HILLARY, TRUMP. LA RELIGIONE CONTA ANCORA ALLE ELEZIONI?
PARE DI SÌ. UN MESSAGGIO PER IL PAPA.
La religione, la libertà religiosa, i principi “non negoziabili” come l’aborto e altre quisquilie del genere contano ancora, negli Stati Uniti. E’ questo uno dei risultati che la vittoria di Donald Trump ha portato alla luce, anche se questo elemento, così scomodo agli occhi del politically correct e dei mass media omologati viene spesso trascurato nelle analisi, che preferiscono arpeggiare su altri temi.
Il 23 per cento dei votanti, in questa tornata presidenziale, erano cattolici. E a Trump è andato il 52% di un elettorato tradizionalmente democratico, contro il 45% a Hillary; nonostante che – come c’era da aspettarsi – i latinos abbiano scelto la Clinton. Gli evangelici hanno votato in maniera schiacciante per Trump: 81 per cento contro 16 per cento a Hillary. Hanno battuto anche le percentuali (78-21) accordate a Bush. Il voto cattolico, nelle elezioni precedenti, era sempre andato a Obama in forma maggioritaria.
Chi ha seguito i social network in questi ultimi mesi, ha potuto rendersi conto, più di quanto apparisse sui mass media, che temi come aborto, libertà religiosa, famiglia e compagnia cantante fossero presenti in maniera forte. Le frasi di Hillary sulla necessità di modificare alcuni comportamenti e credenze religiose anche con l’aiuto della legge, la sua disponibilità a considerare fattibile l’aborto fino al nono mese di gravidanza e così via hanno probabilmente giocato un ruolo sull’elettorato religioso. Così come forse è stato di rilievo il riferimento di Trump, che non ha avuto quasi eco sui mass media, al fatto che il Paese sembrava avviato a “una cultura di morte”, una frase che a molti ricordava quella coniata da Giovanni Paolo II e Madre Teresa.
Non si può dimenticare che forse per la prima volta nelle elezioni di un presidente USA c’era stata – come definirla? Un’ingerenza? Un interferenza? – del Pontefice regnante, che rispondeva tornando dal viaggio oltreoceano a una domanda sui muri, e sul famoso muro fra Messico e Stati Uniti. Parlando di Trump disse. “Una persona che pensa soltanto di fare muri e non a fare ponti, non è cristiana. Ma – ha aggiunto – bisogna vedere se Trump ha detto così le cose”. Donald Trump reagì seccamente: “Per un leader religioso mettere in dubbio la fede di una persona è vergognoso. Io sono orgoglioso di essere cristiano e come presidente non permetterò alla cristianità di essere continuamente attaccata e indebolita, proprio come sta avvenendo adesso, con l’attuale presidente americano”. Poi ovviamente padre Lombardi e la diplomazia di entrambe le parti smussarono gli spigoli.
Resta il fatto che i cattolici Usa hanno dato la loro preferenza a un candidato di un’altra confessione (Trump è protestante) sgridato dal Papa. Una risposta? Forse. Come è stata una risposta il fatto che fra i candidati alla presidenza e alla vicepresidenza della Conferenza Episcopale USA non ci sia nessuno del manipolo nominato da Roma per alterare gli equilibri della Chiesa americana. Che però sembra in sintonia con il Paese. C’è il sospetto che sul dossier “Stati Uniti” il Pontefice dia l’orecchio ad anziani consiglieri, discussi e discutibili, legati a schemi vecchi, e viziati ideologicamente.
Marco Tosatti
Ma guarda, non è crollato il mondo
Secondo choc per i sinistrati orfanelli di Hillary. Non solo la loro mamma spirituale torna a casa con la coda tra le gambe, ma l’universo è ancora in piedi. E così gli “intellettuali” ci spiegano che il voto popolare è a ben guardare una schifezza; intanto le loro truppe scendono in piazza per protestare contro Trump. Veri paladini della libertà.
di Paolo Deotto
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Non vorrei tediare i lettori parlando ancora delle elezioni americane, ma mi tornano alla mente le “radiose” giornate del sessantotto, periodo che ricordo molto bene (autopubblicità:Sessantotto, diario politicamente scorretto – di Paolo Deotto – ed. Fede & Cultura, 2008). Quel sessantotto che non finisce mai.
