ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 9 settembre 2016

Qui si fanno un po’ troppe domande

ADAEQUATIO REI ET INTELLECTUS ?

San Tommaso d'Aquino: la verità consiste nella corrispondenza fra l’intelletto e la cosa. Oggi chi lo dice che non c’è più adequatio rei et intellectus? L’importante è sapere come si chiamano le cose e che nome dare loro
 di Francesco Lamendola  



Adaequatio rei et intellectus: tale è la celebre definizione della verità secondo san Tommaso d'Aquino; la verità consiste nella corrispondenza fra l’intelletto e la cosa: cioè, una proposizione è vera quando la mente coglie nella realtà ciò che effettivamente vi è in essa, e non altro. Dunque, è la mente che deve adeguarsi, nel senso di porsi nel giusto rapporto di corrispondenza, con la cosa, e non il contrario. Così hanno creduto gli uomini, da sempre: sia i pensatori di professione, sia le persone comuni, nelle normali faccende della vita di ogni giorno. Per secoli, per millenni: la cosa era intuitivamente evidente.

Poi è arrivata la filosofia moderna, la rivoluzione antropologica della modernità. D’un tratto, qualcuno ha pensato che non deve essere più la mente ad uniformarsi alle cose, ma le cose alla mente: merito di Fichte e di Hegel, e di tutta la ideosofia, come la chiamava Maritain, negando all'idealismo la qualifica di sistema filosofico, dato che esso non riconosce le regole universali della filosofia, e, in particolare, della metafisica. Ecco, dunque, la pensata geniale, il colpo d’ala del pensiero moderno, dopo secoli di impantanamento nelle paludi della metafisica  e di vano girovagare nei labirinti dell’ontologia. L’essere, l’essere: ma che altro volete che sia l’essere, se non la cosa pensata dalla mente? Et voilà, il gioco è fatto: il prestigiatore toglie il velo da sopra il cappello a cilindro, e un bellissimo coniglietto salta fuori, vivo e ruspante, guardandovi fisso e un po’ stupito, con i suoi occhioni splendenti e le orecchie ritte.
Incredibile che si sia perso tanto tempo a lambiccarsi il cervello sull’essere quale garanzia del principio di verità; la cosa era molto più semplice: non occorreva andare così lontano, bastava guardare vicino, vicinissimo; la risposta l’avevamo proprio sotto il naso, anzi, dentro di noi: in noi stessi. La risposta è l’io, o meglio, l’atto del pensare. Il pensiero è l’essere e l’essere è la manifestazione del pensiero. Allora non è più l'essere che genera il pensiero, ma il pensiero che dà origine all'essere: pazzia suprema eretta a speculazione razionale e spacciata per un immenso progresso del pensiero stesso. Schopenhauer e Kierkegaard lo videro subito e riconobbero il trucco, ma la loro denuncia non venne ascoltata: gli "ideosofi" avevano interpretato così bene lo spirito dei tempi, spirito antifilosofico quale mai si era visto sino ad allora, che le loro voci  rimasero sostanzialmente isolate e non scalfirono il paradigma dominante; e anche quando, un po' più tardi, vi fu una rinascita dell'interesse nei loro confronti (per Schopenhauer quand'era già vecchio, per Kierkegaard molto tempo dopo la sua morte), tale rinascita fece perno sulle ragioni sbagliate e travisò in maniera radicale il loro pensiero.
Noi, uomini del XX e del XXI secolo, siamo figli di quella pazzia: legalizzata, istituzionalizzata, perfino banalizzata. Non ci si deve pertanto stupire più di nulla: la quotidiana, sistematica, scientifica opera di distruzione e ricostruzione del linguaggio, per sostituire, una ad una, le parole del vocabolario, o per dare loro un significato completamente nuovo e diverso dall’antico, è la logica e diretta conseguenza di quella prima follia. Quando si nega che è la mente a dover cogliere le cose come esse sono, e che a lei spettano la ricerca e il dovere della verità, e a nessun altro; quando si capovolge il rapporto fra l’intelletto e il mondo, e si pretende che sia il mondo a doversi adeguare all’intelletto, non può derivarne che la codificazione e la benedizione del caos più totale, dell’anarchia più scatenata. Ciascuno ha la sua verità, ciascuno ha il suo linguaggio, ciascuno ha il suo mondo: e chi siamo noi per giudicare? Pirandello sarebbe rimasto superfatto nel vedere quale successo strepitoso hanno avuto le sue teorie, anche se taluni esiti pratici, crediamo, lo avrebbero del pari indignato. Così è, se vi pare: ecco la filosofia del nuovo millennio; ciascuno a suo modouno, nessuno e centomila. Il guaio è che nessuno dice, come immaginava Pirandello: sarò come tu mi vuoi; ma tutti pensano, al contrario: voi dovrete essere come voglio io.
Ed è molto più logico; nella misura in cui la pazzia può essere logica, beninteso. Se a fare da legislatore non è più il principio di realtà, ma il suo esatto contrario, ossia la soggettività pura, perché mai la soggettività dovrebbe mettersi a disposizione degli altri? Perché dovrebbe preoccuparsi di venire incontro ai loro desideri? Non è per nulla logico. Se il legislatore è il mio io, allora il mio io vorrà rifare il mondo secondo i suoi gusti: chi potrà porgli un freno, chi vorrà dargli dei limiti? E, soprattutto, chi potrebbe farlo? Nessuno: gli altri io non esistono come soggetti, sono solo funzioni del mio io; è il mio io quello che conta, ed è compito del mondo adeguarsi a me. Chi me lo fa fare di adeguarmi al mondo, se il mondo è quello che io voglio che sia? Se mi basta desiderare che una certa cosa sia in un certo modo, perché essa sia tale e quale io la desidero? Be’, sì, effettivamente, nel mondo concreto, non sempre le cose vanno proprio così; ma insomma, non sottilizziamo troppo: l’importante è il principio. E il principio è che il pensiero crea il reale. Ora, siccome io conosco solo il mio pensiero, e non so nulla di altri pensieri, ne deriva che il Pensiero, in se stesso, non può essere che il mio pensiero: il mio pensiero è il Pensiero; e siccome tutta la realtà è Pensiero, allora tutta la realtà è me. O meglio, Me (con la maiuscola).
