ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 15 settembre 2016

La Speranza viene da Dio

SPERARE IN DIO

Sperare in Dio è sperare contro la speranza umana. Il cristiano è un uomo di speranza: cosa significa da un punto di vista cristiano “sperare”? la ridicola pretesa del'uomo di voler capire e sapere più cose di Dio 
di Francesco Lamendola


Si dice, ed è diventato quasi un luogo comune, che il cristiano è un uomo di speranza; ma in che senso? Cosa si intende, esattamente, con questa espressione? Che cosa significa, infine, da un punto di vista cristiano, “sperare”?
Cominciamo col dire che la Speranza, con la lettera maiuscola, è altra cosa dalla speranza. La speranza è un naturale sentimento umano: si spera che le cose vadano meglio; si spera di superare una prova; si spera che i nostri disegni si realizzino. Si spera sempre, indipendentemente da qualunque altra considerazione: sperare è un moto istintivo dell’animo, come lo è, per il corpo, respirare; infatti, si suol dire – ed è esatto – che è impossibile vivere senza speranza. Una vita in cui non si spera più nulla, è una vita indegna di essere vissuta. La disperazione, difatti, e non solo per Kierkegaard, è la malattia mortale: la malattia per la quale, se non si trova il modo di guarirne, si finisce per morire. Ed è il peggior genere di morte, quello che attende il disperato cronico: essere morto in vita, cioè conservare l’apparenza di essere ancora vivo, ma essere, in realtà, morto dentro, senza rimedio, e magari chissà da quanti anni.
In questa maniera, cioè in maniera assolutamente spontanea e naturale, sperano tutti: i buoni e i cattivi, i giusti e gl’ingiusti, gl’innocenti e i colpevoli; inoltre, i volonterosi e i pigri, quelli che hanno lottato e quelli che si sono arresi, quelli che hanno fede e quelli che non credono in niente. Sperano quelli che meritano e quelli che non meritano: tutti gli studenti, per esempio, sperano di superare un esame, di essere promossi, di ottenere il diploma, sia quelli che ce l’hanno messa tutta, sia quelli che hanno giocato al risparmio, che hanno dato il minimo, che hanno tirato a campare. Non c’è merito alcuno nello sperare a questo modo, perché non c’è distinzione: è lecito a tutti, proprio perché è un istinto assolutamente spontaneo.
La Speranza, invece, è un’altra cosa. Non è un sentimento naturale: è una delle tre virtù teologali, la Fede, la Speranza e la Carità. Questo significa che gli uomini non possono darsela da soli, ma possono solo riceverla dall’Alto. Per riceverla, tuttavia, devono domandarla: se non la domandano, non la riceveranno. Ecco, allora, che appare subito una cosa essenziale: che la Speranza è un dono, richiesto dall’uomo, ma concesso da Dio; pertanto, per avere la Speranza, è necessario, quale atto preliminare, riconoscere la propria condizione di creatura, povera e fragile, e farsi umili e piccoli davanti al Creatore, che è l’Autore di ogni cosa e il Dispensatore, Lui, e Lui solo, di ogni bene e di ogni verità. Fuori di Lui non vi sono né il bene, né la verità: quindi, per godere del bene e per essere nella verità, bisogna restare strettamente uniti a Lui, come i tralci alla vite, e non staccarsene mai, pena lo scivolare lontano dal bene e dal vero, nell’oscurità della notte dell’anima.
