L'EDUCAZIONE ALLA SANTITA'
Quel che è venuto a mancare è stata l’educazione alla santità. Santità non significa altro che vivere nel pieno esercizio delle virtù umane e cristiane: la generosità la fratellanza la capacità di perdonare l’amore e il timor di Diodi F. Lamendola
Uomini
e donne rattrappiti, narcisisti, fragili, volubili, incapaci di
assumersi impegni, di portare responsabilità, perennemente proiettati
verso l’effimero, il caduco, il contingente, e del tutto dimentichi di
ciò che è essenziale, permanente, assoluto. Cristiani parimenti
rattrappiti, immiseriti, banalizzati, senza radici, senza sostanza,
senza volontà, senza spirito di sacrificio, incapaci di lottare per
qualcosa di grande, più che mai bramosi di auto-giustificare la propria
piccolezza, di auto-glorificare la propria inadeguatezza. Questa è la
situazione attuale: uomini e donne che fanno fatica a svolgere
degnamente le normali funzioni della vita sociale, a creare una
famiglia, ad allevare dei figli, a prendersi cura dei vecchi, a svolgere
onorevolmente una professione o un mestiere; cristiani all’acqua di
rose che non cercano la croce, anzi, la scansano con orrore, e che si
stanno costruendo un cattolicesimo su misura, fatto apposta per essere
indulgente con le loro umane debolezze, con la loro propensione a
peccare. Uomini e donne sui quali non si può più fare affidamento; padri
e madri che non sanno più crescere ed educare convenientemente i loro
figli, che li sanno solo viziare, scusare, giustificare, che sanno solo
litigare con le maestre o rimproverare i professori quando vengono messi
di fronte alla pigrizia e alla furberia dei loro pargoli; lavoratori
mediocri, che non sanno mandare avanti l’azienda creata dai loro
genitori con infinita passione e con mille sacrifici; e cristiani che
non sono più d’esempio a nessuno, che non guardano più in Alto, che non
hanno più la vera fede, ma che, in compenso, si riempiono la bocca –
loro e i loro pessimi teologi e i loro prelati cialtroni – di paroloni
progressisti e modernisti, per spacciarsi per quello che non sono, per
vestire abiti dei quali non son degni.
La
domanda è: come si è arrivati a tanto? In che modo si è degradata,
sgretolata, sfarinata a tal segno la stoffa di cui son fatte le persone,
e la stoffa speciale di cui dovrebbe essere fatto un cristiano?
È
troppo facile attribuire tutta la responsabilità alle trasformazioni
economiche, sociali e culturali degli ultimi decenni: sarebbe come
limitarsi a considerare la sola punta dell’iceberg, ignorando
che il grosso del problema era, ed è, nascosto alla vista, perché giace
nelle profondità inesplorate e, per farsene un’idea, bisogna spingere lo
sguardo assai più addentro di come non si faccia per solito.
Riformulando la domanda di cui sopra, potremmo chiederci pertanto: come,
e in che punto, e in quale modo, si è interrotto il circuito virtuoso
che permetteva di trasmettere le qualità migliori della natura umana da
una generazione all’altra, e che, per quanto riguarda il cristianesimo,
consentiva o favoriva anche la discesa della Grazia?
Perché, senza voler con ciò idealizzare il passato, è un fatto – un fatto,
ripetiamo, e non una opinione – che, mediamente parlando, gli uomini e
le donne della generazione dei nostri genitori, e più ancora di quella
dei nostri nonni, erano persone affidabili, laboriose, oneste, con la
testa sulle spalle; e che i cristiani, allora, erano veramente tali, o
almeno si sforzavano di esserlo: che prendevano il Vangelo con serietà
molto maggiore di quanto non si faccia oggi; che cercavano di viverlo
nella loro esistenza quotidiana; e che a ciò educavano anche i loro
figli. In una famiglia contadina che contava dieci figli, ce n’era
qualcuna che ne dava due, tre, cinque alla Chiesa: preti o suore. La
famiglia cristiana era una fucina di santità: con un padre e una madre
che pensavano solo alla famiglia, al lavoro e a vivere secondo Dio, non
secondo i gusti e le mode del mondo. Padri e madri che non pensavano
all’ultimo modello di telefonino, o all’abbronzatura, o alla palestra, o
magari – squallore supremo - a partecipare a qualche patetico e volgare
programma “per famiglie” delle tivù commerciali, esibendo in piazza i
loro affari privati, ostentando le loro corna e le loro gelosie,
litigando col pubblico; ma che tutto quel che facevano, lo facevano per
piacere a Dio e per costruire un domani per i loro figli, a cominciare
dal buon esempio che davano loro con la concordia, il rispetto
reciproco, la sobrietà e l’etica del lavoro.