Ogni volta che qualcosa non gira nel verso voluto da lorsignori, torniamo a vedere la solita trita e ritrita cerimonia. Intellettuali pensosi ci dicono che il voto popolare è bello e giusto solo se gli elettori votano come vorrebbero lorsignori stessi; già, perché se la nomenklatura viene sconfitta, quegli intellettuali pensosi iniziano formidabili arrampicate sugli specchi per spiegarci quanto il popolo è incapace di scegliere perché non ha gli strumenti culturali, la preparazione politica, insomma la Somma Capacità di Discernimento che è indiscutibile monopolio degli Illuminati.
Trump ha sconfitto la Clinton. È diventato presidente degli Stati Uniti. Però non è successo nulla di ciò che i pensosi custodi del Bene Sommo e Assoluto avevano preconizzato. Il mondo non è crollato, la catastrofe finanziaria non c’è stata. Nessun cataclisma. Terribile.
Mentre l’intellettuale pensoso soffre, le truppe (democratiche, ovviamente) si scatenano un pochino. Una manifestazione di qua, una devastazioncella di là, qualche testa rotta, qualche auto in fiamme. Perbacco, la libertà va difesa o no? Intanto la stampa di regime scrive che “L’America protesta contro l’elezione di Trump”, mentre sarebbe onesto scrivere che “qualche migliaio di mascalzoni inquadrati sfoga la rabbia e la frustrazione dei loro mandanti. Democratici, ovviamente”.
Che triste monotonia! Cinquant’anni che vediamo ripetere le stesse liturgie. Nelle “radiose” giornate sessantottine si rompevano a colpi di chiave inglese le teste dei dissenzienti e lo si faceva in nome della libertà, si devastavano le città e gli atenei, ovviamente in nome della libertà, si toglieva alla gran massa dei cittadini il diritto di vivere in pace, sempre in nome della libertà. E già allora la stampa allineata scriveva che “Gli studenti protestano”. Non scriveva “Qualche manipolo di malviventi, pagati e inquadrati, devastano città e università”.
Almeno allora l’allineamento della stampa non era ancora completato. Chi ha la mia età ricorda la metamorfosi del Corriere della Sera, divenuto in pochi anni giornale “progressista”, anche sotto l’influenza, dicevano i ben informati, delle consolazioni senili che la nobildonna, all’epoca proprietaria del più diffuso quotidiano d’Italia, riceveva da un allora giovane e aitante Mario Capanna. Glissons.
In anni e decenni l’allineamento dell’informazione si è pressoché completato e quindi lo choc per gli Illuminati è ancora più grande. Ma nulla è cambiato nelle reazioni: liturgia progressista, analisi che non servono a nulla, ma sono piene di spocchia e saccenza, e devastazioncelle di piazza. New York, Filadelfia, Boston, Chicago, Portland, San Francisco, Washington. Veri paladini della libertà, i sinistrati di questa o quella parte dell’oceano si assomigliano tutti. In nome della libertà, ti rompo la testa. Pronti poi a fare i piagnucolosi se si trovano loro con qualche testa rotta, o con le manette ai polsi (le polizie americane non sono soft come le nostre forze dell’ordine).
Il sessantotto non è un periodo storico. È una malattia del carattere e dell’anima. È la falsità eretta a regola di vita, è la progressiva paralisi del cervello, incapace di accettare la realtà.
Ora questi malati sono tarantolati, perché, ormai sicuri della loro totale e permanente vittoria, iniziano a temere un cedimento strutturale del loro edificio di menzogne. C’è stato il voto della Brexit, ora il voto in America, tra poco ci sarà il referendum in Italia.
La sicurezza della minestra e del posto sicuro e permanente traballa. Il tranquillo sacco amniotico dell’ideologia è entrato in fibrillazione. Ne vedremo ancora delle belle.
Tutte, ovviamente, in nome della libertà.
