IL TEOLOGO-CAMERIERE
Antropologia del teologo-cameriere. E' il teologo moderno che desidera, innanzitutto, piacere al suo pubblico; dire le cose che strapperanno il maggior numero di consensi e di applausi; farsi bello agli occhi del mondo
di Francesco Lamendola
Il teologo-cameriere è il teologo moderno che
desidera, innanzitutto, piacere al suo pubblico; dire le cose che
strapperanno il maggior numero di consensi e di applausi; farsi bello
agli occhi del mondo, e specialmente dei poteri massonici e finanziari;
rendersi popolare presso gli esponenti delle chiese cristiane separate e
delle altre religioni; venire incontro – con la parola-chiave del
“dialogo” - ai desiderata dei
non credenti, degli atei militanti e degli anticristiani; e accrescere
il proprio prestigio e la propria “simpatia” attaccando quei cattolici
che egli chiama, sdegnosamente, “tradizionalisti” o anche
“conservatori”, ironizzando su di essi, ridicolizzandoli, distorcendo
abbondantemente le loro posizioni, e sparando a zero su tutto ciò che
essi dicono e fanno.
Egli
è un teologo-cameriere perché fa quello che fanno tutti i bravi
camerieri: cerca di accontentare i gusti del pubblico, di andare
incontro ad esso, e, se possibile, addirittura di prevenire le sue
richieste e i suoi desideri. S’intende che i bravi camerieri fanno bene
ad agire così: il loro mestiere consiste precisamente nel servire i
clienti secondo i loro desideri. Nel caso dei teologi, il discorso
sarebbe un tantino diverso; ma, sostenuti dal vistoso esempio di molti
vescovi e cardinali, di molti preti e suore, e, da ultimo, dello stesso
papa Francesco, il teologo-cameriere ha abbandonato definitivamente ogni
remora ed ogni scrupolo (ammesso che ne abbia mai avuti), e ritiene
cosa perfettamente normale, anzi, ritiene persino che sia doveroso,
comportarsi egli pure in tal modo: andare incontro ai gusti dei
credenti, alle opinioni prevalenti, agli umori e agli stati d’animo del
momento (il momento della modernità) nel parlare di Dio.
Già:
perché il teologo-cameriere non è più - come lo erano i teologi
antiquati e oscurantisti, come un san Tommaso d’Aquino - un ricercatore
della Verità; no: egli è uno che parla di Dio, e ne parla al pubblico
più ampio possibile, sempre con l’occhio rivolto alle alte tirature
editoriali e ai lauti profitti economici; anche se quel pubblico
andrebbe prima educato, istruito, preparato a confrontarsi con
certi difficili argomenti. Ma che importa? La teologia per pochi, la
teologia “aristocratica”, è finita: oggi essa deve essere alla portata
di tutti, come, del resto, la sua sorella profana, la filosofia. È da un
pezzo che la cultura moderna, e la stessa scuola moderna, hanno
abbandonato l’antica e assurda pretesa che il sapere sia frutto di una
lenta e personale conquista; al contrario: il mondo moderno ha deciso
che il pane del sapere deve essere spezzato alla tavola di tutti e di
ciascuno, qui, ora e subito, senza indugio, senza alcun ritardo: il
popolo ha già aspettato abbastanza, ha già atteso anche troppo. Adesso
tocca a lui: e il teologo-cameriere è lì, pronto a servirlo, in giacca
bianca e bottoni ben lucidati, deciso a non far sfigurare il ristorante
della modernità.
