Monsignor Lefebvre era, come lui stesso si definì, un semplice cattolico. In una celebre omelia, tra l’altro disse: “… anch’io sono un semplice cattolico. Prete, non v’è dubbio; vescovo, non v’è dubbio; ma mi trovo nelle medesime condizioni nelle quali vi trovate voi. Ho, come voi, le medesime reazioni davanti alla distruzione della Chiesa, davanti alla distruzione della nostra fede, davanti alle rovine che s’accumulano sotto i nostri occhi”….
Giovedì 22 settembre 2016
È pervenuta in Redazione:.
Gentilissimo dottor Gnocchi,
forse glielo hanno già chiesto altri, ma mi pare che nella sua fotografia compaia l’immagine di monsignor Lefebvre, che lei tiene in bella vista nel suo studio. È così importante per lei?
La ringrazio per l’eventuale risposta
Alfredo Rossi
.
Caro Rossi,
non ricordo se ho già risposto a una simile domanda. Che mi è stata rivolta più volte. In ogni caso, lo faccio e, se mi ripeto, vorrò dire che facciamo un ripasso.
Certo che monsignor Lefebvre è così importante per me. Mi stupisce solo che non lo sia per tanti cattolici che hanno amore alla Chiesa e a Cristo. Cerco di spiegarglielo partendo da un preciso riferimento cronologico, quel 29 agosto 1976 in cui nacque la leggenda del “vescovo ribelle”. Quel giorno monsignor Lefebvre, già sospeso a divinis, celebrò pubblicamente a Lilla, in Francia, una Messa a cui parteciparono migliaia di fedeli e, durante l’omelia, spiegò la natura di quanto stava accadendo. “Vorrei parimenti dissipare un altro malinteso” disse. “E mi scuso, ma sono obbligato a dirlo: non sono io ad essermi definito ‘il capo dei tradizionalisti’. Voi sapete chi l’ha fatto poco tempo fa, in circostanze particolarmente solenni e memorabili a Roma. Hanno detto che Monsignor Lefebvre era il capo dei tradizionalisti, ma io non lo sono affatto. Perché? Perché anch’io sono un semplice cattolico. Prete, non v’è dubbio; vescovo, non v’è dubbio; ma mi trovo nelle medesime condizioni nelle quali vi trovate voi. Ho, come voi, le medesime reazioni davanti alla distruzione della Chiesa, davanti alla distruzione della nostra fede, davanti alle rovine che s’accumulano sotto i nostri occhi”.
Un semplice cattolico, caro Rossi, scritto così, senza virgolette. Quanto sarebbe stato più facile comprendere la sua azione, il suo pensiero, la sua dottrina, la sua fede se qualcuno, allora, avesse considerato il “vescovo ribelle” come un semplice cattolico. Ma gli Anni Settanta, forgiati nella fucina della “Nuova Pentecoste” evocata dall’ideologia conciliare non prevedevano la categoria di “semplice cattolico”. Ormai una “Nuova Chiesa” aveva sostituito la “Vecchia Chiesa”: si poteva solo appartenere all’una o all’altra, i buoni a quella “Nuova” e i cattivi a quella “Vecchia”.
Oggi che ci si è risvegliati sotto le macerie della “Nuova Chiesa”, caro Rossi, molti semplici cattolici si stupiranno di ritrovarsi nella testimonianza e nelle preoccupazioni del fondatore della Fraternità sacerdotale San Pio X. E più ancora, si stupiranno constatando che la gravità, la decisione e persino la durezza di certi passaggi, oggi, si respirano anche in ambienti affatto marginali della Chiesa, dove è ormai chiaro che la misura sia colma.
Persino molti osservatori in buona fede, allora, faticarono a comprendere che il “fenomeno tradizionalista” apparteneva a pieno titolo alla vita della Chiesa, dato che riproponeva ciò che la Chiesa aveva sempre insegnato e sempre praticato. E il tentativo di soffocarlo messo in opera da chi in buona fede non era, in realtà finì per dargli una fisionomia precisa e riconoscibile e fortemente identitaria. Il “fenomeno tradizionalista” non sarebbe mai esistito se, in definitiva, non fosse stato creato dall’ostilità palese dei progressisti che lo vedevano come nemico e da quella malcelata di tanti conservatori che lo vedevano come concorrente.