– di Paolo Deotto
IL RITRATTO DI TRUMP – CHE LA BOTTERI NON HA MAI DATO (ma cosa fa a New York?)
Attenzione, avvertiva il francese: Trump è una caricatura, e lui stesso gioca molto bene col suo lato caricaturale: la voglia di potere, la grossolanità, l’ego, le ossessioni, l’esibizione dei suoi successi….. “La macchina mediatica ha bisogno di sempre nuovi scandali. E Donald, il commerciale, lo sa meglio di chiunque, come creatore e animatore di un tele-reality show durato anni”.
“Intelligente, scaltro e accorto”
Ma “dietro l’immagine televisiva semplificatrice, si nasconde un uomo intelligente, scaltro ed accorto, che gestisce un impero miliardario dando lavoro a decine di migliaia di persone”. Che “rifletteva a una candidatura presidenziale da vari anni, ed ha saputo cogliere l’aria del tempi, la collera profonda che traversa l’America, e l’ha espressa e cavalcata. Con i suoi istinti politici eccezionali, ha visto arrivare l’ondata gigantesca di un paese in cerca di protezione contro gli effetti devastanti della globalizzazione, dell’immigrazione di massa e del terrorismo islamico, un paese spaventato anche del proprio declino; e si è proposto al paese come lo sceriffo dalla spalle larghe che lo protegge”.
“C’è il personaggio pubblico, fiammeggiante, egoista, eccessivo, che non vuol mai ammettere le sue debolezze perché deve “vendere la sua mercanzia” e perpetuare il suo mito – e un personaggio privato molto più sfumato, più moderato e pragmatico, che sa ascoltare gli altri e non sceglie sempre l’opinione più estrema”.
“Quando aveva 13 anni, suo padre lo ha mandato all’Accademia militare di New York per disciplinarlo, perché, ispirato da West Side Story, Donald era stato colto a preparare con la sua banda giovanile una discesa a Manhattan con lame di rasoio!”.
Andava male a scuola? No, studiava con profitto ma insieme “era un leader e un ribelle, che lanciava le gomme agli insegnanti e tirava i capelli alle ragazzine”. Gli è rimasta “una personalità indipendente, un lato indomabile che è quello che adorano i suoi fans”.
Il rapporto col padre Fred, un palazzinaro che aveva fatto fortuna da zero costruendo abitazioni per operai a Brooklyn, autoritario e intransigente, “ha avuto un influsso decisivo su Donald”. Questo padre duro e punitivo l’ha allevato “ad una dura etica del lavoro e disciplina, non come i figli dei ricchi”, e l’ha poi incoronato erede, diseredando il figlio maggiore, Fred jr. che non aveva voluto fare il promotore immobiliare e aveva scelto di essere pilota di linea, e ha finito per morire di alcolismo. Una tragedia che ha segnato Donald e l’ha deciso a “non mostrare mai le sue debolezze e fragilità come il suo fratello Fred”.
Grazie ai giornalisti inadempienti e ai media falsificanti, per noi italiani Trump è piombato sulla scena come un enigma, un fenomeno nuovo, strano e inaudito. I giornalisti falsificatori non ci hanno detto che, per gli americani, Donald è una vecchissima conoscenza.
“Gli americani lo conoscono dagli anni ’80 – da oltre trent’anni – da quando Trump ha cominciato a pubblicare le sue opere di successo, vendute a milioni di esemplari. “The Donald” è uno di famiglia per loro. Sapete che a fine anni ’80 Time Magazinegli ha dedicato la copertina, come l’uomo più sexy dell’America? Già a quel tempo, nei sondaggi, risultava come una delle persone più popolari del paese, a livello degli ex presidenti viventi e…del Papa! Poi c’è stato il successo gigantesco della sua trasmissione, il tele reality “The Apprentice” (L’Apprendista, una “isola dei famosi” dove due squadre concorrono nel dimostrare le loro qualità in affari, e di cui lo stesso Donald è stato “giudice ed ospite del gioco” per le prime sedici puntate). Al suo culmine “The Apprentice ha avuto 30 milioni di telespettatori – un enorme vantaggio di notorietà di cui Trump ha goduto sulla linea di partenza delle primarie repubblicane”, quando ha sbaragliato tutti i candidati del partito, figure artificiali , leccate e piccine in confronto a lui.