Di
conseguenza, nulla è più lontano dalle intenzioni del teologo-cameriere
che guidare il lettore delle sue opere, o il pubblico delle sue
conferenze (magari televisive), su per la faticosa scala della ricerca
teologica; al contrario, quel che egli vuole è di squadernare il
prodotto finale bello e pronto, a prezzo d’infinte semplificazioni, di
arbitrarie schematizzazioni, di passaggi mancanti e di affermazioni
improvvise, non supportate da alcun ragionamento, né corroborate da un
minimo di rigore logico. Come un piazzista, o come un politicante di
basso rango, egli non si rivolge né alla mente, né al cuore di chi lo
ascolta, ma alla sua pancia: non lo vuole persuadere, vuole dargli
l’illusione di aver capito, e di aver capito senza fatica, il che lo
farà sentire particolarmente intelligente e fiero di sé. E come levare
una idea sbagliata dal cranio di chi pensa d’aver compreso tutto, senza
aver capito nulla; di chi si ritiene un Aristotele, anche se è solo uno
dei tanti polli da allevamento? Ma anche questo è un aspetto
assolutamente scontato, assolutamente banale della moderna società di
massa: la pretesa di ciascuno d’essere speciale e formidabile; il che,
se la logica non è una opinione, significa che nessuno lo è, ma che sono
tutti appiattiti e omologati secondo lo stampo impresso dalla cultura
dominante. Poco male; se nessuno grida alla contraddizione, che problema
c’è? La finzione diverrà realtà; e un esercito di polli si
auto-promuoverà al prestigioso statuto di altrettanti uomini di genio.
La
soddisfazione è garantita nei due sensi, la gratificazione è reciproca:
il pubblico si sente “illuminato”, ascolta il conferenziere con sguardo
adorante, si passa con gli amici l’ultima opera del grande teologo; e
quest’ultimo miete una messe abbondante di complimenti ed elogi, si
sente importante, si sente insostituibile, investito d’una missione
divina (o forse soltanto umana; ma non sottilizziamo, non è forse vero
che il Dio di cui possiamo parlare è il Dio-per-noi, e, dunque, in certo qual senso, un prodotto della nostra umanità?). Contenti gli uni, contenti gli altri: asinus asinum fricat, l’asino si strofina con il suo pari.
Resta
da vedere se anche il teologo-cameriere appartenga alla categoria dei
cretini che si credono sapienti, oppure, semplicemente, alla razza dei
furboni, dei cinici senza scrupoli, che farebbero qualsiasi cosa e
profanerebbero tutto ciò che è sacro, pur di ottenere un vantaggio
personale in termini di successo, denaro e carriera; se sono soltanto
degli imbecilli, o se sono dei malati d’ipertrofia dell’ego (due
sindromi entrambe assai comuni in questi meravigliosi tempi di
modernità). Bisognerebbe vedere caso per caso. In linea generale,
tuttavia, siamo propensi a optare per la seconda possibilità: perché, di
solito, del tutto stupidi non sono, anzi, mostrano una certa quale
astuzia (che non è, peraltro, la stessa cosa dell’intelligenza), e,
osservando il compiacimento e la gioia mal dissimulata con i quali
ricevono i più alti omaggi e tributi – abbiamo appena visto uno di
costoro pavoneggiarsi al fianco del presidente del Consiglio italiano (asinus asinum fricat,
per l’appunto…), in una pubblica cerimonia; ma non è raro che a
sponsorizzarli sia direttamente il papa – tutto ci porta a credere che
la loro vanità sia la caratteristica che in essi è decisamente
dominante, e davanti alla quale ogni altro aspetto della loro
personalità tende a scomparire.