E ora veniamo alla questione della verità. Chi garantisce l’esistenza, anzi, la possibilità della verità, in un mondo siffatto? Evidentemente, nessuno: nessuno al di fuori di me. Garantisco io; ed è più che sufficiente. La verità è io, la verità è me. Io sono la verità. In teoria, anche tu sei la verità, tutti sono la verità; ma, in pratica, sono io. Sono io, perché io conosco solo me, penso solo il mio pensiero e non so null’altro al di fuori di me. Ma anche tu, probabilmente, farai quel che faccio io: penserai, e pensando creerai la realtà; e allora anche tu avrai la tua verità. Io avrò la mia e tu avrai la tua. E lui avrà la sua. E loro, avranno la loro. Che bello. Tutti avranno, anzi, tutti hanno, la loro bella, cara, perfetta verità. Chi ha detto che il mondo moderno ha smarrito il concetto della verità? Niente affatto: ha fatto qualcosa di più e di meglio: lo ha democratizzato. Lo ha spezzettato in milioni di parti e ha distribuito le briciole a tutti, affinché nessuno rimanesse privo della sua parte. E adesso tutti ce l’hanno, tutti, nessuno escluso. Nessuno è talmente povero da non avere il suo pensiero, la sua verità, il suo mondo. Cioè la sua pazzia. Perché un mondo dove ciascuno ha la sua verità, è, semplicemente, un gigantesco, irredimibile, delirante manicomio. Ma niente paura: va bene così. Basta farci l’abitudine. Si fa l’abitudine a tutto, specialmente se si ha la sorte di vivere in questi tempi moderni, protesi verso le magnifiche sorti e progressive. Ci si abitua ai rumori, alla pubblicità televisiva, al rombo degli aerei a reazione, ai martelli pneumatici, all’inquinamento, alle zanzare, alla criminalità, alle tasse, all’imperversare dei politici disonesti e cialtroni: per tutti questi inconvenienti, ci sono i rimedi, i vaccini, le strategie difensive. Non bisogna scoraggiarsi.
E poi, al pericolo del caos, c’è un rimedio di carattere generale: la neolingua. La neolingua è la lingua decisa e stabilita dai poteri occulti: è universale, a prova di querela e sempre politicamente corretta. La neolingua nasce da un pensiero che non è mio, o tuo, o suo: non si sa da chi nasca, esattamente: una mattina ci si accorge che c’è, e lo si adopera. Di solito, a dare il “la” è la stampa, con il telegiornale di rincalzo (o viceversa). Una mattina ci si trova ad usare questa o quella parola, che  prima non c’era, o che aveva un significato completamente diverso. Una mattina si scopre che, se il sindaco è una donna, bisogna dire “la sindaca”; se il ministro è donna, “la ministra” (non la minestra, Pierino: ho detto “la ministra”; stai più attento!); se l’assessore è donna, “l’assessora” (sì, è bruttissimo, anzi, fa schifo: dura lex, sed lex). Si rispetta la dignità femminile e si scansa il pericolo di una denuncia per sessismo: paghi uno e prendi due. Oppure, una mattina scopri che i “clandestini” sono diventati “migranti”, e un’altra mattina, che i migranti sono diventati “profughi”: l’importante è saperlo, aggiornarsi. Per evitare querele e per evitare figuracce. Pensare che c’è ancora qualcuno che dice, se non proprio “negro”, almeno “nero”: e non si vergogna. Non lo sa che è come andare in giro col berretto sportivo in testa e il frontino girato all’indietro? Era una moda di parecchi anni fa; oggi fa ridere. Chi non si aggiorna continuamente con la neolingua, fa delle figuracce ancor peggiori. Non sarai mica così rozzo e incivile da dire: “invertito” quando parli di un omosessuale, spero. Anzi, anche “omosessuale” non va più bene: bisogna dire: “gay”. Perché “gay” significa allegro, e gli omosessuali sono tutti allegri e felici, è noto, lo sanno tutti. Se non li chiami così, fai la figura di non saperlo. Solo tu. T’immagini che cosa succederebbe? Roba da diventare rossi per la vergogna e da aver voglia di sparire sottoterra. Come presentarsi in smoking ad un concerto rock, o come andare tutti vestiti su una spiaggia di nudisti. Come mettersi le dita nel naso durante una festa di matrimonio, sotto gli occhi di tutti gli invitai, e perfino degli sposi e del prete. Sono cose che non si fanno, lo capisci bene, tra persone civili. Se ci tieni a essere considerato una persona civile, beninteso. Altrimenti, peggio per te. Fai come ti pare, io ti ho avvertito. Preferisci fare a modo tu, vuoi lasciarti andare alla deriva? Benissimo: ti ridurrai come un barbone, come un vagabondo, come un clochard. Nessuno vorrà avere nulla a che fare con te; eviteranno perfino di stringerti la mano. Sarà la morte sociale, la morte civile. È questo che vuoi? Sì? Allora accomodati pure, ma da solo. Io non ti seguo di certo. Ho famiglia, io; ho moglie e figli a cui pensare. Se tu vuoi rovinarti con le tue mani, sono affari tuoi. Ho sempre pensato che sei un idealista da strapazzo, un donchisciotte da quattro soldi; un testardo e un presuntuoso. Ma non un “idealista” nel senso hegeliano; al contrario: un povero scemo che crede ancora alla verità oggettiva. Vuoi proprio che ti dica cosa penso che tu sia? Sei uno stronzo, ecco cosa sei. Un imbecille, un mentecatto, un fallito. Qui le nostre strade si dividono: tu va’ pure a rovinarti, ché io non ti conosco. Ma guarda un po’ se devo farmi carico di questa testa dura, di questa testa di legno. Vuole andare alla malora? E che ci vada, dunque; alla fine, sono affaracci suoi.