Le elites si sono completamente fatte cogliere di sorpresa dal “fenomeno Trump perché sono sempre più separate dal popolo e dalle sue preoccupazioni; vivono tra di loro, si cooptano tra di loro, si arricchiscono tra di loro, e difendono una versione di “progresso” del tutta staccata dalle preoccupazioni della maggioranza degli americani. Il popolo si sente fuori giuoco. Ammettiamolo, se Trump è esasperante, c’è qualcosa di marcio e un’aria terminale nel regno di Washington “.
“Miliardario del popolo”
Ma lui stesso,il miliardario, non è parte di quella elite? No, è questo il punto: le elite non l’ha mai accettato. E quindi oggi può giocare la parte del “miliardario del popolo”: e “fa’ delle sua conoscenza del sistema corrotto una forza, dicendo che lui conosce così bene i modi con cui le lobbies comprano i politici, che è il solo a poter rimediare alla cosa”. Un discorso poco convincente. Come ha fatto a convincere?
“Non va dimenticato che Donald Trump è cresciuto nei cantieri edili, dove suo padre lo portava fin da piccolo perché imparasse il mestiere, e ciò l’ha messo in contatto con le classi popolari. Parla esattamente come loro! Quando ho chiesto ai suoi elettori in giro per l’America, era questo che li stupiva: “”Parla come noi, pensa come noi – è come noi!”. Il fatto che sia ricco non è un ostacolo, perché gli americani amano la ricchezza e il successo”.
Una delle migliori carte di Trump è di “essere politicamente scorretto in un paese che è divenuto politicamente corretto all’eccesso”. Dove Obama non vuole nemmeno nominare insieme “Islam” e “che ci minaccia”, dove si è dibattuto sui media in quali toilettes deve entrare un trans, e uno di “genere fluido”, che non è ne signore né signora. Dove non si deve augurare più “Buon Natale” ma buone feste, per non offendere qualche minoranza religiosa. Dove, per fare un esempio, il Washington Post scrive il nome della più popolare squadra di calcio americano, i “Red Skins” (Pellerossa), così: R***, perché una tribù indiana trovava il nome razzista e insultante. Si noti: la questione dei R*** ha occupato mesi di dibattito al Congresso e nell’Amministrazione Obama, discussione poi chiusa da un’inchiesta-sondaggio, da cui è risultato che la maggioranza schiacciante delle veri pellerossa amavano di essere chiamati “Red Skin” ed erano ovviamente tifosi dei Red Skins – come lo sono i popolari elettori di Trump.
La gente di buon senso “si allarma perché le aule universitarie, luogo presunto della libertà di pensiero, sono oggi sorvegliati da una psico-polizia orwelliana dove gli studenti chiedono conto ai professori ogni volta che pronuncia una frase per cui uno studente si stima “offeso nella sua identità”. In questo contesto, Trump è sentito dai suoi elettori come un liberatore”.
La domanda che nasce dopo ciò è: Trump è il tipico demagogo senza visione? Un Berlusconi in formato maxi che cavalca opportunisticamente la protesta profonda, ma superficiale, senza un vero programma, che non saprà realizzare le promesse? Risponde il giornalista francese:
“Trump non è un ideologo. E’ stato a lungo democratico prima di essere repubblicano e trasgredisce le frontiere politiche classiche. Favorisce una forma di protezionismo e rimette in discussione gli accordi di commercio sfavorevoli al paese; è a sinistra sulla questione del libero scambio, sulla protezione sociale dei poveri, che vuole rinforzare, sulle questioni della società in cui riflette il lato “liberal” dei newyorkesi – è un post-reaganiano. Ma chiaramente a destra sulla immigrazione illegale, sulle frontiere, sul fisco. Al fondo è un commerciante e nazionalista, che si vede come un pragmatico, uno che farà “buoni affari” per l’America.