In
quanto narcisisticamente innamorato di se stesso, ma soprattutto
bramoso di successo e di riconoscimenti, il teologo-cameriere (afflitto,
in verità, da uno sdoppiamento schizofrenico, perché, al fondo della
sua anima, sa bene di essere sempre e solo un cameriere in giacca
bianca), è possibile che sia anche iscritto a qualche loggia massonica:
di certo lo sono parecchi dei suoi colleghi ed amici. Quale scandalo ci
sarebbe mai, del resto? È da un pezzo che la scomunica contro i massoni è
stata, de facto, congelata, e, ormai, non spaventa più
nessuno; specialmente da quando vi sono entrati fior fiore di vescovi e
cardinali. Chi non ricorda quel vescovo messicano, Sergio Mendez-Azceo
(1907-1992), il quale, in pieno Concilio Vaticano II, chiese
ufficialmente che i massoni venissero ammessi a far parte della Chiesa
cattolica, pur riconoscendo che, fra essi, non erano pochi quelli
anticristiani? E chi non ricorda quando, su invito della Gran Loggia di
Francia, nel 1974, essa ricevette la visita, gradita e reciprocamente
soddisfacente, di un altro vescovo, monsignor Pezeril? E che dire di
padre Rosario Esposito (1921-2007), sacerdote paolino, il quale fin dal
1969, d’intesa con il Gran Maestro Giordano Gamberini, non cessò di
adoperarsi affinché venisse ritirata la scomunica ai massoni? Da allora,
ne è passata di acqua sotto i ponti: oggi le cose sono arrivate molto
più in là, e si parla tranquillamente di Massoneria ecclesiastica, come
se la sua esistenza fosse la cosa più naturale di questo mondo; e un
cardinale massone, come il defunto Carlo Maria Martini, già arcivescovo
di Milano e fondatore della “Cattedra dei non credenti”, nonché fautore
delle unioni civili, specialmente omosessuali, non fa più alcuno
scandalo.
Del
resto, che cosa vuole la Massoneria? Vuole giungere all’instaurazione
di una religione sincretistica, gnostica e deista mondiale, nella quale
tutte le diverse religioni corrano come fiumi nel mare, e vi si perdano,
di modo che resti solo il culto del Grande Architetto dell’Universo.
Dunque, la sua opera è già arrivata a metà strada: perché l’ecumenismo,
da un lato, e il cosiddetto dialogo interreligioso, dall’altro, hanno
già fatto cadere le ragioni di fondo la scomunica. La quale scomunica si
basava appunto su tale aspetto del culto massonico: che, a ben
guardare, è per forza di cose anticristiano, se le parole hanno un senso
e se una religione è tale fino a quando rimane se stessa. Un
cristianesimo “liquido” – come direbbe Zygmunt Bauman - e buono per
tutte le stagioni, un po’ deista e un poco panteista (ahimè, quante
esagerazioni e deviazioni immanentiste nell’ecologismo del pontificato
di Francesco!), un cristianesimo disossato e svirilizzato, con Gesù
ridotto alla misura di uno dei tanti maestri di saggezza, sarebbe un
cristianesimo morto e defunto, con l’aggravante di non saperlo.
A quel punto, sarebbe meglio fargli un bel funerale e riconoscere che è
preferibile una buona filosofia - il platonismo, lo stoicismo – a una
cattiva religione.
Ad
ogni modo, e lo ripetiamo, non è detto che il nostro baldo
teologo-cameriere sia un frammassone felicemente iscritto a questa o
quella loggia, secondo questo o quell’altro rito; tanto più che, in
definitiva, non ce n’è affatto bisogno, perché gli obiettivi di
massima della penetrazione massonica nella Chiesa sono già stati
raggiunti, al di là delle più ardite speranze: ormai si tratta
soprattutto di bonificare le retrovie, il tempo delle avanguardie e
delle incursioni è finito. I massoni devono solo perfezionare la loro
opera; e i vescovi e i cardinali massoni possono ben fregarsi le mani
per la soddisfazione: quel che volevano fare, l’hanno già fatto per più
di metà. Fra elogi a Lutero, inviti ai musulmani perché entrino in
chiesa a condividere la santa Messa coi cattolici, e strizzatine
d’occhio alle unioni omosessuali, che cosa resta ancora da fare, per
liquefare e disossare la Chiesa cattolica, per liquidare definitivamente
il suo Magistero secolare, per azzerare duemila anni di Tradizione e di
Scritture? Anche l’indissolubilità del matrimonio appare in forse,
grazie alla esortazione apostolica Amoris laetitia; anche il
sacramento dell’Eucarestia, sembra che possa essere accostato da chi si
trova in stato di peccato: che altro resta da fare, ripetiamo, che non
sia già stato fatto, per demolire il prestigio, l’autorevolezza, e,
soprattutto, la Verità soprannaturale, divina, di cui la Chiesa si è
fatta custode in questi ultimi due millenni?
