e che le ha detto tutto ciò che lei ha fatto nella sua vita. Se l’eco di quella strana conversazione si fosse subito spento in lei, non avrebbe agito così; sarebbe stata ben contenta di allontanarsi e far finta di nulla. Nessuno aveva assistito al loro colloquio. Com’è, allora, che l’Evangelista ha raccontato l’episodio in maniera tanto diffusa, dedicandovi uno spazio così grande? E come ha potuto riferire la parole precise di Gesù e della donna? Evidentemente, lo considerava importante; e Giovanni, parlando teologicamente, è di gran lunga il più profondo, il più colto dei quattro evangelisti; quello che vede Gesù, dal principio alla fine, come il Verbo incarnato, e narra tutta la sua storia senza mai perdere di vista, nemmeno per un istante, questa prospettiva “cosmica”. L’unica risposta alla seconda domanda è che Giovanni abbia udito le parole precise di quel dialogo: o da Gesù stesso, o dalla donna, o dalle persone cui la donna l’ha raccontato. Scartiamo pure la prima ipotesi: Gesù non va a spifferare quel che gli dicono le anime; improbabile anche la seconda: non c’è motivo di credere che lei avrebbe riferito a un discepolo di Lui quel che si erano detti; era troppo indaffarata a dirlo ai suoi concittadini. Forse, per lei, quello era anche un mezzo per rompere il muro di malcelata ostilità da cui, come abbiamo ipotizzato, doveva essere circondata; una maniera per ingraziarsi gli abitanti di Sicar, per rendersi interessante e integrarsi un poco nella comunità. Resta la terza possibilità: che Giovanni, o qualcuno che poi gliel’ha riferito, si sia recato, a distanza di tempo, in quel luogo, o che abbia comunque avuto la possibilità di udire il racconto di uno degli abitanti, cui la donna si era confidata. Certo, è un racconto particolareggiato; e poiché, come abbiamo detto all’inizio, l’Evangelista non si cura di fare della letteratura, è da escludere categoricamente ch’egli si sia inventato qualcosa, che sia ricorso a degli espedienti narrativi per rendere più interessante il suo Vangelo.
Intanto i discepoli lo pregavano: “Rabbi, mangia”. Ma egli rispose: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. E i discepoli si domandavano l’un l’altro; “Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?”. Gesù disse loro: “Mio cibo è fare la volontà di colui che i ha mandato e di compiere la sua opera. Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto; Uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro’”. (Gv 4, 31-38)
Come sempre, come ha appena fatto anche con la donna, Gesù approfitta del momento per estendere la sua pedagogia a tutti quanti: sia i discepoli, sia i Samaritani c, i quali, adesso, fanno cerchio intorno a Lui, e Lo ascoltano ammirati, al punto da trattenerlo con loro per altri due giorni. Gesù rifiuta il cibo, almeno per il momento: i discepoli Lo credono affamato, vogliono che si nutra; ma Lui ricorda loro che uno solo è cibo che toglie la fame per sempre, proprio come aveva detto alla Samaritana che una sola è l’acqua viva, che spegne la sete una volta per tutte. Quel cibo, quell’acqua, consistono nel fare la volontà del Padre. Non nel ricevere qualcosa, dunque, ma nelconvertirsi: nel rientrare in se stessi, nel cambiar vita e nell’adorare Dio in spirito e verità, accogliendolo con pietà filiale.
Si noti che Gesù, davanti ai Samaritani, ha proclamato la propria natura divina, cioè ha fatto quel che, a Gerusalemme, davanti al Sinedrio, gli costerà la condanna a morte: perché, dal punto di vista umano, Egli ha bestemmiato. Tuttavia i Samaritani non solo non s’indignano, ma lo trattengono un po’ presso di loro: ascoltano volentieri la Sua parola e credono a quanto Egli dice loro. I Giudei non lo lasceranno nemmeno difendersi davanti al tribunale del Sommo Sacerdote (violando le loro stesse leggi, che prevedevano il diritto all’autodifesa da parte di un imputato per motivi religiosi). Il servo che lo schiaffeggia sulla bocca è figura del rifiuto d’Israele ad accettare la missione divina di Cristo; mentre la disponibilità dei Samaritani a convertirsi è figura della disponibilità dei pagani, sui quali, come vedrà san Paolo fin dall’inizio della sua evangelizzazione, sarebbe stata edificata la nuova religione, con la sua nuova Chiesa.
Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”. E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più cedettero per la sua parola e dicevano alla donna: “Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiano che questi è veramente il salvatore del mondo””.
Trascorsi due giorni, partì da loro per andare in Galilea. (Gv 4, 39-43).
Qui si comincia a vedere come il popolo eletto abbia rifiutato quel Dio che lo aveva scelto, e che pure attendeva ansiosamente, ma non in spirito di verità, bensì come un Messia guerriero e vittorioso; mentre molti gentili, che a quell’evento non erano affatto preparati, mostrarono sin dal principio una disponibilità ben diversa.
E questo è un grande, un abissale mistero, che dà quasi le vertigini, peraltro più volte preannunciato dai Profeti: la pietra d’angolo è stata scartata dai costruttori; gli invitati al banchetto non si sono rivelati indegni, e il padrone ha chiamato al posto loro gli altri, gli sconosciuti, gli estranei, gli ultimi…
Hai detto bene: Non ho marito…
di
Francesco Lamendola
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.