Buoni affari, good deals, è una parola chiave del trumpismo: laddove Hitler ha scritto “Mein Kampf”, Trump ha scritto un libro che ha come titolo “L’arte del Deal”: e Deal significa “contratto d’affari”, ed anche “accordo” ma anche “riforma” (il New Deal di Roosevelt); è il Mein Kampf di Trump, il suo primo libro, con la pubblicazione del quale già pensava di candidarsi alla presidenza prendendo nel suo ticket Oprah Winfrey, la star televisiva negra e democratica – non è affatto un razzista e un misogino.
Il giornalista francese non è affatto un fan di “The Donald”. Infatti si preoccupa di come “quest’uomo d’affari che dirige un impero edilizio piramidale di cui è il solo timoniere” potrà reagire se “non riuscisse a mantenere le sue promesse una volta alla Casa Bianca, ostacolato dalla complessità di un sistema democratico estremamente costrittivo” (sic). “Tenterà di aggirare il sistema, con l’aiuto dei personaggi sulfurei che l’hanno accompagnato negli affari? Come si comporterà con gli avversari politici e della stampa, visto l’accanimento di cui dà prova contro quelli che gli mettono i bastoni fra le ruote’”.
Soprattutto: “Sarà disposto a sacrificare l’indipendenza di certi alleati europei per trovare un accordo col Cremlino sui temi che stanno a cuore a questo, specie in Siria? Potrebbe accettare una sorta di Yalta bis [spartizione dell’Europa, ndr.] e rimettere in causa il ruolo dell’America nella difesa della democrazia e dell’ordine liberal-democratico”.
Insomma, orrore orrore, la fine della guerra fredda. Non più nuove Maidan! Nessun’altra primavera colorata! Magari la pace in Siria, e la reintegrazione della Russia in Europa! E’ quel che nella loro lingua orwelliana i neocon chiamano l’ordine liberal-democratico”: e una neocon sfegatata, Anne Applebaum (j), infatti si domanda sul Washington Post: “L’America è ancora il leader del mondo libero?”
Più ridicolmente, se lo domandano gli oligarchi della UE, che non devono il loro posto al popolo. Martin Schulz ha addirittura aperto le ostilità: “Sarà difficile lavorare con lui”, su Siria e Ucraina, Irak e Libia “La politica globale richiede l’impegno costante degli Stati Uniti per rendere il mondo un posto migliore da lasciare ai nostri figli” (sic). Mogherini, bontà sua: “La UE continuerà a lavorare con gli Usa anche dopo la vittoria di Trump”, il mostro. La Merkel ha calcato la voce sui “valori” che Trump, secondo la propaganda mediatica, avrebbe in schifo: “Stato di diritto, dignità dell’individuo senza differenze per origine, colore della pelle [sappiamo che odi i negri e latinos], credo, genere, orientamento sessuale [beccati questa lezione, tu che disprezzi le donne e probabilmente i finocchi] e idee politiche [che devono essere anti-Mosca]. Sulla base di questi valori, offro una stretta cooperazione al futuro Presidente degli Stati Uniti”: che generosità, che degnazione.
Sigmar Gabriel, il leader dl SPD, meno diplomatico, ha chiamato il vincitore dell Casa Bianbca “il pioniere di una svolta autoritaria e maschilista internazionale”. A Berlino non si son rimessi dallo shock, e così a Bruxelles, ed anche a Londra (Trump non ha ancora telefonato a Teresa May). Molto indicativo l’ex presidente della repubblica Napolitano: “Siamo innanzi ad uno degli eventi più sconvolgenti della storia della democrazia, uno degli eventi più sconvolgenti del suffragio universale, non dobbiamo sottovalutare tutto questo ” . A lui il suffragio universale non è mai piaciuto.
A tutti i caporioni europeidi andava meglio, evidentemente, un’America guidata in politica estera dai Fratelli Musulmani e dai milioni dell’Arabia Saudita.
Per fortuna, tutti questi sono prossimi a scomparire. Qui si vede il fitto futuro di elezioni e votazioni che ci attende: entro un anno e mezzo, Merkel, Renzi, Hollande, Padoan, Gentiloni e Boldrini, sperabilmente anche Juncker, spariranno.