Ciò che continua ad attrarmi di questo santo vescovo, caro Rossi, sta nell’inesorabilità del ragionamento, che un tempo, era moneta comune dentro la Chiesa. Un esempio tra i più limpidi si trova nell’omelia di Lilla del 1976, là dove il vescovo francese spiega come sia giunto a definire la sua posizione: “(…) ho pensato che fosse mio dovere educare dei sacerdoti, dei veri sacerdoti, di cui la Chiesa ha bisogno. Questi preti io li ho educati nella Società San Pio X, che è stata riconosciuta dalla Chiesa. Non facevo che ciò che tutti i vescovi hanno fatto durante secoli e secoli. Io non ho fatto altro e quelle stesse cose ho fatto in trent’anni di vita sacerdotale.
“Questo m’è valso d’essere vescovo; m’è valso d’essere delegato apostolico in Africa; m’è valso d’essere membro della commissione centrale preparatoria conciliare; questo m’è valso d’essere assistente al trono pontificio. Che cosa potevo desiderare di più come prova che Roma stimava il mio lavoro come utile e benefico al bene delle anime?
“Ora io faccio le stesse cose, un’opera in tutto simile a quella che ho compiuto per trent’anni ed ecco che, improvvisamente, sono sospeso a divinis, magari fra un po’ scomunicato, separato dalla Chiesa, rinnegato, che so? E’ possibile? Forse che quello che ho fatto per trent’anni era pure suscettibile d’una sospensione a divinis?
“Penso, al contrario, che se in passato io avessi preparato dei seminaristi come lo si fa oggi nei nuovi seminari, io sarei stato scomunicato. Se allora avessi insegnato il catechismo che s’insegna nelle scuole, mi avrebbero considerato eretico. E se avessi detto la Santa Messa come la si dice ora, mi avrebbero considerato sospetto d’eresia, fuori dalla Chiesa.
“A questo punto io non comprendo più. Qualcosa ha cambiato la Chiesa ed è a ciò che voglio giungere…”.
Nel marasma postconciliare è stato sin troppo facile dare del ribelle oscurantista a un vescovo che ragionava in tal modo. Pochi tentarono anche solo di immaginare che cosa gli costasse prendere atto della situazione e agire di conseguenza. Una scelta che compì in forza della propria fede, della dottrina, della ragione e della preghiera: nient’altro. Magari un’apparizione celeste gli avesse detto che cosa fare, confidava a un sacerdote che gli fu vicino nei momenti più duri. Invece, ebbe a disposizione solo la dottrina e la preghiera: da semplice cattolico.
Eppure, tanto gli bastò per giungere faticosamente ma serenamente al termine della sua vita terrena, così da far scrivere sulla propria tomba Tradidi quod et accepi, il paolino “Vi ho trasmesso semplicemente ciò che ho ricevuto” della Prima Lettera ai Corinzi.
Qui giunti, caro Rossi, non posso evitare di parlare della difesa della Messa, a cui monsignor Lefebvre immolò la sua opera di resistenza alla distruzione diabolica della Chiesa. Una delle testimonianze più belle sull’efficacia della Divino Sacrificio risale al periodo della missione in Gabon, fra il 1932 e il 1945.
