MODERNITA' E' IL NULLA
La cultura moderna non si pone più domande riguardo ai fini si può dire che ha abolito la finalità dal suo orizzonte esistenziale e speculativo. Il caso aborto e il trionfo del nichilismo sistematico, rigorosamente scientifico
di Francesco Lamendola
Inoltrati ormai, con passo deciso, verso le meraviglie del terzo millennio, possiamo contemplare serenamente il senso e le dinamiche interne della grande corsa in cui si esprime l’essenza della modernità: la corsa, appunto, già celebrata nelle loro opere e nel loroManifesto dai Futuristi, i primi cantori consapevoli del “mondo nuovo” che stava incominciando; la corsa, il movimento veloce, il dinamismo, la velocità, il salto, e tutto ciò che è energico, aggressivo, temerario. Ma, appunto: la corsa verso che cosa? A quale scopo? Per raggiungere quali obiettivi? La modernità è troppo impegnata a correre, per fermarsi su così banali interrogativi. Costruire grattacieli sempre più alti, ma perché? Treni, navi e aerei sempre più veloci, ma perché? Andare sulla Luna e nello spazio, ma perché? Clonare le piante e gli animali, ma perché? Manipolare il patrimonio genetico degli esseri viventi, uomo compreso: ma perché? Vivere qualche anno in più, apparire più giovani, fare sempre più cose, e sempre più velocemente: ma perché? Nessuno se lo è chiesto, a nessuno interessava ed interessa. Produrre e immettere sul mercato sempre più beni di consumo, sempre più automobili, sempre più elettrodomestici, sempre più telefonini e computer: ma perché? Di nuovo: per fare più cose, per andare più in fretta, per tagliare i tempi morti della giornata: ma perché? A che scopo? Con quale obiettivo? Non si sa; nessuno lo sa. Correre, e basta; la velocità per la velocità; la quantità per la quantità. Sbrigare più cose e in meno tempo, ma a che scopo? Guadagnare tempo, ma è proprio vero che lo si guadagna? Vivere più a lungo: anche a costo di vivere peggio? La maggiore durata della vita è un valore in se stessa?
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9555:modernita-e-il-nulla&catid=96:filosofia&Itemid=124
Nel 2000 (significativa coincidenza editoriale; ma solo una coincidenza, in effetti) usciva il libro di Roberto Mussapi, Antartide, che, revocando la gara per la conquista del Polo Sud fra la spedizione britannica di Roberto Falcon Scott, incentrata sull’uso dei cavallini siberiani, e quella norvegese di Roald Amundsen, che, invece, utilizzava i tradizionali cani da slitta, all’alba del XX secolo, mostrava, in filigrana, la corsa affannosa della civiltà moderna verso l’ultima grande meta ancora sconosciuta: un deserto allucinante di neve e ghiaccio, spazzato da venti furiosi, reso inabitabile da temperature proibitive: efficace metafora della conquista del Nulla.
Inoltrati ormai, con passo deciso, verso le meraviglie del terzo millennio, possiamo contemplare serenamente il senso e le dinamiche interne della grande corsa in cui si esprime l’essenza della modernità: la corsa, appunto, già celebrata nelle loro opere e nel loroManifesto dai Futuristi, i primi cantori consapevoli del “mondo nuovo” che stava incominciando; la corsa, il movimento veloce, il dinamismo, la velocità, il salto, e tutto ciò che è energico, aggressivo, temerario. Ma, appunto: la corsa verso che cosa? A quale scopo? Per raggiungere quali obiettivi? La modernità è troppo impegnata a correre, per fermarsi su così banali interrogativi. Costruire grattacieli sempre più alti, ma perché? Treni, navi e aerei sempre più veloci, ma perché? Andare sulla Luna e nello spazio, ma perché? Clonare le piante e gli animali, ma perché? Manipolare il patrimonio genetico degli esseri viventi, uomo compreso: ma perché? Vivere qualche anno in più, apparire più giovani, fare sempre più cose, e sempre più velocemente: ma perché? Nessuno se lo è chiesto, a nessuno interessava ed interessa. Produrre e immettere sul mercato sempre più beni di consumo, sempre più automobili, sempre più elettrodomestici, sempre più telefonini e computer: ma perché? Di nuovo: per fare più cose, per andare più in fretta, per tagliare i tempi morti della giornata: ma perché? A che scopo? Con quale obiettivo? Non si sa; nessuno lo sa. Correre, e basta; la velocità per la velocità; la quantità per la quantità. Sbrigare più cose e in meno tempo, ma a che scopo? Guadagnare tempo, ma è proprio vero che lo si guadagna? Vivere più a lungo: anche a costo di vivere peggio? La maggiore durata della vita è un valore in se stessa?