Chi andrà a loro posto dipende da noi. Specie noi italiani. Che sempre ci aspettiamo la liberazione dagli stranieri. Gli americani “bianchi senza laurea” stanno scotendo il giogo globalista; sono solo all’inizio, l’oligarchia è ancora lì, e secondo Craig Roberts , “Trump può fare l’errore di tenere i neoconservatori nel suo governo….In un paese le cui istituzioni sono così completamente corrotte dall’Oligarchia, è difficile ottenere un vero cambiamento senza spargere sangue”.
La nuova America, dopo la lotta a sangue, libererà anche noi? Sì, andiamoci a rileggere il Coro dell’Adelchi, quello che comincia:
Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Andate alla fine:
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha”.
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha”.
http://www.maurizioblondet.it/ritratto-trump-la-botteri-non-mai-dato-cosa-new-york/
La vittoria di Trump
NOVEMBRE 10, 2016
Luca BaldelliLa vittoria di Trump era inaspettata solo per oligarchi, opinionisti alla loro mercé, radicalchic e via enumerando tutti i virgulti avvizziti e incartapecoriti di un establishment sempre più autoreferenziale e chiuso nel proprio irriducibile elitarismo. L’illusione che il mondo estenda i suoi confini dal salotto della Goldman Sachs a quello della Monsanto, ha giocato un tiro mancino ai campioni della presunzione culturale e politica planetaria, sempre ammantata di alti scopi umanitari e mai pronta a svelare di quale sangue grondi e di quale sudore sia madida. Non ci voleva grandissimo intuito nel comprendere che gli USA, specie i ceti meno abbienti, erano stufi marci della strategia assassina e vampiresca della Banda Clinton, pronta a bandire e capitanare crociate mondiali per opporsi alla rinascente potenza russa e per proteggere, bardare, cingere con un’improbabile cortina di ferro la propria sempre più declinante supremazia geopolitica e geoeconomica. L’incitamento scriteriato e destabilizzante alle “Primavere arabe” (autunni disperati, mimetizzati sul tragicomico calendario di un imperialismo morente); il sostegno ai fascisti banderisti di Kiev, assassini spregevoli ed eredi di aguzzini e criminali ben più zelanti delle stesse SS; l’appoggio logistico e finanziario all’ISIS (o Daesh che dir si voglia) contro la Siria e le opzioni politiche laiche e progressiste nel Medio Oriente; la liason con l’Arabia Saudita, vecchio sodale economico e finanziario di Washington, al punto tale da consegnare ai wahhabiti la Presidenza della Commissione ONU per i diritti umani, paradossale investitura che ha svelato a tutto il mondo quale sia la reale concezione “dirittumanista” statunitense.
Nessun colpo è stato risparmiato dalla Banda Clinton e dall’obbediente comprimario Obama pur di sabotare e distruggere la pace mondiale, pur di trascinare (muoia Sansone con tutti i filistei!) il mondo intero nel baratro senza fondo di un’economia al collasso, strozzata dal debito estero e marchiata a fuoco, come un vitello esanime; nemmeno lontana parvenza del suo aureo antenato, da un declino produttivo pesantissimo, devastante, dei cui reali contorni le stesse statistiche ufficiali, pur lontane dal trionfalismo di un tempo, non danno nemmeno remota contezza.