“Là ho visto, sì, ciò che poteva la grazia della Santa Messa” dice il vescovo francese. “L’ho visto nelle anime sante d’alcuni dei nostri catechisti. Quelle anime prima pagane e poi trasformate per la grazia del Battesimo, trasformate per l’assistenza alla Messa e per mezzo della Santa Comunione; ebbene, quelle anime comprendevano il mistero del Sacrificio della Croce e s’univano a Nostro Signore Gesù Cristo nelle sofferenze della sua Croce, offrivano i loro sacrifici e le loro sofferenze con Nostro Signore Gesù Cristo e vivevano da Cristiani. (…)
“Io ho potuto vedere quei villaggi di pagani divenuti cristiani trasformarsi non solo, direi, spiritualmente e sovranaturalmente, ma fisicamente, socialmente, economicamente, politicamente; trasformarsi, perché quelle persone, da pagane che erano, erano divenute coscienti della necessità di compiere il loro dovere, malgrado le prove, i sacrifici; di rispettare i loro impegni e, in particolare, quello matrimoniale. Allora i villaggi si trasformavano a poco a poco sotto l’influenza della grazia, sotto l’influenza del santo Sacrificio della Messa.(…) Da che è dipesa questa trasformazione? La causa profonda è il Sacrificio. La nozione di sacrificio è profondamente cristiana e profondamente cattolica. La nostra vita non può prescindere dal sacrificio, dal momento che Nostro Signore Gesù Cristo, Lui, Dio, ha voluto incarnarsi in un corpo simile al nostro e dirci: ‘Seguitemi, prendete la vostra croce e seguitemi se volete essere salvi”. Lui ci ha dato l’esempio con la sua morte sulla croce, versando il proprio sangue; oseremo noi, sue creature, peccatori quali siamo, non seguire Nostro Signore nella sequela del suo sacrificio, della sua croce? Ecco svelato il mistero della civilizzazione cristiana, della civilizzazione cattolica: la comprensione del valore santificante del sacrificio nella vita, nella quotidianità; il non considerare più la sofferenza come un male, ma dividere le proprie sofferenze con quelle di Nostro Signore Gesù Cristo, guardando alla Croce, assistendo alla Messa, che è il rinnovarsi della passione di Nostro Signore sul Calvario”.
Caro Rossi, questa pagina, sconcertante per la sua capacità di tenere insieme umano e divino, natura e Grazia, spiega più di molti trattati che cosa sia la Messa e perché monsignor Lefebvre la difese sempre da qualsiasi genere di mutamento che potesse snaturarla. I suoi non erano i timori di un oscurantista visionario, ma la lucida percezione di un reale pericolo incombente. E se si cominciasse a dire che aveva ragione?
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
È pervenuta in Redazione:.
Gentilissimo dottor Gnocchi,
forse glielo hanno già chiesto altri, ma mi pare che nella sua fotografia compaia l’immagine di monsignor Lefebvre, che lei tiene in bella vista nel suo studio. È così importante per lei?
La ringrazio per l’eventuale risposta
Alfredo Rossi
.
Caro Rossi,
non ricordo se ho già risposto a una simile domanda. Che mi è stata rivolta più volte. In ogni caso, lo faccio e, se mi ripeto, vorrò dire che facciamo un ripasso.
Certo che monsignor Lefebvre è così importante per me. Mi stupisce solo che non lo sia per tanti cattolici che hanno amore alla Chiesa e a Cristo. Cerco di spiegarglielo partendo da un preciso riferimento cronologico, quel 29 agosto 1976 in cui nacque la leggenda del “vescovo ribelle”. Quel giorno monsignor Lefebvre, già sospeso a divinis, celebrò pubblicamente a Lilla, in Francia, una Messa a cui parteciparono migliaia di fedeli e, durante l’omelia, spiegò la natura di quanto stava accadendo. “Vorrei parimenti dissipare un altro malinteso” disse. “E mi scuso, ma sono obbligato a dirlo: non sono io ad essermi definito ‘il capo dei tradizionalisti’. Voi sapete chi l’ha fatto poco tempo fa, in circostanze particolarmente solenni e memorabili a Roma. Hanno detto che Monsignor Lefebvre era il capo dei tradizionalisti, ma io non lo sono affatto. Perché? Perché anch’io sono un semplice cattolico. Prete, non v’è dubbio; vescovo, non v’è dubbio; ma mi trovo nelle medesime condizioni nelle quali vi trovate voi. Ho, come voi, le medesime reazioni davanti alla distruzione della Chiesa, davanti alla distruzione della nostra fede, davanti alle rovine che s’accumulano sotto i nostri occhi”.
