Tecnicamente quella di Stefania Falasca (Avvenire) a Papa Francesco è un'intervista, ma in realtà è una "conversazione" tra una persona, la giornalista Stefania Falasca, preparata e desiderosa di colloquiare veramente con il Papa, e un Francesco che accetta con umiltà e disponibilità la sfida giornalistica: spiegare il suo pensiero, il suo "intimo" del ministero e del magistero pontificio. Non solo uno splendido momento del giornalismo italiano ma anche un'istantanea del pontificato del quale si sentiva un enorme bisogno.
Stefania Falasca, precisa, puntuale, coraggiosa e senza sconti né eufemismi, si rivolge a Papa Francesco chiamandolo semplicemente "padre" (Jorge Mario Bergoglio a più riprese ha detto: "Ciò che mi piace di più è essere prete" e perciò "preferisco essere chiamato padre").
E' vero, tra loro esiste una vecchia amicizia, lontana nel tempo, ma la giornalista resta sempre centrata nel suo ruolo senza cercare lo scoop, la frase per il caso mediatico, ciò che serve per vendere e per squillare sulla piazza dove si piazzano merci. E' chiara la sua intenzione e il suo progetto: porre al Papa domande su questioni di fondo, rilevanti, necessarie e a volte urgenti affinché lui si possa spiegare con calma, ragionando, denudando i passi del suo agire quotidiano nonché del suo pensiero.
Stefania Falasca, precisa, puntuale, coraggiosa e senza sconti né eufemismi, si rivolge a Papa Francesco chiamandolo semplicemente "padre" (Jorge Mario Bergoglio a più riprese ha detto: "Ciò che mi piace di più è essere prete" e perciò "preferisco essere chiamato padre").
E' vero, tra loro esiste una vecchia amicizia, lontana nel tempo, ma la giornalista resta sempre centrata nel suo ruolo senza cercare lo scoop, la frase per il caso mediatico, ciò che serve per vendere e per squillare sulla piazza dove si piazzano merci. E' chiara la sua intenzione e il suo progetto: porre al Papa domande su questioni di fondo, rilevanti, necessarie e a volte urgenti affinché lui si possa spiegare con calma, ragionando, denudando i passi del suo agire quotidiano nonché del suo pensiero.
Il Papa partecipa con sincerità e generosità. In molti passaggi il racconto somiglia molto ad una "confessione". Viene in mente François de La Rochefoucauld e la sua celebre frasi: "La confidenza alimenta la conversazione più dell'intelligenza". Leggendo questa conversazione si ha l'impressione di prendere parte ad un viaggio sul mare: “Ci si stacca da terra quasi senza accorgersene, per avvedersi poi di aver lasciato riva solo quando si è già molto lontani."
Fra le numerose interviste rilasciate da Papa Francesco, questa di oggi, resterà fra quelle da non dimenticare e tenere a portata di mano sempre.(Luis Badilla - ©copyright) (a cura Redazione "Il sismografo")
Papa Francesco ad Avvenire: Giubileo ed ecumenismo, frutti del Concilio
Papa Francesco a Lund nella cattedrale luterana - OSS_ROM
Il Giubileo? Non ho fatto un piano – afferma il Papa – Semplicemente mi sono lasciato portare dallo Spirito. La Chiesa è il Vangelo, non è un cammino di idee. “A me piace pensare – prosegue Francesco nella conversazione con Stefania Falasca – che l’Onnipotente ha una cattiva memoria. Una volta che ti perdona, si dimentica. Perché è felice di perdonare. Per me questo basta. Fare l’esperienza del perdono insegna a spostare la concezione cristiana dal legalismo alla Persona di Dio che si è fatto misericordia”. “Alcuni, come certe repliche ad ‘Amoris laetitia’ - afferma il Papa – continuano a vedere solo o bianco o nero, mentre nel flusso della vita si deve discernere. Ma le critiche – continua Francesco - “se non c’è un cattivo spirito, aiutano. Certi rigorismi nascono dal voler nascondere in un’armatura la propria insoddisfazione”. Nessuna svendita della dottrina. Servire i poveri è servire Cristo. Sui recenti incontri ecumenici in particolare quelli in Svezia per il 500° della riforma luterana, Papa Francesco afferma che non sono frutto dell’Anno Santo della Misericordia ma di un percorso avviato col Vaticano II. Nessuna accelerazione, osserva, è il cammino del Concilio che va avanti e si intensifica. In questo momento l’unità si fa su tre strade: camminare insieme con le opere di carità, pregare insieme e poi riconoscere la confessione comune così come si esprime nel comune martirio, nell’ecumenismo del sangue”. Infine condanna il proselitismo tra cristiani che è in sé stesso un peccato grave e si dice convinto che “il cancro nella Chiesa è il darsi gloria l’un l’altro. Nella reazione di Lutero c’era anche questo: il rifiuto di un’immagine di Chiesa come un’organizzazione che poteva andare avanti facendo a meno della Grazia del Signore”.