Povero
don Luigi Villa (1918-2012), il sacerdote di Lecco che ha dedicato la
sua intera vita, con l’incoraggiamento di san Pio da Pietrelcina e di
Pio XII, ma correndo notevoli rischi ed esponendosi a continue
persecuzioni, a documentare la presenza massonica dentro la Chiesa, e
nel tentativo di sventarne le trame. Che cosa potrebbe dire, oggi? Quel
che i massoni volevano ottenere, è ormai a portata di mano: una Chiesa
talmente sradicata dalle proprie radici, talmente pervasa dal cattivo
vento del relativismo etico e dell’indifferentismo religioso, talmente
pervasa d’immanentismo e di antropocentrismo, che a stento si può ancora
riconoscere, in essa, quel che era appena qualche decennio fa: il
presidio, per quanto imperfetto (per la sua componente umana, non per
quella divina) della Verità di Gesù Cristo. Una Chiesa che nemmeno osa
più parlare apertamente di apostolato, per timore di offendere i membri
delle altre religioni, specialmente i giudei e i musulmani; e che teme,
soprattutto, se così non facesse, d’incorrere nella riprovazione del
Pensiero Unico Politicamente Corretto, secondo il quale il solo
cattolicesimo che sia ancora accettabile, nella realtà del mondo
moderno, è un cattolicesimo che rinunci spontaneamente alla sua
prerogativa essenziale: quella di essere il depositario e il custode
della Verità soprannaturale, che non tramonta e non invecchia, perché è
eterna, come è eterno Colui che l’ha annunciata agli uomini. Solo a
questo prezzo, cioè al prezzo di riconoscersi come null’altro che una
delle tante “verità” religiose, e quindi di auto-distruggersi, di
suicidarsi, al cattolicesimo sarà ancora concesso di sopravvivere: un
cadavere ambulante senza più anima e senza alcun futuro.
Ebbene:
il teologo-cameriere serve precisamente a questo: ad operare
dolcemente, pietosamente, silenziosamente, l’eutanasia del
cattolicesimo. In fondo, più che un teologo, egli è un becchino: si è
preso l’incarico di accompagnare alle estreme esequie il carro funebre
della Chiesa cattolica e di tutto quanto essa ha insegnato per un paio
di millenni. Non è un’impresa da poco: ma il teologo-cameriere ha una
grandissima opinione di se stesso, e nessuna impresa gli sembra troppo
ardua per le sue robuste spalle (o forse, sarebbe meglio dire: per il
suo stomaco più che robusto, capace di digerire qualsiasi cosa meglio di
uno struzzo). Se anche fosse già morta – e ancora non lo è; ferma
restandola nostra fede nella promessa di Cristo: Non praevalebunt
– una istituzione che ha duemila anni di storia possiede un peso
specifico tale da poter schiacciare sotto di sé, per forza d’inerzia,
praticamente qualsiasi cosa. Stiano perciò attenti, i teologi-camerieri:
non vendano la pelle dell’orso prima di averlo ucciso; non
sottovalutino la forza della Grazia.
In fondo, l’obiettivo ultimo del teologo-cameriere è quello di abolire la fede, e di sostituirla con la ragionevolezza del cristianesimo; di abolire la distinzione fra il bene e il male (chi sono io per giudicare?);
di mettere l’uomo sul trono lasciato vacante da Dio. Egli vorrebbe
riciclarsi come il prete d’una nuova “religione”: l’antropocentrismo. È
il vecchio peccato, carico di pazza superbia, di Adamo ed Eva: il
Peccato originale. Nulla di nuovo sotto il sole, a ben vedere: altro che
modernità...