Un semplice cattolico, caro Rossi, scritto così, senza virgolette. Quanto sarebbe stato più facile comprendere la sua azione, il suo pensiero, la sua dottrina, la sua fede se qualcuno, allora, avesse considerato il “vescovo ribelle” come un semplice cattolico. Ma gli Anni Settanta, forgiati nella fucina della “Nuova Pentecoste” evocata dall’ideologia conciliare non prevedevano la categoria di “semplice cattolico”. Ormai una “Nuova Chiesa” aveva sostituito la “Vecchia Chiesa”: si poteva solo appartenere all’una o all’altra, i buoni a quella “Nuova” e i cattivi a quella “Vecchia”.
Oggi che ci si è risvegliati sotto le macerie della “Nuova Chiesa”, caro Rossi, molti semplici cattolici si stupiranno di ritrovarsi nella testimonianza e nelle preoccupazioni del fondatore della Fraternità sacerdotale San Pio X. E più ancora, si stupiranno constatando che la gravità, la decisione e persino la durezza di certi passaggi, oggi, si respirano anche in ambienti affatto marginali della Chiesa, dove è ormai chiaro che la misura sia colma.
Persino molti osservatori in buona fede, allora, faticarono a comprendere che il “fenomeno tradizionalista” apparteneva a pieno titolo alla vita della Chiesa, dato che riproponeva ciò che la Chiesa aveva sempre insegnato e sempre praticato. E il tentativo di soffocarlo messo in opera da chi in buona fede non era, in realtà finì per dargli una fisionomia precisa e riconoscibile e fortemente identitaria. Il “fenomeno tradizionalista” non sarebbe mai esistito se, in definitiva, non fosse stato creato dall’ostilità palese dei progressisti che lo vedevano come nemico e da quella malcelata di tanti conservatori che lo vedevano come concorrente.
Ciò che continua ad attrarmi di questo santo vescovo, caro Rossi, sta nell’inesorabilità del ragionamento, che un tempo, era moneta comune dentro la Chiesa. Un esempio tra i più limpidi si trova nell’omelia di Lilla del 1976, là dove il vescovo francese spiega come sia giunto a definire la sua posizione: “(…) ho pensato che fosse mio dovere educare dei sacerdoti, dei veri sacerdoti, di cui la Chiesa ha bisogno. Questi preti io li ho educati nella Società San Pio X, che è stata riconosciuta dalla Chiesa. Non facevo che ciò che tutti i vescovi hanno fatto durante secoli e secoli. Io non ho fatto altro e quelle stesse cose ho fatto in trent’anni di vita sacerdotale.
“Questo m’è valso d’essere vescovo; m’è valso d’essere delegato apostolico in Africa; m’è valso d’essere membro della commissione centrale preparatoria conciliare; questo m’è valso d’essere assistente al trono pontificio. Che cosa potevo desiderare di più come prova che Roma stimava il mio lavoro come utile e benefico al bene delle anime?
“Ora io faccio le stesse cose, un’opera in tutto simile a quella che ho compiuto per trent’anni ed ecco che, improvvisamente, sono sospeso a divinis, magari fra un po’ scomunicato, separato dalla Chiesa, rinnegato, che so? E’ possibile? Forse che quello che ho fatto per trent’anni era pure suscettibile d’una sospensione a divinis?
“Penso, al contrario, che se in passato io avessi preparato dei seminaristi come lo si fa oggi nei nuovi seminari, io sarei stato scomunicato. Se allora avessi insegnato il catechismo che s’insegna nelle scuole, mi avrebbero considerato eretico. E se avessi detto la Santa Messa come la si dice ora, mi avrebbero considerato sospetto d’eresia, fuori dalla Chiesa.
“A questo punto io non comprendo più. Qualcosa ha cambiato la Chiesa ed è a ciò che voglio giungere…”.