Il Papa: “La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi”
«La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi». Risponde così Papa Francesco a una domanda di Stefania Falasca, editorialista di Avvenire, nella lunga e articolata intervista che le ha concesso alla vigilia della chiusura del Giubileo straordinario della misericordia, molto incentrata sull'ecumenismo. Il testo integrale è disponibile nell'edizione cartacea del quotidiano cattolico italiano. Tra le risposte, anche una nella quale Bergoglio lega certe «repliche» all'esortazione post-sinodale Amoris laetitia alla faticosa e non ancora compiuta ricezione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Come si ricorderà, è di questi giorni la pubblicazione di una lettera di quattro cardinali al Papa contenente dei «dubia» sul documento dedicato alla famiglia.
Amoris laetitia e il «legalismo»
«La Chiesa esiste solo - ha detto Francesco ad Avvenire - come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio. Al Concilio la Chiesa ha sentito la responsabilità di essere nel mondo come segno vivo dell'amore del Padre. Con la Lumen Gentium è risalita alle sorgenti della sua natura, al Vangelo. Questo sposta l'asse della concezione cristiana da un certo legalismo, che può essere ideologico, alla Persona di Dio che si è fatto misericordia nell'incarnazione del Figlio. Alcuni - pensa a certe repliche ad Amoris Laetitia - continuano a non comprendere, o bianco o nero, anche se è nel flusso della vita che si deve discernere. Il Concilio ci ha detto questo, gli storici però dicono che un Concilio, per essere assorbito bene dal corpo della Chiesa, ha bisogno di un secolo… Siamo a metà».
Un Anno Santo senza «grandi gesti»
«Chi scopre di essere molto amato comincia a uscire dalla solitudine cattiva, dalla separazione che porta a odiare gli altri e se stessi. Spero che tante persone abbiano scoperto di essere molto amate da Gesù e si siano lasciate abbracciare da Lui. La misericordia è il nome di Dio ed è anche la sua debolezza, il suo punto debole. La sua misericordia lo porta sempre al perdono, a dimenticarsi dei nostri peccati. A me piace pensare che l'Onnipotente ha una cattiva memoria. Una volta che ti perdona, si dimentica. Perché è felice di perdonare. Per me questo basta (...). Gesù non domanda grandi gesti, ma solo l'abbandono e la riconoscenza. Santa Teresa di Lisieux, che è dottore della Chiesa, nella sua "piccola via" verso Dio indica l'abbandono del bambino, che si addormenta senza riserve tra le braccia di suo padre e ricorda che la carità non può rimanere chiusa nel fondo. Amore di Dio e amore del prossimo sono due amori inseparabili».
Per il Giubileo «non ho fatto un piano»
«Non ho fatto un piano. Ho fatto semplicemente quello che mi ispirava lo Spirito Santo. Le cose sono venute. Mi sono lasciato andare dallo Spirito. Si trattava solo di essere docili allo Spirito Santo, di lasciar fare a Lui. La Chiesa è il Vangelo, è l'opera di Gesù Cristo. Non è un cammino di idee, uno strumento per affermarle. E nella Chiesa le cose entrano nel tempo quando il tempo è maturo, quando si offre».