Con tutto questo portato di malefatte, debolezze, errori, si pretendeva che i Democratici riconfermassero le loro posizioni e la loro leadership! Ciechi e sordi davanti alla realtà, o ben svegli, ma decisi a tenere nel torpore tutti gli altri, i maitres à penser del potere hanno cercato di imporre alla realtà (tanto peggio per essa, diversamente!), quello che la sua vis recalcitrante in ogni modo cercava di evitare e, alla fine, ha evitato con grande scorno dei soloni. Trump ha vinto! Chi scrive non ne è certo entusiasta sostenitore ma, da osservatore della realtà, attento per quanto lo consentano le contingenze e i mille appuntamenti di una quotidianità tentacolare, sostiene che questo trionfo (tale è, in quanto ottenuto contro il resto del mondo) ha svelato che il Re era nudo. A vederlo svestito non eravamo in tanti, fino a ieri, ma ora che la tenuta adamitica brilla in faccia al sole in tutta la sua indisponente evidenza, si dovranno capire alcune elementari verità: non hanno vinto i ricchi, non era Trump, per quanto magnate, l’espressione dei magnati. Tutte le principali multinazionali hanno sostenuto attivamente, con generose donazioni e ancor più munifici condizionamenti diretti ed indiretti (altrove, ad altre latitudini, si chiamerebbero pressioni o intimidazioni, ma quello è il lavoro sporco che si fa fare ai tonton macoutes o ai gorillas) la campagna della Signora Clinton e le attività, ad essa legate a doppio filo, della mitica Fondazione Clinton (fregiatasi da tempo del baffo astuto e spregiudicato di D’Alema):Coca Cola, Wal Mart, Dow Chemical, Boeing, Microsoft, Exxon Mobile, Monsanto, Visa e altri potentati non hanno certo fornito lacca al fissaggio del parrucchino di Trump, preferendo di gran lunga, per i loro interessi, tirare la volata all’ex First Lady dei rampanti anni ’90, quelli in cui tutto andava bene in Russia, secondo Washington, solo perché quel Paese era ridotto ad una colonia.
Trump ha vinto contro questi influenti, potentissimi centri economico-finanziari, contro i giornali da essi pagati e condizionati, contro gli apparati messi in campo con spregiudicatezza e spirito buglionesco di crociata dall’establishment tenuto in vita con le flebo del CFR e della Trilateral. A decretare le vittoria di Trump sono state le VITTIME di questo coacervo di potere: la classe operaia, vittima di esternalizzazioni, deindustrializzazioni striscianti, calo del potere d’acquisto di salari e stipendi, fiscalità oppressiva ed iniqua; gli emarginati, corteggiati da sempre da uno schieramento democratico che si ricorda di loro dal giorno d’inizio della campagna elettorale a quello finale; la classe media strangolata da banche, finanziarie, assicurazioni che han pensato di lucrare anche sul pur progressista fermento dell’Obamacare (che comunque ha lasciato senza copertura sanitaria 30 milioni di cittadini, ad onta di marinaresche promesse universalistiche, da welfare scandinavo o, non esageriamo, quasi real–socialiste). Infine, i cittadini di ogni estrazione stanchi della criminale e banditesca politica estera “democratica”, che come nessun altra ha portato il mondo sull’orlo della terza guerra mondiale pur di difendere un primato che non è più della collettività, ma solo delle élites e nemmeno tutte. Questi soggetti hanno accerchiato la cittadella del potere e issato sulle loro bandiere la parola: “BASTA!”
Tale interiezione sarà decisiva anche in Europa, nel Vecchio continente piegato e devastato dalle scorrerie di istituti di credito, finanziarie e grandi concentrazioni per interposte (o no) burocrazie bruxelliane. Il “BASTA” risuonerà presto anche nelle nostre contrade, e unirà per la prima volta nella storia in maniera solida e compatta, lavoratori dipendenti ed autonomi, pezzi di borghesia prima schizzinosi solo a sentir parlare di proletariato, e nuovi poveri prodotti dal neoliberismo senza argini, unito al distruttivo monetarismo di stampo friedmaniano. Il Re era nudo negli USA, ma quello europeo non ha cappotti e pellicce da comperare per evitare la stessa fine.
Nessun colpo è stato risparmiato dalla Banda Clinton e dall’obbediente comprimario Obama pur di sabotare e distruggere la pace mondiale, pur di trascinare (muoia Sansone con tutti i filistei!) il mondo intero nel baratro senza fondo di un’economia al collasso, strozzata dal debito estero e marchiata a fuoco, come un vitello esanime; nemmeno lontana parvenza del suo aureo antenato, da un declino produttivo pesantissimo, devastante, dei cui reali contorni le stesse statistiche ufficiali, pur lontane dal trionfalismo di un tempo, non danno nemmeno remota contezza.