Nel marasma postconciliare è stato sin troppo facile dare del ribelle oscurantista a un vescovo che ragionava in tal modo. Pochi tentarono anche solo di immaginare che cosa gli costasse prendere atto della situazione e agire di conseguenza. Una scelta che compì in forza della propria fede, della dottrina, della ragione e della preghiera: nient’altro. Magari un’apparizione celeste gli avesse detto che cosa fare, confidava a un sacerdote che gli fu vicino nei momenti più duri. Invece, ebbe a disposizione solo la dottrina e la preghiera: da semplice cattolico.
Eppure, tanto gli bastò per giungere faticosamente ma serenamente al termine della sua vita terrena, così da far scrivere sulla propria tomba Tradidi quod et accepi, il paolino “Vi ho trasmesso semplicemente ciò che ho ricevuto” della Prima Lettera ai Corinzi.
Qui giunti, caro Rossi, non posso evitare di parlare della difesa della Messa, a cui monsignor Lefebvre immolò la sua opera di resistenza alla distruzione diabolica della Chiesa. Una delle testimonianze più belle sull’efficacia della Divino Sacrificio risale al periodo della missione in Gabon, fra il 1932 e il 1945.
“Là ho visto, sì, ciò che poteva la grazia della Santa Messa” dice il vescovo francese. “L’ho visto nelle anime sante d’alcuni dei nostri catechisti. Quelle anime prima pagane e poi trasformate per la grazia del Battesimo, trasformate per l’assistenza alla Messa e per mezzo della Santa Comunione; ebbene, quelle anime comprendevano il mistero del Sacrificio della Croce e s’univano a Nostro Signore Gesù Cristo nelle sofferenze della sua Croce, offrivano i loro sacrifici e le loro sofferenze con Nostro Signore Gesù Cristo e vivevano da Cristiani. (…)
“Io ho potuto vedere quei villaggi di pagani divenuti cristiani trasformarsi non solo, direi, spiritualmente e sovranaturalmente, ma fisicamente, socialmente, economicamente, politicamente; trasformarsi, perché quelle persone, da pagane che erano, erano divenute coscienti della necessità di compiere il loro dovere, malgrado le prove, i sacrifici; di rispettare i loro impegni e, in particolare, quello matrimoniale. Allora i villaggi si trasformavano a poco a poco sotto l’influenza della grazia, sotto l’influenza del santo Sacrificio della Messa.(…) Da che è dipesa questa trasformazione? La causa profonda è il Sacrificio. La nozione di sacrificio è profondamente cristiana e profondamente cattolica. La nostra vita non può prescindere dal sacrificio, dal momento che Nostro Signore Gesù Cristo, Lui, Dio, ha voluto incarnarsi in un corpo simile al nostro e dirci: ‘Seguitemi, prendete la vostra croce e seguitemi se volete essere salvi”. Lui ci ha dato l’esempio con la sua morte sulla croce, versando il proprio sangue; oseremo noi, sue creature, peccatori quali siamo, non seguire Nostro Signore nella sequela del suo sacrificio, della sua croce? Ecco svelato il mistero della civilizzazione cristiana, della civilizzazione cattolica: la comprensione del valore santificante del sacrificio nella vita, nella quotidianità; il non considerare più la sofferenza come un male, ma dividere le proprie sofferenze con quelle di Nostro Signore Gesù Cristo, guardando alla Croce, assistendo alla Messa, che è il rinnovarsi della passione di Nostro Signore sul Calvario”.
Caro Rossi, questa pagina, sconcertante per la sua capacità di tenere insieme umano e divino, natura e Grazia, spiega più di molti trattati che cosa sia la Messa e perché monsignor Lefebvre la difese sempre da qualsiasi genere di mutamento che potesse snaturarla. I suoi non erano i timori di un oscurantista visionario, ma la lucida percezione di un reale pericolo incombente. E se si cominciasse a dire che aveva ragione?
Alessandro Gnocchi
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