Oh,
sappiamo benissimo che non tutte le famiglie erano di questo tipo: non
c’è alcun bisogno di farcelo notare. Quel che vogliamo dire, è che l’ideale
delle famiglie di due generazioni fa era quello; non che tutte, in
pratica, riuscissero a realizzarlo. La qualità morale di una società si
riconosce anche e soprattutto da ciò che essa prende a modello. Una
società vuota e consumista come la nostra, prende a modello le veline di
Canale 5, i calciatori strapagati, le top-model e i divi della
musica rock; una società seria e timorata di Dio, prende a modello i
santi. Nella società medioevale ben pochi erano i santi, però i santi
venivano onorati, portati ad esempio e, per quanto possibile, imitati;
nella società odierna, onorati, portati a modello ed imitati sono quanti
“sfondano”, in una maniera o nell’altra, e fanno parlare molto di sé,
non importa se in bene o in male: perché la nostra società, che è una
società moribonda, è basata sull’apparire, mentre le società vive e
vitali sono basate sulla ricerca dell’essere. Noi corriamo dietro a ciò
che sembra; i nostri nonni prendevamo seriamente a modello ciò che deve
essere.
La
santità: ecco una parola che spaventa, che mette terribilmente a
disagio; che suscita, perfino, una reazione di malcelato fastidio, di
malcelata ostilità. Non solo appare come un obiettivo irrealistico, ma,
quel che è peggio, appare come un obiettivo probabilmente sbagliato:
quand’anche fosse possibile, forse non sarebbe desiderabile. Dio non ci
vuole santi; ci vuole felici: questo predica e insegna la Neochiesa,
modernista e progressista, che si è sovrapposta fraudolentemente alla
vera Chiesa e al vero cristianesimo.
A
Pinerolo, qualche giorno fa, due ex suore francescane si sono unite in
“matrimonio”, con la benedizione di un prete scomunicato avvezzo a
simili pratiche: si erano innamorate l’una dell’altra in Africa,
dov’erano andate in qualità di missionarie. Partite per servire il
prossimo, hanno scoperto di amarsi e di voler vivere insieme: ma da
buone cristiane, continuando a credere in Dio; ecco dunque il matrimonio
gay e l’intervento, alla dubbia cerimonia, di un (ex) rappresentante
del clero torinese. Alla stampa, hanno dichiarato di aver capito che Dio
vuole null’altro che la nostra felicità, e questo le ha rassicurate
circa la liceità del passo che stavano facendo. La morale di questa
(trista) vicenda è che molti cristiani, o sedicenti tali, si sono
fabbricati un nuovo Vangelo per loro uso e consumo, con la benedizioni
di alcuni (tristi) teologi-camerieri, per mezzo del quale trasformare
miracolosamente il peccato in stato di grazia, senza pentimento e senza
espiazione, ma così, da un istante all’altro, semplicemente rovesciando i
termini della questione: ciò che era peccato “prima”, cioè nel vecchio
cristianesimo, cupo e brontolone, ora diviene grazia, nel nuovo
cristianesimo dei teologi-camerieri, fatto apposta per piacere al
pubblico e per strappare il consenso e l’applauso di tutti, e
specialmente dei peccatori sfrontati e impenitenti.
Che
questo sia uno stravolgimento totale e blasfemo del Vangelo, poco
importa: sono le nuove idee progressiste e moderniste della chiesa di
papa Francesco, e il grande teologo Enzo Bianchi ha detto che bisogna
aspettarsi, contro di esse, la reazione delle forze diaboliche. In
pratica, sarebbe come se l’adultera, sottratta alla lapidazione da Gesù,
che la rimandò libera, ma con la raccomandazione di non peccare più,
avesse sparso la voce che il divino Maestro le aveva detto non esservi
proprio niente di male nell’adulterio; che l’amore è l’amore, e, si sa,
nessuno può resistervi; che il vero peccato non è amare, ma rifiutare il
richiamo dell’amore, quando esso bussa alla nostra porta: e insomma che
ciascuno è perfettamente libero di fare quel che gli pare, di sposarsi e
di lasciarsi, di tradire e d’ingannare, di giurare fedeltà e di
cornificare; e anche, naturalmente, di amare e di sposare persone del
proprio sesso, perché l’amore non conosce confini e Dio benedice tutti
gli amori, purché siano “sinceri”. Che cosa dovremmo dire di quella
donna, se fosse andata in giro a raccontare una tale versione del suo
incontro con Gesù? O che era impazzita, o che stava mentendo
deliberatamente. E la stessa cosa dobbiamo pensare di siffatti cristiani
e pseudo teologi progressisti e modernisti: o sono impazziti per
superbia intellettuale, oppure mentono sapendo di mentire.