Io, qualche sospetto, già lo avevo. Una volta l’ho sentito dire: “il genocidio degli Ebrei”. Quale genocidio? Non è mica uno dei tanti: è il genocidio, il Male Assoluto, l’Olocausto, la Soah. Uno che non dice: la Shoah, secondo me deve essere un po’ nazista; o, quanto meno, deve avere delle tendenze antisemite. Un’altra volta, poi, ho udito che diceva: “Gli handicappati”; oh, non ne parlava male, affatto: diceva che bisogna andar loro incontro, che la società deve farsi carico delle difficoltà delle famiglie. Però, chi è che dice ancora “gli handicappati”? Ma dove vive? Non lo sa che una simile espressione è brutale, offensiva? E poi, è inesatta, oltre che ingiusta: sottolinea il negativo, ignora il positivo. Si dice: “diversamente abili”, lo sanno tutti, anche i bambini. Se uno non lo sa, significa che non vuole saperlo. E allora si merita una bella stangata. Così forse imparerà a parlare da persona civile: se non li bastoni, non capiscono, ‘sti trogloditi. Bisogna rieducarli: rieducarli a pensare, e quindi anche a parlare, nel modo giusto. Sono le loro teste ad essere sbagliate; ma noi siamo buoni, non tagliamo le teste come facevano i giacobini. Invece di tagliarle, le cambiamo: un poco alla volta, partendo dalla neolingua. I risultati già si vedono. È bastata una generazione e già si vedono, eccome. Cambiando le parole, cambiano i pensieri. La gente incomincia a pensare come è giusto che si pensi: adeguando le cose al pensiero. Al pensiero di chi? Al pensiero politically correct.E chi è il soggetto che pensa codesto pensiero? Eh, via, qui si fanno un po’ troppe domande. Il pensiero che pensa se stesso, no? E ora basta con la teoria; mettiamoci al lavoro. Abbiamo un compito urgente: costruire il mondo nuovo. Un mondo nuovo, più bello, pieno di solidarietà e amore; un mondo gioioso, un mondo arcobaleno.
A proposito: ricordati che non si deve dire: “famiglie omosessuali”; bensì: “famiglie arcobaleno”. Arcobaleno, senti che bella parola? Te lo vedi davanti, no, quell’arco di cielo dai sette colori dell’iride, che brillano dopo la pioggia? Perché questa, appunto, è l’idea che si vuol trasmettere: una cosa fresca, bella, luminosa. Due uomini che sia amano, con tanti bei bambini: due splendidi papà coi loro figli. Insomma, “loro”: non facciamo i complicati. Loro, sì, perché li amano. Anche se li hanno ac…, cioè, anche se li hanno ottenuti con la pratica dell’utero in affitto. Ecco un’altra brutta espressione: bisognerà cambiarla, sostituirla. Utero in affitto! No, non va bene, è inaccettabile. Bisogna trovare un altro modo di esprimersi: bisognerà dire, per esempio: bambini ottenuti mediante la donazione volontaria. Cosa c’è di più bello che donare un bambino, per la gioia di due maschi villosi in fregola di esse padre e madre, pardon, di essere genitore uno e genitore due? Chissà che le maestre perdano il viziaccio di chiedere ai bambini chi sono il papà e la mamma: è una forma di omofobia bell’e buona. Genitore 1 e genitore 2, così è perfetto. Tutti uguali davanti alla legge, senza più discriminazioni. Chi lo dice che non c’è più adequatio rei et intellectus? L’importante è sapere come si chiamano le cose, che nome dare loro. Una volta stabilito il nome, la corrispondenza con l’intelletto sorge immediata. Per esempio: che bisogno c’è di spiegare cos’è il matrimonio omosessuale? Basta chiamarlo così, e l’idea di esso si presenta spontanea alla mente…


Adaequatio rei et intellectus?

di Francesco Lamendola

http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9560:adaequatio-rei-et-intellectus&catid=96:filosofia&Itemid=124

RIVELAZIONE E GNOSI. 


Quale gnosi?
Si fa un grande uso, oggi, della parola “gnosi” infilando in essa concettualmente tutto ed il contrario di tutto. Anche in ambito cattolico si usa e spesso si abusa di tale parola con il rischio di travolgere, insieme a quanto di ambiguo e pericoloso può ad essa essere ricondotto, anche la Sapienza biblica che è fondamento della Teologia Mistica, con il rischio, poi, di ridurre la fede a qualche sillogismo maldigerito. Senza la Sapienza la fede corre il rischio di ossificarsi, come è appunto accaduto in ambiente protestante che pur è stato attraversato da forti correnti di spiritualità spuria, “carismatica”, invasata ed invasiva. Sembra dunque giusto e necessario porre qualche definizione e magari distinguere, sulla scorta di quanto ha fatto un attento teologo come Ennio Innocenti, tra la “gnosi pura”, coincidente con la Rivelazione e la Sapienza mistica di cui Essa è portatrice, e la “gnosi spuria”.
La gnosi spuria è nient’altro che la “religio luciferina” la quale, nel racconto del Genesi, è racchiusa nel simbolo del serpente. Questo, infatti, non ha nulla a che fare con il rettile in quanto animale o con la paura nutrita per esso presso popolazioni stanziate in zone desertiche o semi-desertiche.
Il serpente tentatore è l’ourobouros, il serpente che si morde la coda, ossia il simbolo, presente presso molte antiche culture e ripreso dai filoni gnostico-esoterici post-cristiani, che vuole esprimere l’eterno ritorno panteista, la circolarità immanente, nella quale l’uomo, considerato frammento della ruota immanente che deve riconquistarne, da solo e senza Grazia soccorritrice, il Centro, si auto-deifica mediante riti iniziatici, ben conosciuti dal mondo extrabiblico e pre-cristiano. Questi riti, tuttavia, nascondevano i retaggi corrotti della primordiale ed autentica Sapienza Adamitca e Pre-Diluviana poi perduta (e restituita, in vista della futura Incarnazione del Verbo, da Melchisedeq unicamente ad Abramo). La corruzione della Sapienza sta, per l’appunto, nel rovesciamento prometeico della Promessa di Salvezza che la religio luciferina ha trasformato nella tentazione, cui i Progenitori hanno ceduto, dell’auto-deificazione raggiungibile attraverso la fusione spirituale dell’uomo con il cosmo concepito quale un “olos” senza trascendenza ma “divino”, quindi impersonale ma infinito, eterno.