Antropologia del teologo-cameriere
di Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9727:antropologia-del-teologo-cameriere&catid=133:il-paradiso-degli-asini&Itemid=163
Cristiani, ma fino a un certo punto. La malattia dell’uomo moderno è non essere mai qualcosa fino in fondo, ma solo fino a un certo punto. Semi-uomini che vivono di mezze idee, di mezze passioni, di semi-ideali di Francesco Lamendola
CRISTIANI FINO A UN CERTO PUNTO
Cristiani, ma fino a un certo punto. La malattia dell’uomo moderno è non essere mai qualcosa fino in fondo, ma solo fino a un certo punto. Semi-uomini che vivono di mezze idee, di mezze passioni, di semi-ideali di Francesco Lamendola
Cristiani, ma fino a un certo punto
di
Francesco Lamendola
Søren
Kierkegaard soleva ironizzare sui cristiani del suo Paese e del suo
tempo, che erano tali, sì, ma “fino a un certo punto”; che ci credevano,
sì, ma “fino a un certo punto”; che prendevamo sul serio Gesù e il
Vangelo, certamente, ma sempre “fino a un certo punto”. Più in generale,
questa sembra essere la malattia dell’uomo moderno: non essere mai
qualcosa fino in fondo, ma solo fino a un certo punto.
Semi-uomini che vivono di mezze idee, di mezze passioni, di semi-ideali:
che fanno quel che fanno, però senza mai arrivare alla piena coerenza:
solo fino a un certo punto. Perché quando il gioco si fa serio, si fermano e tornano indietro.
Del resto, il relativismo oggi dominante – Benedetto XVI parlava di una vera e propria dittatura del relativismo
– offre l’alibi perfetto a codesta semi-umanità di semi-vivi: nessuna
causa merita di essere presa così sul serio, da spingersi fino in fondo;
nessuna verità è così assoluta, da meritare la fedeltà perfetta: anzi,
se così si facesse, si ritornerebbe al fanatismo e all’integralismo di
epoche passate e, per fortuna, dimenticate. Del resto, non ha insegnato
Luigi Pirandello che ciascuno di noi è uno, nessuno e centomila?
E dunque, non sarebbe eccessivo pretendere che ci caliamo sino in fondo
in una delle tane maschere sociali che formano la nostra personalità?
Quella del fino a un certo punto
sembra essere diventata la filosofia universale dell’uomo moderno:
almeno per quel che riguarda le cose serie, le scelte di fondo, le
decisioni fondamentali, lo stile di vita. Per quel che riguarda le cose
futili ed effimere, invece, vale la filosofia opposta: quella del fino in fondo. I
tatuaggi, per esempio: le persone sono sempre più restie ad assumersi
impegni durevoli; ma non esitano a farsi tatuare il corpo per
“celebrare” legami e sentimenti passeggeri, che durano, sovente, lo
spazio d’un mattino; non temono, quindi, di esibire sulla propria pelle
la testimonianza di una stagione della loro vita che sarà presto
dimenticata. Oppure un gioiello costosissimo; un telefonino o un
computer di ultima generazione; un orologio d’oro: alcune di tali cose
dureranno appena un paio d’anni, se tutto va bene; tuttavia, pur di
averle, molte persone sono disposte a fare debiti o a imbarcarsi in
defatiganti pagamenti rateali, che proseguiranno per anni e anni: in
tali casi, sono disposte a perseverare sino in fondo.
Crediamo vi sia una relazione fra le due cose, fra la filosofia del fino a un certo punto e quella del sino in fondo;
che siano l’una il rovescio della medaglia dell’altra; che si
completino a vicenda, in quella creatura sdoppiata e schizofrenica che
sempre più sta diventando l’uomo moderno (quel doppio uomo che è in me,
diceva, nella epistola sull’ascensione al Monte Ventoso, il primo uomo
moderno in assoluto: Francesco Petrarca). Siamo anche persuasi che tale
sdoppiamento, tale lacerazione interiore, siano il risultato, tra le
altre cose, di una fondamentale disonestà intellettuale, di una
inveterata incapacità, o meglio indisponibilità, a guardarsi dentro, a
leggere in se stessi con un minimo di sincerità e di lealtà, senza
trucchi e senza maschere. Sia come sia, il risultato delle spinte e
controspinte in cui è afferrata e dilaniata l’anima dell’uomo moderno è
questo: lo sdoppiamento, la perdita del dominio di sé, accompagnati da
un continuo, petulante, patetico sforzo di auto-giustificazione, quando
non, addirittura, di auto-celebrazione.