La cultura moderna non si pone più domande riguardo ai fini; anzi, si può dire che ha abolito la finalità dal suo orizzonte esistenziale e speculativo. La mentalità moderna è interessata ai mezzi, agli strumenti, e quindi alla tecnica: la tecnica è il prolungamento degli arti e del cervello, serve a fare più cose e più velocemente; ma, ovviamente, non ha nulla da dire riguardo al perché. Di conseguenza, una civiltà che si affida alla tecnica è spacciata in partenza: assomiglia a chi salga su di un treno in movimento, incurante se vi sia a bordo il macchinista, solo per inebriarsi alla velocità sempre maggiore, esaltandosi perché i binari scavalcano ponti e penetrano nelle gallerie, come se non esistessero più gli ostacoli. La tecnica, nelle mani di una società poco evoluta spiritualmente e moralmente, è diventata un supergiocattolo, per mezzo del quale fare delle cose sempre più strane, sempre più insolite, sempre più difficili, nel disprezzo più totale della natura, dei suoi ritmi, delle sue leggi, e, soprattutto, di qualunque senso del limite.
Una donna che vuole diventare madre a sessant’anni per la prima volta, e che si affida alle tecniche della fecondazione artificiale, è un esempio di questa mentalità tecnicista, che non si ferma a riflettere sui perché, sulle motivazioni profonde delle proprie scelte. Ella dice che vuole il bambino per amore, per appagare il proprio istinto di maternità. A sessant’anni? Ella dice che, prima, non poteva; pur desiderandolo tanto, c’erano mille altre cose cui pensare, delle quali occuparsi. Ma ora che è arrivata felicemente al traguardo, ora che è pensionata, ora che si è fatta una posizione, perché no? Il bambino verrà a riempire la sua solitudine, a illuminare la sua vecchiaia. Il bambino diventa un pretesto, un mezzo, un giocattolo: non è più un fine, perché il fine è gratificare il proprio ego, prendersi una soddisfazione, segnare il punto, ottenere una rivalsa. E lasciare a bocca aperta i “benpensanti”. Sì, perché c’è anche una componente di sfida, di provocazione, di ostentazione, in simili atteggiamenti. Oltre alla sfida nei confronti della natura, c’è la sfida nei confronti della società.
Come due uomini, magari più che maturi, i quali decidono di convolare a “giuste” nozze, e che, tra il clamore degli invitati e i lampi dei fotografi, coronano il loro sogno d’amore davanti al sindaco: e al diavolo la natura, al diavolo i pregiudizi. Che cos’è la natura, se non il magazzino cui attingere per prendere le cose che ci fanno comodo, quando ci fanno comodo? Ci serve un rene, un fegato, un po’ di midollo osseo? E noi lo prendiamo. Ci serve un cuore nuovo, magari di babbuino? E noi lo prendiamo. Quel che ci serve, lo prendiamo. Petrolio, gas naturale, legname: prendiamo quel che ci serve, quando ci pare e quanto ci pare. Prendiamo le balene, i delfini, i tonni; facciamo delle stragi di foche, prendiamo le pellicce: è tutta roba nostra. Allo stesso modo, prendiamo un embrione, oppure un ovulo, degli spermatozoi: esistono le “banche” ove attingere queste cose, è tutta roba a disposizione di chi ne fa richiesta. Che problema c’è? Nessun problema. Lo si può fare in senso tecnico, e lo si fa. Nessuna obiezione sul piano etico: vogliamo forse fermare il progresso della scienza? Vogliamo negare alle persone il diritto di essere felici? Ma la scienza e il progresso servono appunto per portare la felicità alle persone; o, almeno, per portare ad esse una felicità maggiore di quanto non ne hanno avuta finora. A questo serve il progresso: a venire incontro ai desideri della gente, a permetterle di realizzare i suoi sogni. È così, o non è così? Certo che è così. Non siamo mica nel Medioevo; non ci facciamo mica condizionare da scrupoli senza senso e da pregiudizi degni dei secoli passati.