Come si comprende siamo qui di fronte ad una scelta religiosa cui l’uomo viene liberamente chiamato tra l’accettazione della sua dipendenza ontologica da Dio, che lo soccorre nella Sua Infinita e Kenotica Misericordia, e la pretesa di auto-salvazione iniziatica. Quindi siamo di fronte a due diverse religioni, una vera e l’altra ingannatrice, luciferina, che porta al nulla. Nel racconto del Genesi il serpente tenta per primo la donna ma questo non è affatto, come credono generalmente coloro avvezzi a considerare le questioni religiose nella prospettiva della banalizzazione scientista, il retaggio antifemminista di una cultura patriarcale e pastorale. Le culture politeiste, con le quali l’antico Israele doveva confrontarsi, praticavano culti della fecondità nei quali la donna/madre era considerata simbolo del ciclo ininterrotto e continuo di nascita e morte, ossia della circolarità panteista della natura, del cosmo inteso quale olos chiuso alla Trascendenza. Quindi tra il “femminino sacro” ed il “serpente che si morde la coda” c’è uno stretto rapporto esoterico.
Ma nel racconto del Genesi si annuncia che proprio da una, anzi, dalla Donna giungerà la salvezza dell’umanità e che tra la Donna – nel cui seno, nel cui Cuore Immacolato, si umanerà, si farà Uomo, la Sapienza di Dio – e il serpente ourobouros ci sarà, per sempre, guerra. “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gn. 3,15). Quella Donna è la Vergine Maria. La Madonna, Mea Domina e dunque Nostra Signora, accettata ed esaltata da Dio, che la preserva dal peccato originale nell’Immacolata Concezione, per la sua umile e totale obbedienza al Creatore. “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc. 1, 38). La Tradizione la chiama Nuova Eva (e Cristo Nuovo Adamo): l’Eva biblica era la madre dei viventi in senso naturalistico e come tale, dopo il cedimento alla tentazione luciferina, essa diventa ispiratrice dei culti pagani della maternità/fecondità, Maria è, invece, la Madre dei Viventi in Cristo ossia dei Salvati nell’Amore Gratuito e Trascendente che si è Incarnato per redimere l’umanità traviata dai culti panteistici.
L’uomo di fronte alla sua libera scelta
Mircea Eliade e Julien Ries, da storici della religione e antropologi, ci hanno rammentato che l’uomo è essenzialmente, vocazionalmente, homo religiosus. Ma prima di loro già Agostino lo aveva chiaramente compreso quando parlava del “cor inquietus” che trova pace solo in Dio. Un amore coatto non è mai amore. L’amore deve essere libero per essere autenticamente tale. L’uomo è stato voluto sin dall’origine libero. Libero di scegliere. Se avesse scelto la deificazione per grazia, egli, in attesa della futura resurrezione escatologica anche del corpo “spiritualizzato” sì ma al tempo stesso realmente “carnale”, avrebbe sperimentato la morte corporale senza alcun timore perché avrebbe conseguito il Cielo, la cui Porte gli erano costantemente aperte, e l’inferno non lo avrebbe potuto toccare. Avendo perduto, per libera scelta, la sua origine santa, il cuore dell’uomo è ora inquieto, non è più il “giardino nel quale il Signore passeggiava alla brezza del giorno” (Gn. 3,8). Tuttavia l’uomo ha sì liberamente scelto ma è stato anche ingannato dalla seducente fascinazione di una mistica panteista che gli prometteva l’immortalità nella fusione cosmica.
Gli angeli caduti, in quanto angeli e quindi puri spiriti, erano immuni dalla possibilità di essere sedotti dal flusso dinamico della vita meramente biologica e naturale. La loro fu pertanto una scelta libera ed irrevocabile. Il loro “non serviam”, proferito a fronte della visione dell’Incarnazione futura del Verbo ed espressione di un orgoglio che non ammetteva la possibilità che Dio si “insozzasse” con la carne, con la materia (questa è la radice primordiale dell’odio gnostico contro la creazione, contro lo stesso sinolo psico-corporeo umano), è stato definitivo, per l’eternità, proprio perché essi erano assolutamente immuni dal poter subire tentazione alcuna. L’uomo, invece, pur avendo fatto liberamente la sua scelta è stato anche ingannato, sedotto dal fascino oscuro ed ambiguo ma anche suadente di una pseudo-mistica che gli ha fatto dimenticare che tutto, anche l’Immortalità promessa, è un dono del Signore e non una auto-costruzione, come appunto da sempre pretendono le varie correnti gnostiche che attraversano il panorama religioso dell’umanità.
L’aver scelto liberamente ma sedotto da una spiritualità spuria ha reso l’uomo, a differenza degli angeli decaduti, redimibile e per redimerlo all’Incarnazione futura di Dio, che ci sarebbe stata anche senza peccato originale, si sono dovute accompagnare anche la Sua Passione, Morte e Resurrezione. Non l’Incarnazione ma il Sacrificio della Croce è il portato del peccato originale. Sembra prevalente l’opinione teologica per la quale la colpa adamitica ci ha conseguito l’Incarnazione e, per questo, la Tradizione della Chiesa, paradossalmente, canta della “felix culpa” di Adamo. Tuttavia un’altra e ben fondata opinione teologica afferma che l’Incarnazione era nel Disegno di Dio sin dall’origine e che Essa non è conseguente al peccato proprio perché la carne, la carne che Dio stesso ha rivestito, in quanto creazione, è, come ogni opus Dei, “cosa buona” e non peccato. Ma anche dopo il Sacrificio della Croce l’uomo, perché creato libero, è chiamato a scegliere. La Redenzione non è imposta a nessuno, è invece offerta a tutti dalla Bontà Divina. L’uomo tuttavia può rifiutarla ed in tal caso i meriti conseguitici da Nostro Signore Gesù Cristo sulla Croce non possono, per nostra volontaria scelta, esserci applicati, secondo il linguaggio proprio della teologia cattolica. Da qui la Verità teologica per la quale Dio non condanna nessuno alla dannazione eterna ma che sono gli uomini a condannarsi da soli rifiutando il Suo Sacrificio d’Amore. La scelta cui l’uomo è ancora chiamato, anche dopo il Calvario e la Pasqua, è sempre quella, primordiale, tra l’una o l’altra religione, quella della Sapienza rivelata o quella luciferina simboleggiata dal serpente gnostico.