Quanto
più è debole, l’uomo moderno vuole ostentare la forza; quanto più è
incerto e diviso, la sicurezza e l’autorità; quanto più è perplesso,
turbato, spaventato, il coraggio, la decisione, la fiducia in se stesso.
Così facendo, si mette nelle condizioni di non poter ricevere soccorso
né dall’esterno, perché dà agli altri una falsa immagine di sé, né da se
medesimo, in quanto si priva di quella umiltà e di quella
consapevolezza che sono i presupposti indispensabili per ricevere
l’aiuto della Grazia. Ma l’uomo moderno non vuole, in fondo, essere
aiutato; nonostante l’edonismo apparente, egli non si vuole bene:
dopotutto, quel che desidera, inconsciamente, è di scomparire, o che
qualcosa lo faccia scomparire. È stanco di vivere, perché la vita gli
pesa.
Limitiamoci, per ora, a considerare la faccia della medaglia relativa al fino a un certo punto; e limitiamo la nostra riflessione all’essere cristiani. Il cristiano fino a un certo punto
è colui che non solo sente, ma anche pensa, il fatto del proprio
cristianesimo, fino a un certo punto: è una malattia, cioè, non solo
della volontà, ma anche dell’intelletto. Della volontà: perché essere
cristiani sino in fondo (il che non significa affatto essere
“integralisti”, meno ancora fanatici, ma semplicemente essere seriamente
quel che si pretende di essere: in questo caso, cristiani)
richiederebbe uno sforzo eccessivo al livello della volontà, che ben
pochi, di questi tempi, son capaci di sopportare: senza scomodare la
disponibilità al martirio, basta pensare alla preghiera, al digiuno,
all’astinenza, ai pellegrinaggi, per non parlare della penitenza – e i
confessori, ormai, sono talmente sensibili alla debole volontà delle
loro pecorelle, che somministrano loro delle penitenze veramente
ridicole, anche in presenza di peccati gravi. Una malattia
dell’intelletto: perché il cristiano moderno crede, sì, al Vangelo, ma
fino a un certo punto: vale a dire, fino a che non si tratta di fare uno
sforzo troppo grande in termini, appunto, intellettuali.
Nel
Vangelo si dice che Gesù nacque da Maria vergine. Eh, qui le difficoltà
cominciano subito: come si fa a mandar giù una cosa simile, a livello
intellettuale? Bisognerebbe essere ben sempliciotti: no, non è
possibile; al cristiano moderno, istruito e razionale, ripugna troppo
dover digerire un boccone tanto indigesto. Chissà, forse, dopotutto,
Maria non era vergine; forse lo era, ma prima di concepire Gesù; forse
lo era in senso simbolico, metaforico: una verginità, per così dire,
allegorica e intenzionale. Andiamo avanti. Gesù è cresciuto, si accinge
ad iniziare la sua vita pubblica, e si ritira nel deserto a pregare e
digiunare (proprio le due cose che il cristiano moderno non sa neppure
cosa siano); e qui viene tentato dal Diavolo. Be’, andiamoci piano:
forse non era proprio il Diavolo; forse era l’umana tentazione, cui
tutti i figli di Adamo sono soggetti. Quanto, poi, a credere che il
Diavolo lo abbia sfidato a gettarsi dal pinnacolo del tempio, o che lo
abbia preso e condotto con sé in cima a una montagna altissima: è chiaro
che si tratta di simboli, di miti, come diceva il buon Rudolf Bultmann,
il patriarca di tutti i teologi moderni. Il teologo moderno è un
personaggio che, se non ci fosse stato, lo si sarebbe dovuto inventare:
un signore che viene a rimuovere ogni ostacolo intellettuale dal cammino
del credente moderno, e che gli permette di credere al
Vangelo, senza doversi sottoporre a un eccessivo sacrificio
intellettuale. Ammettere il miracolo, ad esempio, è un sacrifico
intellettuale troppo grande, per il cristiano moderno: ed ecco che il
teologo moderno, solerte e pieno di zelo, come un infaticabile
cameriere, viene a togliere le briciole dalla tovaglia, a sparecchiare
piatti e bicchieri, e ci restituisce il tavolo bello e pulito, senza
nessun fastidioso ingombro. Meraviglioso! Grazie all’opera di questi
provvidenziali teologi-camerieri, di questi Enzo Bianchi, di questi Vito
Mancuso, di questi Walter Kasper, credere non è più una penitenza
intellettuale, una mortificazione per la nostra intelligenza; anzi,
diventa semplice e naturale come bere un bicchier d’acqua.