Il grande banco di prova è stato quello della legge sull’aborto. Una volta approvata quella, il muro del senso etico è stato infranto, e tutto è divenuto lecito. Se è cosa lecita sopprimere il feto di un nascituro, perché non dovrebbe esserlo la manipolazione genetica, che, oltretutto, non toglie la vita a nessuno, semmai mette la vita a disposizione di chi non potrebbe procreare spontaneamente? Bisognava pensarci allora: il 17 maggio 1981, quando gli Italiani furono chiamati alle urne per dire “sì” o “no” alla interruzione volontaria della gravidanza (insieme ad altri quattro quesiti che non c’entravano niente, uno dei quali addirittura sul porto d’armi: tanto per togliere serietà e solennità a quello veramente decisivo, il quesito sulla legge 194). Vinsero gli abortisti con l’85,12% dei voti validi: e, da quel momento, nessuno si è più sognato di riaprire la discussione. Anche se quella legge che era stata presentata, dai radicali, come l’unica risposta possibile di un Paese civile a dei casi estremi, a dei casi pietosi, a delle situazioni umanamente commoventi, per esempio una donna che rimane incinta in seguito ad uno stupro, oppure una donna povera che ha già sei o sette figli da mantenere, i quali soffrono la fame; anche se quella legge è diventata un biglietto gratuito per l’interruzione di gravidanza come forma di contraccezione, una specie di pillola del mese dopo. Insomma, l’uso dell’aborto volontario è stato completamente snaturato rispetto alle motivazioni originarie dei fautori della legge abortista, ma nessuno pare essersene accorto; nessuno ha gridato all’inganno, al tradimento. Tutti zitti e contenti. Vuol dire che tutti sono d’accordo, tacitamente, in questa forma di contraccezione che consiste nel sopprimere l’embrione. E i cattolici zitti e buoni come gli altri, se non più degli altri; specie se vanno al governo con i partiti di sinistra. Le poltrone valgono bene un silenzio: che diamine, non si devono porre questioni di principio ad ogni passo! Bisogna pur fare i conti con la realtà di tutti i giorni: il che vuol dire, vivere e lasciar vivere. E come l’Italia, anzi prima dell’Italia, l’Europa, gli Stati Uniti, il mondo. Il mondo “civile” ha ormai fatto propria e ben digerita che l‘aborto volontario è una cosa assolutamente normale, assolutamente lecita, assolutamente giusta. Opinare diversamente, sarebbe come voler riportare indietro le lancette della storia; sarebbe come voler contestare alle donne la raggiunta autonomia giuridica, il sacrosanto diritto di disporre di se stesse. E chi è mai tanto pazzo e idealista da osar di sfidare la cultura femminista politically correct?
Una volta “passata” come cosa normale l’interruzione volontaria della gravidanza, poteva passare – e sta passando – praticamente qualsiasi cosa. La tecnica rende tutto più facile, più semplice, più indolore: tutto rigorosamente controllato, tutto in camice bianco. La fecondazione eterologa? Perché no, visto che si può fare. La pratica dell’utero in affitto? Perché no, se la donna è consenziente. Clonare degli esseri umani? Perché no, visto che l’uomo è solo un mammifero un poco più evoluto, un poco meno peloso degli altri: prendere in mano un qualunque libro di zoologia, anche ad uso scolastico, per credere. L’uomo deriva dalle scimmie, o comunque da un progenitore scimmiesco; non bisogna fare del romanticismo dove non ce n’è bisogno: la poesia va bene sui libri di poesia, ma la vita pratica, la vita vera, è un’altra cosa. Nella vita vera, l’uomo è un animale intelligente, che può manipolare le leggi della natura e che sarebbe stupido se non lo facesse, dopo aver compreso come si fa. Sarebbe come aver scoperto una miniera di diamanti e non toccarne neppure uno, magari per la ragione che le popolazioni locali considerano sacro il luogo ove si torva la miniera. Queste sono tutte superstizioni, residui di oscurantismo, indegni di un uomo intelligente e razionale, di un cittadino del terzo millennio. Meno romanticismo e più tecnica, e le cose andranno meglio: costruiremo un mondo migliore, più soddisfacente.
Porre il copyright sul genoma umano, perché no? Brevettare le cellule staminali e le tecniche per adoperarle, perché no? Money is money, non è davvero il caso di scandalizzarsi per così poco, di fare tanto i difficili. Finché si scherza, finché si parla così, fra quattro amici, va bene tutto: ma i soldi sono una cosa seria, ragazzi. Nessuno sputa su una miniera di diamanti. E la bioingegneria è la miniera di diamanti di questa nostra epoca. Sarebbe da stupidi non approfittarne: gli scienziati per fare un mucchio di soldi, il pubblico per realizzare i propri sogni nel cassetto. Così tutti sono contenti: soddisfatti o rimborsati. Dunque, perché sollevare inutili problemi, perché evocare i fantasmi di una morale che ormai è morta e sepolta, che non ci appartiene più, ma apparteneva solo ai nostri nonni e bisnonni? Noi dobbiamo vivere nel presente, con lo sguardo rivolto in avanti, e investire nel futuro, puntare sul futuro, a breve e lungo termine; non guardare al passato. Lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti, come diceva qualcuno. Noi, invece, seguiremo l’esortazione di Arthur Rimbaud: Bisogna essere assolutamente moderni. Ad essere moderni, sempre più moderni, non si sbaglia mai. Perfino gli scrittori di fantascienza restano continuamente spiazzati: immaginano cose ora impensabili, quasi pazzesche, e domani si legge sul giornale che quelle cose sono già state fatte, che sono già vecchie e superate. Perché la tecnica evolve, evolve sempre, tremendamente in fretta: rende obsolete le scoperte del giorno prima, le macchine della settimana scorsa. E chi si ferma, è perduto.