Bontà della corporeità
Se è vero che nel linguaggio dei mistici cristiani spesso si fa riferimento al corpo come ad una prigione che trattiene l’anima impedendole di congiungersi con il suo Signore, è altrettanto vero che mai nessun mistico cristiano ha dubitato della santità e sacralità del corpo destinato, in Cristo, alla resurrezione e glorificazione escatologica. Francesco d’Assisi, morente, chiedeva perdono al suo corpo per averlo maltrattato con le dure penitenze. Il fatto è che il mistico cristiano non anela a liberarsi del corpo come se esso fosse ontologicamente malvagio e, quindi, fosse un ostacolo alla fusione nell’impersonale “divino cosmico” – secondo la prospettiva della gnosi spuria, persistente in tutte le sue varie forme storiche – ma, al contrario, anela all’unione sponsale, mistica appunto, con Dio, inteso quale sposo dell’anima, in attesa di perfezionare, alla fine dei tempi, questa unione anche nel corpo risorto e glorificato.
Platone svalutava la realtà quale ombra dell’Idea iperuranica. Egli non poteva, senza la Rivelazione, comprendere la bontà ontologica del mondo che, infatti, reputava il beffardo scherzo di un demiurgo venuto a frammentare l’originaria ed indistinta unità dell’Uno. Plotino riprese le medesime concezioni. Eppure sia Platone che Plotino presentivano qualcosa di più che non riuscivano a meglio comprendere. La loro ricerca del “di più”, pur allocato nella limitata zona “iperuranica” della monade olista del cosmo, già era sforzo e presentimento di Colui che è Oltre il cosmo e nel quale il cosmo stesso sussiste essendone in-formato.
L’incontro tra Rivelazione biblica e logos filosofico – l’incontro tra Gerusalemme ed Atene – che è già in nuce nel misterioso, al tempo stesso apofatico e catafatico, “Io sono Colui che sono” (Es. 3,14) per giungere ad ulteriori sviluppi nei Salmi e nel Libro della Sapienza nel quale, non a caso, si tratta platonicamente, ma alla luce della fede nel Dio di Abramo, di corruttibilità del corpo ed immortalità dell’anima spirituale, non è stato una “ellenizzazione” della fede biblica, benché ci sia stato anche questo esito, quanto piuttosto, principalmente, una “rivelazionizzazione” del logos filosofico che ha permesso a quest’ultimo di conseguire quanto esso presagiva senza poter attingere, che in altri termini ha permesso, mediante i Padri, a Platone e Plotino di completare, portare a compimento, quelle intuizioni pre-cristiane che, nel mirabile disegno provvidenziale di salvezza, Dio aveva loro infuso per preparare i gentili ed i pagani all’Avvento carnale del Suo Logos. E così che il Plato anti-christianus diventò il Plato christianus, sulla cui base i Padri della Chiesa hanno posto le fondamenta, poi ulteriormente elaborate attraverso altri filtri filosofici come l’aristotelismo medioevale, della teologia cristiana quale possibile discorso razionale sul Mistero di Dio, di per sé inattingibile se Egli non ci si rivela.
Santità e Sacralità
Quanto sin qui siamo andati dicendo ci aiuta a comprendere la distinzione tra “Santo” e “Sacro”, tra la religione rivelata del ceppo abramitico e le religioni mitico-immanenti. La “Santità” abramitica –  nel Vecchio Testamento Dio è il “Santo, Santo, Santo”, il “Tre volte Santo”, sottendendo già il Mistero cristiano della SS.ma Trinità; nel Nuovo Testamento siamo ammoniti ad essere “santi come Santo è il Padre vostro” – sta ad indicare la assoluta Trascendenza di Dio rispetto al mondo creato, la Sua assoluta non dipendenza o limitazione da parte della creazione che Egli oltrepassa all’infinito. Quella abramitica, storicamente sviluppatasi nelle tre fedi dell’ebraismo, del Cristianesimo e dell’islamismo, è una totale eccezione nel panorama religioso universale. La “Sacralità” dei sistemi religiosi, extra-abramitici, ad impianto mitico-immanente sta invece ad indicare la divinizzazione della natura, la divinizzazione della realtà immanente ritenuta, panteisticamente, eterna ed infinita. Si tratta, in genere, di una spiritualità cosmica nella quale il Divino è impersonale, laddove nell’eccezione abramitica Dio è Persona benché non antropomorfa (e vero semmai il contrario ossia che l’uomo è teomorfo per mera analogia e non per identità ontologica). Le religioni pagane, non a caso, ponevano i propri centri di culto nelle foreste (le colonne del Partenone sull’Acropoli rappresentano gli alberi della foresta sacra alla quale solo il sacerdote poteva accedere) ed in tal senso veniva distinta l’area del “fanum”, quella interna, dall’area del non-fanum o del pro-fanum, quella esterna alla foresta.
Bisogna, però fare molta attenzione a non usare detta essenziale distinzione in un senso ideologico come fanno, ad esempio, nicciani neo-pagani alla Alain De Benoist o egittologi neo-illuministi come Jan Asman. La Santità abramitica, infatti, – pur comportando una netta distinzione tra chi ad essa aderisce, e diventa santo ossia eletto da Dio che è Santo, e chi ad essa non aderisce – almeno nel Cristianesimo, pur non scomparendo affatto, si è fecondamente incontrata con il “Sacro” in quanto il Santo, l’Assoluto Trascendente, si è Incarnato, ha assunto l’immanente in Sé pur restando assolutamente trascendente e quindi senza subire alcuna degradazione naturalistica o panteistica. Questo spiega perché nel Cristianesimo (per l’ebraismo e l’islam, che non conoscono l’Incarnazione del Verbo, o almeno non ancora la riconoscono, l’incontro con il Sacro rimane espresso soltanto come “irruzione di Dio” nella storia e quindi nel mondo creato) il Santo, la Santità, non viene opposto al Sacro, alla Sacralità.