La Speranza, dunque, viene da Dio: essa, pertanto, si distingue dalla speranza naturale, perché non è naturale, non è qualche cosa che provenga dall’uomo, e che l’uomo possa coltivare, accrescere o diminuire: essendo un dono divino, o la si accogliere, o la si respinge, senza altre possibilità. Eppure, bisogna prima averla chiesta: come mai, dunque, taluni la rifiutano? La rifiutano perché essa è Grazia, e non sempre gli uomini sono capaci di volerla, di meritarla, di sceglierla sino in fondo: a volte si fermano a metà, esitano, dubitano. Ma dubitare della Grazia è come dubitare di Dio: e allora la Grazia si ritira, si sottrae, dilegua. Per ricevere la Grazia di Dio, bisogna esserne degni; e per esserne degni, bisogna fidarsene interamente. Non le si può credere a metà; non la si può utilizzare come ruota di scorta, casomai le cose non andassero bene, secondo i nostri desideri. Perché la Grazia ne sa molto più di noi, su quel che è bene e quel che è male.
Ecco dunque un primo punto fermo: sperare è lecito, ma, per ricevere la virtù teologale della Speranza, bisogna sperare non quel che piace all’uomo, ma quel che piace a Dio; non quel che vogliamo noi, ma quello che è giusto, buono e vero, cioè conforme alla Sua volontà. Se noi speriamo di ottenere qualcosa di illecito, se speriamo di realizzare un desiderio cattivo, possiamo sperarlo fin che vogliamo, ma certo non riceveremo l’aiuto della Grazia soprannaturale; non scenderà in noi il dono della Speranza. E qui il discorso si fa delicato, complesso.
Noi crediamo sempre di sapere quel che è bene; o, quanto meno, crediamo e siamo certi di sapere ciò che è il nostro bene. Solo che confondiamo costantemente il bene con il piacere, senza avvederci che si tratta di due cose completamente diverse. Il bene è oggettivo: non esiste un bene per me,m che sia, nello stesso tempo,m un male per l’altro: se così fosse, vorrebbe dire che ci siamo ingannati, e che ciò che ci sembrava bene, in realtà, non lo era. Dal bene non può nascere il male; dal bene per uno, non può derivare del male per un altro. La regola numero uno della legge spirituale, dunque, è di imparare a riconoscere il bene, a desiderare il bene, a volere sempre e soltanto il bene: perché dal vero bene non potranno che venirci effetti positivi, mentre dal male non potrà mai nascere alcun bene. Parliamo, ovviamente, del male e del bene in senso squisitamente morale; non del bene e dal male fisico, che si riferiscono ad un altro ordine di realtà, e che, di conseguenza, non vanno confusi in alcun modo con ciò che può fare del bene, oppure del male, alla vita dell’anima.
Se impareremo a fare questo, a desiderare e cercare sempre e solo il bene, la nostra speranza non andrà delusa, ed essa, anzi, si trasformerà in Speranza soprannaturale, la quale non giunge mai all’uomo senza che gli siano dati anche gli strumenti per un ulteriore progresso: perché la Grazia, se accolta, si trasforma in sostanza vivificante dell’anima, e chiama ancora altra Grazia, in un circuito virtuoso potenzialmente illimitato: la Speranza chiama la Fede, la Fede chiama la Carità, e l’anima, di gradino in gradino, si eleva sempre più in alto, si purifica, si fa sempre più tersa e trasparente, sempre più calda e luminosa. Quando ci si mette nella giusta relazione con Dio, e ci si affida a Lui, non si possono cercare che cose buone, e non si ricevono più che cosa buone. Possono arrivare anche le spine, ma come prova e come occasione per un ulteriore innalzamento, per una ulteriore chiarificazione interiore.
Come recita il Salmo 39, 2-9:

Ho sperato: ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido. //
Mi ha tratto dalla fossa della morte,
dal fango della palude;
i miei piedi ha stabilito sulla roccia. //
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
lode al nostro Dio. //
Molti vedranno e avranno timore
e confideranno nel Signore. //
Beato l’uomo che spera nel Signore
e non si mette dalla parte di superbi,
né si volge a chi segue la menzogna. //
Quanti prodigi hai fatto, Signore Dio mio,
quali disegni in nostro favore!
Nessuno a te si può paragonare. //
Se li voglio annunziare e proclamare
sono troppi per essere contati. //
Sacrificio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi hai aperto. //
Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo. //
Sul rotolo del libro di me è scritto
Di compiere il tuo volere. //
Mio Dio, questo io desidero,
la tua legge è nel profondo del mio cuore.” 

Quando Giona è stato inghiottito dal pesce; quando Daniele è stato gettato nella fossa dei leoni; quando Abramo ha ricevuto l’ordine di recarsi sul monte Moria con il figlioletto Isacco, per sacrificarlo a Dio, in tutti questi casi gli uomini, che erano uomini di Fede, hanno chiesto e ottenuto il dono della Speranza, e la pace è scesa, insieme ad essa, nei loro cuori: se non l’avessero domandata a Dio, non avrebbero potuto mai averla, e non ci sarebbe stato nulla da sperare, perché, umanamente parlando, la speranza era morta per essi. Nulla avrebbe potuto salvare Giona dal ventre del pesce che lo aveva inghiottito; né salvare Daniele dalla fossa dei leoni, in cui era stato gettato; e nemmeno avrebbe potuto salvare la vita ad Isacco, benché suo padre lo amasse teneramente e lo ritenesse il bene più prezioso che aveva, superiore alla sua stessa vita: ma il suo destino, parlando in termini solamente umani, era segnato, e sperare che potesse salvarsi era folle, dopo che Dio ne aveva domandato l’olocausto. Eppure quegli uomini hanno sperato, e la loro Speranza non è stata vana: perché avevano confidato in Dio, e in Lui solo, contro tutto e contro tutti, contro ogni umana probabilità e contro qualunque ragionevole speranza.
Qui, evidentemente ci troviamo in presenza di un mistero: uno dei misteri più profondi e più nascosti all’occhio ed all’intelligenza umane, che non arriveranno mai a scandagliarne il fondo. In senso teologico, non si spera qualcosa, né si spera in qualcosa, ma si spera unicamente in Dio. Si confessa a Dio la propria fragilità, la propria impotenza, la propria renitenza nei Suoi confronti; e la Speranza che da Lui si riceve, non scende secondo i nostri desideri, cioè secondo i nostri appetiti, anche legittimi, ma secondo il progetto complessivo di Dio, che è, per definizione, il Bene. Ne consegue che chi spera in Dio, con tutte le sue forze e con tutta la sua anima, non può restare deluso. Nel caso subentrasse la delusione, ciò vorrebbe dire che non sono state sperate le cose giuste; e siccome alla vista dell’uomo le cose giuste sfumano inevitabilmente in quelle ingiuste, l’unica maniera giusta di porsi di fronte al mistero di Dio è sperare secondo la Sia volontà; chiedergli di aiutarci a fare la Sua volontà, non la nostra: proprio come fece il Maestro perfetto e senza macchi, Gesù Cristo, alla vigilia della Passione quando si ritirò a pregare in solitudine, pe r l’ultima volta, nell’orto degli olivi, la notte di giovedì santo.
In altre parole; o si annulla la propria volontà in quella di Dio, e  ci si arrende interamente a Dio (poiché Lui ci vuole tutti, e non solo in parte); o ci si sbarazza del proprio ego, che sempre brama e spera qualcosa, convulsamente, disordinatamente, per imparare a desiderare solo ciò che vuole Dio, e per temere solo ciò che a Lui dispiace: oppure non si conoscerà mai la vera Speranza. Come tutte le manifestazioni della Grazia di Dio, essa scende su coloro che si fanno piccoli, che si fanno umili, che sono semplici di cuore; ma resiste agli orgogliosi e ai superbi, e non si offre a coloro che pensano di poter fare da soli, o che ritengono di essere in diritto di riceverla. La Grazia è per tutti, ma non tutti, anzi solo pochi, sono capaci di riceverla; perché solo pochi hanno compreso e mettono in pratica l’essenza del Vangelo: morire alla febbre del proprio ego e rinascere, come uomini nuovi, offrendosi come docili strumenti nelle mani di Dio.
Dio farà dei suoi umili strumenti ciò che vorrà; ma poiché egli è il Bene, e può volere solo il bene; poiché è la Sapienza, e fa tutto con somma sapienza; poiché è l’Amore, e sparge ovunque i dardi infuocati del Suo amore verso tutte le creature, possiamo stare certi che chi si offre alla Sua volontà, non riceverà altro che bene. Il problema è che noi, spesso, non sappiamo riconoscere il vero bene e, se non raggiungiamo l’oggetto che avevamo sperato, restiamo delusi e ne domandiamo conto a Dio. Gli diciamo, press’a poco: Tu sai, o Signore, che il nostro cuore era puro e le nostre intenzioni erano oneste: perché, dunque, ci hai abbandonati? Perché ha i permesso che i nostri desideri andassero delusi, che i nostri sogni venissero infranti? Ma potrebbe l’occhio dell’uomo vedere più lontano della vista di Dio? Potrebbe la sua intelligenza superare l’intelligenza divina? Smettiamola, dunque, con la ridicola pretesa di voler capire e sapere più cose di Dio stesso: Egli sa ciò che è bene per noi, molto meglio di noi. Il nostro sguardo è troppo spesso annebbiato; il Suo, è perfettamente limpido e trasparente. Nulla Gli rimane nascosto. E allora, di che cosa seguitiamo a preoccuparci?...


Sperare in Dio è sperare contro la speranza umana

di

Francesco Lamendola

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