Prodigi
della cultura illuminista; capolavori dei lumi della ragione. E,
difatti, chi troviamo all’origine di questa tendenza? Il bravo John
Locke, con la sua Ragionevolezza del cristianesimo; e il libero pensatore John Toland, con il suo Cristianesimo senza misteri.
Che bello: un cristianesimo senza misteri! Un cristianesimo
perfettamente ragionevole! Senza dubbio, Gesù non è venuto al mondo per
insegnare ai piccoli e ai semplici, ma ai sapienti e agli intelligenti.
Peccato che il Vangelo dica esattamente il contrario; ma, chissà, forse
sono stati gli evangelisti a fare un po’ di confusione, dopotutto.
Credere in Gesù, uomo e Dio, senza sacrifico intellettuale; credere alla
sua Passione, Morte e Resurrezione, come cosa del tutto ragionevole:
non è meraviglioso, tutto questo? Una volta fatto un tale passo, gli
altri vengono naturali, assolutamente logici: forse, dopotutto, Gesù non
era proprio il Figlio di Dio, ma un grande saggio, un illuminato, come
Budda, Confucio, Lao Tze, Socrate; forse non voleva che credessimo in
Lui, ma semplicemente in ciò che diceva; forse non pretendeva di
indicarci la via per la vita eterna (la vita eterna!, facile a dirsi; ma
chi lo sa se esiste davvero? nessuno è mai stato dall’altra parte, per
darcene assicurazione), ma di aiutarci, semplicemente, a vivere nel modo
migliore questa vita. Poi sono venuti i preti, gente della
specie di san Paolo, e hanno imbrogliato le carte, spostando il centro
del Vangelo sulla Resurrezione e sulla vita eterna: ma questo, è chiaro,
appare poco ragionevole e un po’ troppo misterioso.
Dunque,
dicevamo: dopo le tentazioni, la vita pubblica di Cristo (ma avete
notato che i teologi modernisti preferisco parlare di “Gesù” che di
Cristo? Si vede che “Cristo” è troppo impegnativo, troppo
compromettente, per i loro ragionevoli intelletti, così allergici ai
misteri). Gesù alle nozze di Cana, che tramuta l’acqua in vino; Gesù che
moltiplica i pani e i pesci; Gesù che guarisce i ciechi, i sordi e i
malati; Gesù che espelle i diavoli dai posseduti (questa, poi…!); Gesù
che resuscita la figlia di Giairo, indi il suo amico Lazzaro; Gesù che
cammina sulle acque e che seda la tempesta sul lago; Gesù che si
trasfigura sul Monte Tabor; Gesù che affronta la croce e poi resuscita
se stesso, non come Lazzaro, che dovrà morire, ma come un essere
glorioso, di luce, immortale, sconfiggendo la morte per sempre;
Gesù che riappare nel cenacolo a porte chiuse; Gesù che ascende al
cielo; lo Spirito Santo che discende sul capo degli Apostoli e di Maria,
in forma di tante fiammelle. Quanti miracoli, quanti sacrifici per la
nostra ragionevolezza: un po’ troppi. E allora, ecco che i
teologi-camerieri si rimboccano le maniche della loro giacca bianca, e
si mettono alacremente all’opera. Nessun problema, del resto: sono o non
sono le teste fine di un secolo altamente razionale ed evoluto, che non
accetta nulla senza prove e che giura solamente sull’esperimento
scientifico? Quindi, niente paura: lasciate fare ai teologi-camerieri, e
vedrete che tutte le briciole moleste spariranno dalla tovaglia in un
batter d’occhio.