Basta pensare al culto del Sacro Cuore di Gesù, che è il culto stesso della transustanziazione eucaristica la quale avviene realmente nel Pane, consacrato, e nel Vino, consacrato, contenuto nel Calice che, come il “Graal” ossia la Coppa dell’Ultima Cena, è ad un tempo Santo e Sacro. Il Calice, la Coppa, è ricettacolo del Sangue del Verbo Incarnato, del Sangue di Cristo che spilla, come nell’immagine del Cristo Misericordioso di suor Faustina Kowalska, dal Cuore di Gesù. Questo Cuore è Sacro perché umano, quindi appartenente all’immanente, ma al tempo stesso è Santo perché consustanzialmente unito, mediante la Seconda Persona Trinitaria, al Verbo di Dio ed è, quindi, Cuore umano ipostaticamente uno con la Natura Trascendente di Dio. Il Cuore di Maria, anch’esso Sacro, è ricettacolo del Verbo – per questo le Litanie del Santo Rosario lo proclamano “Vaso Spirituale” – nella Santità dell’Immacolata Concezione, della assoluta Purezza Verginale di Colei che è stata scelta per essere la Madre di Dio e, per affidamento e consegna, Madre nostra.
Non è quindi possibile, neanche in un orizzonte abramitico e a maggior ragione, in particolare, in quello cristiano, opporre Santità e Sacralità ed è quindi preferibile parlare di “Santo/Sacro”, esattamente in questo ordine: prima il Santo che poi assume ed eleva il Sacro. Questo ci porta a concludere che, al contrario di quanto pretendono neopagani e nicciani dell’ultima ora, il Cristianesimo non ha affatto sconsacrato il mondo. Esso lo ha piuttosto depanteizzato. Rivelandone la non divinità, lo ha poi, però, dichiarato “santo-sacro per derivazione e dipendenza creaturale dal Tre volte Santo”. Come aveva perfettamente inteso san Francesco d’Assisi quando cantava del sole affermandone, ad un tempo, la creaturalità e l’alto significato di segno ontologico della Somma Bontà del Creatore: “Di Te, Altissimo, porta significatione”. E se di Dio il sole è segno, cosa mai si potrà dire dell’uomo che è Icona di Dio nel mondo?
Quale rapporto tra Dio, uomo e mondo?
Potremmo, dunque, affermare che tutto ciò che è specificatamente umano dipende dalla sua essenza religiosa, nel senso che anche ogni scelta culturale, politica, economica, è figlia di dell’originario rapporto con il Santo/Sacro. Molti di fronte a tale prospettiva arretrano perché ritengono che riconoscere tale dipendenza significherebbe affermare che la religione è tutto e il resto (politica, diritto, economia, arte, filosofia, scienza) è nulla, qualcosa di assolutamente senza alcun valore ontologico. Questa errata convinzione è il motivo per il quale, da almeno due secoli, la modernità laicizzante si è ribellata al “Santo/Sacro”. Ma questa, da molti più secoli, è anche la convinzione coltivata, guarda caso, da quelle correnti spirituali che, radicate in antichi retaggi gnostici, storicamente comparse quali forme eterodosse anche in ambito cristiano o più in generale abramitico, proclamano essere il “mondo” una prigione dalla quale evadere, quindi un limite dal quale l’uomo “spirituale” deve liberarsi, magari infrangendo empiamente ogni costrittiva legge morale eteronoma, per tornare all’unione indistinta con il divino cosmico dal quale proprio il “mondo” lo ha separato ed allontanato, imprigionandolo nella “carne” sempre impura.
Altri, in particolare in ambito cristiano, si chiedono – non è una novità perché fu la stessa domanda che si pose Aurelio Agostino all’atto di scrivere “La Città di Dio” – come sia possibile mettere in giusta relazione Dio, uomo e mondo in modo da non cadere negli opposti, ma a ben vedere anche complementari, errori di chi esalta la Trascendenza contro l’immanenza e di chi, al contrario, afferma l’immanenza negando la Trascendenza. Infatti negare la bontà ontologica del mondo porta ad una fede intimistica e spiritualistica, come ad esempio nel caso luterano, che si auto-aliena in un esilio che non tiene conto che Dio ha assunto la Carne per redimere il mondo nella promessa della sua trasfigurazione escatologica nel “nuovo cielo” e nella “nuova terra” quando apparirà la “Nuova Gerusalemme” (Ap. 21). Ma affermare la bontà del mondo come cosa a sé stante, non dipendente da un Amore gratuito, porta all’orgoglio auto-divinizzante che, storicamente, si è manifestato, ad esempio, nelle ideologie moderne.
Chi ha negato l’asse verticale della Croce ha finito per divinizzare lo Stato o il Mercato ma chi ha negato l’asse orizzontale, svalutandone la consistenza ontologica e platonicamente riducendolo ad un’ombra, ha finito per rapportarsi in modo errato con Dio negando, in un “santo” solipsismo, la vocazione relazionale dell’uomo votato all’Amore di Dio e del  prossimo. Gli asceti autentici, infatti, salgono, come Mosé, sulla montagna per poi ridiscenderne con la Parola di Dio per il popolo. Benedetto da Norcia passò tre anni in duro e solitario eremitaggio, in una spelonca a Subiaco, ma quando fu inondato dalla Luce Increata comprese anche la chiamata attiva alla fondazione di comunità di vita cristiana in tempi di decadenza civile, culturale, politica, economica, ponendo le basi per salvare la stessa civiltà. Anche Francesco d’Assisi mai concepì la sua vocazione come esilio gnostico dal mondo e la stessa, terminale, esperienza della Verna gli confermò che nell’Amore di Dio i santi trasformano il mondo ossia lo riportano alla sua originaria “perfezione” depurandolo dall’originale peccato. Il monachesimo claustrale, maschile e femminile, non è abbandono del mondo ma preghiera continua ed incessante per la sua salvezza.