Con tutto questo portato di malefatte, debolezze, errori, si pretendeva che i Democratici riconfermassero le loro posizioni e la loro leadership! Ciechi e sordi davanti alla realtà, o ben svegli, ma decisi a tenere nel torpore tutti gli altri, i maitres à penser del potere hanno cercato di imporre alla realtà (tanto peggio per essa, diversamente!), quello che la sua vis recalcitrante in ogni modo cercava di evitare e, alla fine, ha evitato con grande scorno dei soloni. Trump ha vinto! Chi scrive non ne è certo entusiasta sostenitore ma, da osservatore della realtà, attento per quanto lo consentano le contingenze e i mille appuntamenti di una quotidianità tentacolare, sostiene che questo trionfo (tale è, in quanto ottenuto contro il resto del mondo) ha svelato che il Re era nudo. A vederlo svestito non eravamo in tanti, fino a ieri, ma ora che la tenuta adamitica brilla in faccia al sole in tutta la sua indisponente evidenza, si dovranno capire alcune elementari verità: non hanno vinto i ricchi, non era Trump, per quanto magnate, l’espressione dei magnati. Tutte le principali multinazionali hanno sostenuto attivamente, con generose donazioni e ancor più munifici condizionamenti diretti ed indiretti (altrove, ad altre latitudini, si chiamerebbero pressioni o intimidazioni, ma quello è il lavoro sporco che si fa fare ai tonton macoutes o ai gorillas) la campagna della Signora Clinton e le attività, ad essa legate a doppio filo, della mitica Fondazione Clinton (fregiatasi da tempo del baffo astuto e spregiudicato di D’Alema):Coca Cola, Wal Mart, Dow Chemical, Boeing, Microsoft, Exxon Mobile, Monsanto, Visa e altri potentati non hanno certo fornito lacca al fissaggio del parrucchino di Trump, preferendo di gran lunga, per i loro interessi, tirare la volata all’ex First Lady dei rampanti anni ’90, quelli in cui tutto andava bene in Russia, secondo Washington, solo perché quel Paese era ridotto ad una colonia.
Trump ha vinto contro questi influenti, potentissimi centri economico-finanziari, contro i giornali da essi pagati e condizionati, contro gli apparati messi in campo con spregiudicatezza e spirito buglionesco di crociata dall’establishment tenuto in vita con le flebo del CFR e della Trilateral. A decretare le vittoria di Trump sono state le VITTIME di questo coacervo di potere: la classe operaia, vittima di esternalizzazioni, deindustrializzazioni striscianti, calo del potere d’acquisto di salari e stipendi, fiscalità oppressiva ed iniqua; gli emarginati, corteggiati da sempre da uno schieramento democratico che si ricorda di loro dal giorno d’inizio della campagna elettorale a quello finale; la classe media strangolata da banche, finanziarie, assicurazioni che han pensato di lucrare anche sul pur progressista fermento dell’Obamacare (che comunque ha lasciato senza copertura sanitaria 30 milioni di cittadini, ad onta di marinaresche promesse universalistiche, da welfare scandinavo o, non esageriamo, quasi real–socialiste). Infine, i cittadini di ogni estrazione stanchi della criminale e banditesca politica estera “democratica”, che come nessun altra ha portato il mondo sull’orlo della terza guerra mondiale pur di difendere un primato che non è più della collettività, ma solo delle élites e nemmeno tutte. Questi soggetti hanno accerchiato la cittadella del potere e issato sulle loro bandiere la parola: “BASTA!”
Tale interiezione sarà decisiva anche in Europa, nel Vecchio continente piegato e devastato dalle scorrerie di istituti di credito, finanziarie e grandi concentrazioni per interposte (o no) burocrazie bruxelliane. Il “BASTA” risuonerà presto anche nelle nostre contrade, e unirà per la prima volta nella storia in maniera solida e compatta, lavoratori dipendenti ed autonomi, pezzi di borghesia prima schizzinosi solo a sentir parlare di proletariato, e nuovi poveri prodotti dal neoliberismo senza argini, unito al distruttivo monetarismo di stampo friedmaniano. Il Re era nudo negli USA, ma quello europeo non ha cappotti e pellicce da comperare per evitare la stessa fine.
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