Le
nozze di Cana? Una polverina prodigiosa, che conferisce all’acqua il
sapore del vino: un trucco da circo, ma fatto a fin di bene: era così
imbarazzante, vedere i due sposi mortificati davanti agli invitati. La
moltiplicazione dei pani e dei pesci (anzi, le due moltiplicazioni dei
pani e dei pesci: quasi che Gesù avesse previsto l’incredulità di quelli
che non c’erano)? Ma è chiaro che si tratta di un’allegoria: i pani e i
pesci non sono veramente aumentati di numero dentro i canestri: si vede
che non erano poi così pochi; e il senso dell’episodio è che bisogna
dividere fraternamente quel che si possiede, e così ce ne sarà
abbastanza per tutti. Due piccioni con una fava: si allontana il
pungiglione del miracolo dalla delicatissima pelle dei cristiani
moderni, saturi di ragionevolezza e allergici al mistero, e si predica
il Vangelo socialista e pauperista della equa distribuzione dei beni,
facendo un enorme regalo a quegli stessi teologi, marxisti mancati o ex
marxisti sfrattati dalla loro antica dimora a causa della inagibilità
del vecchio edificio, e più che mai desiderosi di trovarsi un nuovo
domicilio, si capisce che sia confacente ai loro gusti e alla loro
tradizione. Quanto al fatto che Gesù guariva i ciechi, i sordi e i
malati, ebbene, questa è la cosa più facile di tutte da spiegare: era un
grande taumaturgo! Che c’è di strano, in fondo? Si sa bene che simili
persone esistono: lo ha dimostrato anche la scienza; non c’è nulla di
misterioso, nulla di soprannaturale. E così via. Forse, la figlia di
Giairo non era veramente morta, ma solo in catalessi. Forse nemmeno
Lazzaro era davvero morto, ma era in coma (è vero che il Vangelo dice
che il suo corpo già puzzava di decomposizione, ma insomma è una
difficoltà superabile: si può ben ammettere che l’evangelista abbia un
pochino calcato le tinte, così, per amore dell’effetto letterario!).
Il
vero scoglio è dato dalla Resurrezione di Gesù stesso. Quando si arriva
a quel punto, tutta la ragionevolezza di questo mondo rischia di andare
a farsi benedire. È un bel grattacapo, non c’è che dire: anzi,
diciamolo pure, è un vicolo cieco. Come si fa ad accettare un fatto di
quel genere? Ed è qui, infatti, che le cose stanno incominciando a
farsi chiare, da qualche tempo in qua. Da qualche tempo in qua, nel
particolare clima che si è andato instaurando dentro la Chiesa cattolica
e la cultura cattolica, e che ha visto nascere la Neochiesa modernista e
progressista, alcuni teologi-camerieri stanno incominciando a gettare
la maschera, e a porre le carte in tavola. Oh, ma sempre con infinita
cautela, intendiamoci: niente gesti clamorosi, e, soprattutto, niente
gesti precipitosi, avventati! Perché rovinare tutto con la fretta, ora
che le cose sono giunte là dove essi volevano condurle, e che i
cristiani moderni sono ormai cotti a puntino? Comunque, con qualche
accenno volutamente ambiguo, con qualche distinguo degno del dottor
Azzeccagarbugli, con qualche sapiente e calcolato sofisma, alcuni di
costoro stanno incominciando ad insinuare che Gesù non era propriamente
Dio, ma era un uomo… Una volta che avranno conquistato la posizione,
centimetro dopo centimetro, e sempre con le spalle coperte, in alto,
dalla stampa cattolica e dal papa stesso, potranno cogliere il frutto di
tante fatiche e di tante veglie, e dedurre che, se Gesù era un uomo,
non è risorto; e che il suo regno non era dell’altro mondo, ma di questo
e solo di questo. Complimenti, teologi-camerieri...
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.