Dio è ad un tempo “absconditus et revelatus” ossia apofatico e catafatico. Non a caso la Tradizione cristiana conosce entrambe le teologie, quella “negativa” e quella “positiva”. L’errore nasce quando si oppongono apofaticità e catafaticità. Dio è il Sommo Bene e per questo la creazione è espressione della sua Bontà ed è un dono del suo Amore per l’uomo. La creazione dipende da Dio ma ha una sua, relativamente autonoma, dignità. Essa non è una illusione, un nulla, come nelle concezioni platoniche e neoplatoniche che sono alla base di molte correnti gnostiche (fermo rimanendo che, come abbiamo detto, se esiste un “Platone anti-cristiano” c’è anche tuttavia un “Platone cristiano”). Lo stesso corpo umano e la sessualità non sono ontologicamente negatività. Il corpo in quanto creato è buono ed infatti è destinato alla resurrezione (il peccato è altra cosa e non ha a che fare con la materia come riteneva il catarismo, una delle varianti della gnosi spuria). Nel Genesi Dio dice, ripetutamente, della Sua Opera che è cosa buona. Quindi, nel giusto ordine gerarchico che vede prima il “Santo/Sacro” e poi a seguire il Politico e l’Economico (qui la tripartizione platonica è perfettamente consona con la Rivelazione), la politica e l’economia, nella loro relativa autonomia, hanno un proprio spazio ma, in ultima istanza, esse sono in relazione con la Trascendenza tanto che le scelte politiche ed economiche sono errate quando non interpretano bene questa relazione ultima con il Santo/Sacro. Ciò accade proprio quando tale relazione viene misconosciuta e questo può assumere due forme entrambe velenose: la spiritualizzazione del mondo con la negazione di ogni consistenza ontologica al creato – è l’errore dell’assoluto apofatismo – oppure la immanentizzazione del tutto con la negazione della trascendenza – è l’errore dell’assoluto catafatismo, o meglio dell’assoluto positivismo – che poi, nella storia a partire dalla diffusione del Cristianesimo, ha dato adito ai due, contrapposti ma anche complementari, errori della teocrazia e della statolatria (oggi, in età postmoderna e quindi post-statuale, si dovrebbe piuttosto parlare di mercatolatria).
Il Sacrificio della Croce come garanzia del sacro santificato
Un antropologo molto noto, Renè Girard, ha dato del Sacro una interessante lettura, appunto, antropologica. In noti testi (“La violenza e il sacro”; “Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”; “Vedo Satana cadere dal cielo come la folgore”) ha elaborato una documentata esegesi per la quale il Sacro serve a frenare la violenza e quindi a permettere la sopravvivenza della comunità. Il sacrificio umano, quindi, non aveva la funzione catartica di placare l’ira degli dèi e consentire la perpetuazione del ciclo della vita cosmica ma anche quella di placare la violenza insita in noi, e che si manifesta nella concorrenza per l’appropriazione dei beni della vita (“rivalità mimetica”), la quale distruggerebbe la convivenza umana se non trovasse sfogo rituale nel meccanismo del “capro espiatorio” ossia della vittima sacrificale sulla quale si addossano tutte le responsabilità della crisi ingenerata dalla violenza intra-tribale. La vittima sacrificale diventa così il bersaglio sostitutivo del proprio nemico e l’intera tribù si raccoglie intorno alla vittima per ucciderla o allontanarla ritualmente e ristabilire, in tal modo, la pace interna al gruppo evitandone l’auto-distruzione. In questo contesto la vittima non è mai innocente – come nel Cristianesimo – ma, dal punto di vista della tribù, sempre colpevole e quindi da sopprimere o allontanare. In effetti i sacrifici umani furono praticati presso tutti i popoli (anche presso i romani all’inizio della loro storia). Si pensi al significato ed al ruolo dei sacrifici umani presso aztechi e fenici, giusto per citare due culture geograficamente e storicamente lontanissime tra loro.
L’esegesi antropologica del Girard, però, sembra risentire dell’influsso filosofico del giusnaturalismo pessimistico di Hobbes e della prospettiva appunto hobbesiana di uno stato di natura caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti e quindi della necessità di un elemento/intervento pacificatore che per il filosofo seicentesco è l’autorità intangibile del Monarca assoluto, nascente dal contratto sociale, e per l’antropologo contemporaneo il meccanismo vittimario. In realtà, altri studi antropologici, hanno dimostrato che alla base del sacro non c’è, o almeno non c’è soltanto, la necessità di espellere la violenza dal gruppo sociale. Il Sacro è fondato sul racconto mitico, e la sua ripetizione rituale, inerente le origini del mondo dalla frammentazione dell’indistinto Tutto/Uno primordiale. Sicché il sacrificio umano ripeteva, al fine di impedire il collasso del cosmo, l’evento mitico della frammentazione del Tutto/Uno che era considerata causa della manifestazione cosmica (la quale, se da un alto, doveva essere preservata ritualmente per il popolo, dall’altro, per pochi eletti, doveva essere iniziaticamente risolta mediante la fusione dell’io individuale nel Tutto/Uno impersonale e primordiale). Nelle antiche mitologie, infatti, il mondo nasce dallo squartamento del dio o dell’antenato mitico oppure dalla copula di deità contrapposte, corrispondenti a potenze polarizzate nell’Uno/Tutto, dalla quale, per progressiva  e decadente “emanazione”, viene a prendere forma il cosmo in sé “divino”: si pensi a Tamiat e Apsu della cosmogonia babilonese ma anche a Uranos e Gea in quella greca. Pertanto i riti basati sul sacrificio umano o sulla sessualità iniziatica o orgiastica miravano a ripetere ciclicamente l’evento mitico posto alla radice della manifestazione del mondo, piuttosto che a espellere la violenza dal gruppo.