L’educazione
alla santità era una componente essenziale della civiltà contadina; e,
finché è sopravvissuto qualcosa di simile, la società ha goduto di un
certo grado di sanità morale. Perché una società sia moralmente sana,
c’è bisogno di un certo numero di santi: essi sono come il concime della
terra; niente concime, niente frutti. Ora la terra si è disseccata, si è
inaridita: e non basteranno tutti i concimi chimici di questo mondo per
restituirle la sua fertilità. Non si fanno più figli e non si fanno più
santi, perché abbiamo perso la fede nella vita stessa. Non ci crediamo
più. Chi non crede nel futuro, non crede nemmeno che la santità sia
possibile. Ma finché ci si crede, la società è salva e il futuro esiste,
è una realtà aperta innanzi a noi
Oggi,
invece di figli, abbiamo problemi; le donne, invece che ad avere dei
bambini, pensano alla carriera, alla ricerca della felicità; anche gli
uomini inseguono la felicità, promossa al rango di diritto naturale e
inalienabile (dalla Costituzione degli Stati Uniti, non certo dal
Magistero della Chiesa cattolica). Uomini e donne che cercano la
felicità: ma questo non è, non è mai stato e mai potrà essere l’ideale
cristiano. L’ideale cristiano è la via della croce: perché solo passando
attraverso la croce si realizza la vita secondo Dio, e non secondo il
mondo. Gesù ha insisto molto su questo concetto: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come la dà il mondo. E ancora, in modo perfino più esplicito: Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua. E ancora: Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi: perché non c’è servo che sia superiore al padrone. Che
altro doveva dire, che altro doveva fare, che non abbia detto e fatto,
sino alla morte sulla croce, per far entrare nella zucca dei cristiani
questo concetto? Altro che portare la felicità! Queste stupidaggini,
lasciamo che le dicano i cristiani apostati, i quali, per giustificare
la propria apostasia dalla fede (hanno conosciuto la Verità, ma poi non
l’hanno seguita, anzi, l’hanno rinnegata e tradita) tentano di
stravolgere il significato del Vangelo e di trascinare la Chiesa intera
nella loro personale apostasia. E non è che abbiano scelto una strategia
troppo ambiziosa: i tempi erano maturi, evidentemente, per un simile
tentativo, e la loro opera è già assai bene avviata; al punto che si
fatica a vedere se e quando la corsa verso l’auto-distruzione della
Chiesa avrà fine, o conoscerà almeno una pausa.
Oggi,
infatti, il pericolo è estremo: non sono dei singoli cristiani, non
sono dei singoli religiosi o religiose, né dei singoli vescovi o
cardinali, ma la Chiesa nel suo complesso, e specialmente il vertice
della sua Gerarchia, ad essere minacciati di apostasia: cosa mai
accaduta prima, nei duemila anni della sua storia, se non, forse, al
tempo della grande crisi ariana. E una Chiesa apostatica porterebbe con
sé un regresso dell’intera società: perché dei sacerdoti e dei cristiani
moralmente integri rappresentano un capitale per l’intera società, per
quanto secolarizzata essa sia. Il cristiano è un individuo moralmente
sano, aperto, generoso, la cui esistenza è una benedizione per la sua
famiglia, ma anche per tutta la sfera sociale in cui egli vive, lavora
ed opera. Ma bisogna che sia un vero cristiano, non un cristiano
taroccato; non un cristiano modernista e progressista, che mira a
eliminare il concetto di peccato per giustificare i propri vizi, bensì
un uomo che ha un’alta concezione della vita, dei suoi doveri e delle
sue responsabilità, come padre (o madre), come figlio, come fratello,
come amico, come vicino di casa, come collega di lavoro, come cittadino
della patria comune e come frammento dell’intera umanità. Pertanto, o si
lavora per ripristinare una tale visione della vita, una tale
concezione del dovere, una tale consapevolezza della serietà del
mestiere di essere uomini, oppure proseguiremo la corsa verso il
baratro.
Non
resta ormai molto tempo. I nodi stanno venendo al pettine. Dobbiamo
recuperare l’ideale della santità, e specificamente della santità
cristiana. La parola può spaventare: ebbene, pazienza; a spaventarsi
saranno i soliti pigri, i soliti opportunisti. La santità non significa
altro che vivere la vita nel pieno esercizio delle virtù umane e
cristiane: la generosità, la fratellanza, la capacità di perdonare,
l’amore e il timor di Dio. I nostri nonni, sovente, ci riuscivano: non
sono diventati santi i cui nomi siano scritti sul calendario, ma avevano
fatto della loro vita una preparazione alla santità, e lasciato ai loro
figli e nipoti un modello di vita santa. La vita santa è la vita
secondo Dio; la vita sprecata, inutile, autodistruttiva, è la vita
secondo il mondo. Non si può piacere sia a Dio che al mondo: Nessuno può servire due padroni.
Sono ancora parole di Gesù: chiarissime, inequivocabili. Altro che
matrimonio omosessuale, divorzio, aborto e tutto il resto: questa è la
vita diabolica…
Quel che è venuto a mancare è stata l’educazione alla santità
di Francesco Lamendola
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