Peccato che, in questa maniera di procedere, la sola cosa che si possa raggiungere è il Nulla: il nulla con la lettera maiuscola. Questo è il trionfo del nichilismo sistematico e rigorosamente scientifico. Si fanno le cose, ma non si sa perché; si va avanti a passo di corsa, ma non si sa verso dove; si spalancano sempre nuove porte, una dopo l’altra, all’infinito, sempre illudendosi di aprire l’ultima, e sempre trovandone un’altra ancora chiusa. Non si sa perché si agisce, non si sa perché si produce, non si sa perché si consuma, non si sa perché si scrive, si pensa, si dipinge, si scolpisce, si compone musica, si recita, si pianificano città sempre più moderne e sempre più artificiali. Non si sa nemmeno perché si fanno le guerre; ma si fanno. Per vendere le armi, probabilmente. Qualcuno le deve pur comprare; altrimenti resterebbero nei magazzini, senza contare che anch’esse, come tutto ciò che è tecnico, diverrebbero obsolete, e quindi inutili e prive di valore economico, nello spazio di pochi anni, forse di qualche mese appena. Stesso discorso per le centrali nucleari. La Francia, tanto per fare l’esempio di un Paese a noi molto vicino, ne ha costruite quasi sessanta in pochi anni (alcune già obsolete e dismesse); ora non sa che fare di tutta quell’energia, è costretta a svenderla per quattro soldi. In compenso, ha ipotecato il futuro delle generazioni a venire per qualcosa come 40.000 anni: tale è il tempo di decadimento delle scorie radioattive. Beninteso, se nel frattempo non ci mette lo zampino un altro incidente come quello di Cernobyl.
Ora, da Napoli arriva la notizia che un computer ha imparato a fare la pizza. È semplicissimo: basta dargli le istruzioni, e lui esegue. Ma se i computer fanno la pizza, i pizzaioli che cosa faranno? E lo stesso vale per ogni altro ambito lavorativo, professionale, perfino creativo (ci sono infatti “artisti” che dipingono, si fa per dire, col computer). Nessuno se lo domanda; che importanza ha? Mai farsi troppe domande; l’importante è andare avanti, sfruttare ogni occasione offerta dal progresso. Tale è la filosofia della modernità: andare avanti, sempre. Dove? Ma questa è una domanda reazionaria…
La conquista della modernità è il Nulla
di
Francesco Lamendola
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La nuova èra dell'indifferenziazione dell'individuo
Re Aroldo V di Norvegia
Il guaio è che dove gli altri vedono belle notizie io ne leggo di pessime, e scorgo un filo che le lega rincorrendole fra i continenti. Ad esempio: a Capodimonte un bambino – racconta sul Corriere il maestro Riccardo Muti – ha domandato al direttore Sylvain Bellenger quale fosse “la cosa più importante del museo” e il direttore gli ha risposto: “Sei tu”. Dunque l'individuo, qualsiasi individuo qualunque, è più importante dell'opera di Mantegna, di Raffaello, di Caravaggio, del sudato lavorio della bellezza.
Ne consegue che tutti gli individui sono importanti allo stesso modo: infatti fra gli entusiasti fannulloni di Youtube spopola il discorso del Re di Norvegia Aroldo V il quale, sotto il sole battente di un garden party a Oslo, ha formalmente dichiarato che sei norvegese anche quando sei svedese, somalo o siriano; che sei norvegese se sei una ragazza che ama le ragazze, un ragazzo che ama i ragazzi, o un ragazzo che ama le ragazze o viceversa; che sei norvegese se credi in Dio, in Allah, se credi in tutto e non credi in niente.
Parlando agli individui anziché alla nazione, Re Aroldo ha patrocinato l'indifferenziazione personalizzata, in cui uno vale l'altro nella coltre d'irripetibile unicità che rende bigie tutte le vacche. Infatti dalla Giordania gli fanno eco le parole di Zeid Raad Zeid al Hussein, alto commissario dell'Onu per i diritti umani, il quale ha equiparato Donald Trump, Marine Le Pen e Nigel Farage nientepopodimenoche all'Isis: a definitiva dimostrazione che tu, proprio tu, sei l'individuo più importante del mondo, esattamente come tutti gli altri lo sono allo stesso modo, al punto che chi cerca di difenderti vale tanto quanto chi cerca di distruggerti.
di Antonio Gurrado | 07 Settembre 2016
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