Girard, che a seguito dei suoi studi si è convertito al Cattolicesimo, quando affronta il problema della diversità del Cristianesimo ritiene che esso abbia posto fine al Sacro. Il Sacrificio di Cristo abolisce la dimensione sacrale insita negli schemi rituali tradizionali perché mentre questi ultimi sono fondati sulla colpevolezza della vittima sacrificale, sacrificando la quale la violenza viene allontanata dal gruppo, Gesù Cristo è, per definizione, Vittima Innocente. Con ciò il perdono si sostituisce alla violenza mimetica e il mondo, privato della violenza sacrale, verrebbe “sconsacrato”. L’Evento del Calvario, secondo Girard, pone un’antitesi tra religione, in senso vasto, e fede cristiana, sicché la “morte di Dio”, che solo in ambito cristiano diventa concepibile, sarebbe la radice stessa dell’ateismo il quale, pertanto, sarebbe di matrice cristiana. E’, però, evidente, in Girard, l’eco di Nietzsche.
La lettura girardiana del Sacro quale “sacrificio che servirebbe a frenare la violenza” ha, certamente, in relazione al panorama ed alla storia religiosa dell’umanità, una sua validità esegetica, benché, come si è osservato, non totalizzante, ma non è possibile fare di essa la chiave assoluta di interpretazione della Rivelazione cristiana. Dio ferma la mano di Abramo che stava, su Suo ordine, per sacrificare il figlio Isacco. Quell’unico figlio che il patriarca aveva avuto, come un dono, dopo tanta attesa e preghiera da una moglie anziana e sterile. Dio mette alla prova la fede di Abramo e constatato che il patriarca, fidandosi di Lui, non Gli nega il suo unico figlio, lo ferma e gli promette, rovesciando la prospettiva all’epoca universalmente diffusa del sacrificio umano, che sarà Lui a dare all’umanità il Suo Unico Figlio in Sacrificio. Ma si tratta di un Sacrificio d’Amore, per la redenzione dell’umanità. Non, come nelle culture pagane alle quali si riferisce Girard, di un sacrificio per espellere la violenza dal gruppo umano e preservarne l’integrità. In questo, nel fatto che il Sacrificio di Cristo pone fine alla violenza sacrale, Girard vede giusto ma a condizione di non giungere alla conclusione che il Cristianesimo dia origine alla “sconsacrazione” del mondo perché, come si è detto, il Sacro, pur potendo in senso generale contemplare la violenza, non è affatto strutturalmente fondato sul meccanismo vittimario dell’espulsione della violenza intra-tribale quanto, piuttosto, quale conseguenza della scelta umana in favore dell’ourobouros, sull’inversione/corruzione cosmico-panteista della Sapienza Adamitica ossia della Rivelazione infusa da Dio nel cuore dell’uomo per sollecitarne la libera risposta d’amore al Suo Amore.
Lo stesso racconto biblico del quasi-sacrificio di Isacco sta ad indicare un’epoca di grande diffusione del sacrificio umano. Ma al sacrificio umano si oppone il Dio biblico offrendosi Egli, kenoticamente, come Vittima Innocente. Questo, però, tenendo conto di quanto in precedenza abbiamo detto sul rapporto tra Santo e Sacro e sulla loro unione “santo-sacrale” compiuta nel Cristianesimo, non significa affatto abolizione del Sacro quanto piuttosto la sua elevazione al piano della Santità, della pura ed assoluta Trascendenza di Dio, il Quale non si è sdegnato di “contaminarsi” con la carne (intesa nel senso psico-fisico del termine e non solo in senso strettamente corporeo: Cristo si è Umanato ossia ha assunto sia l’anima spirituale che il corpo umano). In questo senso non si può dire che la fede cristiana non abbia i caratteri della religione, tanto è vero che il Cristianesimo si è diffuso anche attraverso l’acculturazione delle filosofie e dei riti precristiani (senza farne affatto tabula rasa) però obliterandone i contenuti, quando essi non erano retaggio coerente della Sapienza Primordiale ma di Essa solo corruzione, per ricostituirli e riportarli alla originaria radice della Rivelazione ricevuta dall’Adamo edenico. Questa restaurazione sapienziale è stata resa possibile dalla Redenzione operata dal Sacrificio della Croce. Perché Esso, il Sacrificio della Croce, non abolisce ma santifica il sacro.
Secondo Girard l’ateismo, a causa della “sconsacrazione” del quale sarebbe portatore il Cristianesimo, sarebbe un fenomeno cristiano. L’esegesi di Girard è, però, alquanto strabica. Perché se egli intende, appunto, per “ateismo” la desacralizzazione, nel senso però della spanteizzazione, dell’immanente coglie un elemento di verità ma solo a condizione di aggiungere subito che a detta spanteizzazione non segue l’abbandono del mondo alla “profanità”, segue invece lo svelamento della sua creaturalità e quindi della sua sacralità per derivazione, per dipendenza, dal Santo. Se egli, invece, intende per “ateismo” l’ateismo moderno allora non ci siamo per il semplice fatto che l’ateismo non esiste.
L’ateo – come diceva Chesterton – non è colui che non crede a niente ma colui che crede a qualsiasi fandonia, come la diffusione attuale dei nuovi culti (compreso lo scientismo ossia l’adorazione della scienza) sta dimostrando. Se l’uomo ha davanti a sé, quale sola fondamentale, la scelta tra accettare nell’Amore di Dio la propria creaturalità oppure ergersi prometeicamente a “dio di sé stesso” (“eritis sicut Dei”, come abbiamo detto, è la tentazione dell’ourouborus edenico), l’ateo non crede a Dio soltanto perché crede esclusivamente e soggettivisticamente in sé stesso. Ecco perché l’ateismo non esiste. L’uomo per natura ha un intimo, strutturale, bisogno di credere, di affidarsi, e se non ripone la propria fede in Colui che ha fatto il mondo finisce inevitabilmente per abbracciare la religio luciferina e per aver fede soltanto in sé stesso, nel Culto dell’Uomo. Infatti l’Umanitarismo, nelle sue varie forme di “destra” o di “sinistra”, è l’attuale religione dell’Occidente terminale, dell’Occidente che ha voltato le spalle a Cristo.
Luigi Copertino

Di Luigi Copertino

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