L'accelerazione degli incontri ecumenici
«È il cammino dal Concilio che va avanti, s'intensifica. Ma è il cammino, non sono io. Questo cammino è il cammino della Chiesa. Io ho incontrato i primati e i responsabili, è vero, ma anche gli altri miei predecessori hanno fatto i loro incontri con questi o altri responsabili. Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior, per dirlo secondo quel processo espresso nella fisica aristotelica».
Le caramelle del Patriarca Bartolomeo
«A Lesbo, mentre insieme salutavamo tutti, c’era un bambino verso il quale mi ero chinato. Ma al bambino non interessavo, guardava dietro di me. Mi volto e vedo perché: Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le stava dando a dei bambini, tutto contento. Questo è Bartolomeo, un uomo capace di portare avanti tra tante difficoltà il Grande Concilio ortodosso, di parlare di teologia ad alto livello, e di stare semplicemente con i bambini. Quando veniva a Roma occupava a Santa Marta la stanza in cui io sto ora. L’unico rimprovero che mi ha fatto è che ha dovuto cambiarla».
L'accusa di «protestantizzare» la Chiesa (dopo il viaggio a Lund)
«Non mi toglie il sonno. Io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto, seguo il Concilio. Quanto alle opinioni, bisogna sempre distinguere lo spirito col quale vengono dette. Quando non c'è un cattivo spirito, aiutano anche a camminare. Altre volte si vede subito che le critiche prendono qua e là per giustificare una posizione già assunta, non sono oneste, sono fatte con spirito cattivo per fomentare divisione. Si vede subito che certi rigorismi nascono da una mancanza, dal voler nascondere dentro un'armatura la propria triste insoddisfazione. Se guardi il film "Il pranzo di Babette" c'è questo comportamento rigido».
L'ecumenismo pratico e le dispute teologiche
«Non si tratta di mettere da parte qualcosa. Servire i poveri vuol dire servire Cristo, perché i poveri sono la carne di Cristo. E se serviamo i poveri insieme, vuol dire che noi cristiani ci ritroviamo uniti nel toccare le piaghe di Cristo. Penso al lavoro che dopo l'incontro di Lund possono fare insieme la Caritas e le organizzazioni caritative luterane. Non è un'istituzione, è un cammino. Certi modi di contrapporre le “cose della dottrina” alle “cose della carità pastorale” invece non sono secondo il Vangelo e creano confusione».
L'unità tra i cristiani è un cammino
«L'unità non si fa perché ci mettiamo d'accordo tra noi ma perché camminiamo seguendo Gesù. E camminando, per opera di Colui che seguiamo, possiamo scoprirci uniti. È il camminare dietro a Cristo che unisce. Convertirsi significa lasciare che il Signore viva e operi in noi. Così scopriamo di trovarci uniti anche nella nostra comune missione di annunciare il Vangelo. Camminando e lavorando insieme, ci rendiamo conto che siamo già uniti nel nome del Signore e che quindi l'unità non la creiamo noi. Ci accorgiamo che è lo Spirito che spinge e ci porta avanti. Se tu sei docile allo Spirito, sarà Lui a dirti il passo che puoi fare, il resto lo fa lui. Non si può andare dietro a Cristo se non ti porta, se non ti spinge lo Spirito con la sua forza. Per questo è lo Spirito l'artefice dell'unità tra i cristiani. Ecco perché dico che l'unità si fa in cammino, perché l'unità è una grazia che si deve chiedere, e anche perché ripeto che ogni proselitismo tra cristiani è peccaminoso. La Chiesa non cresce mai per proselitismo ma "per attrazione", come ha scritto Benedetto XVI. Il proselitismo tra cristiani quindi è in se stesso un peccato grave perché contraddice la dinamica stessa di come si diventa e si rimane cristiani. La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi».
La chiave dell'ecumenismo
«Fare processi invece di occupare spazi è la chiave anche del cammino ecumenico. In questo momento storico l'unità si fa su tre strade: camminare insieme con le opere di carità, pregare insieme, e poi riconoscere la confessione comune così come si esprime nel comune martirio ricevuto nel nome di Cristo, nell'ecumenismo del sangue. Lì si vede che il Nemico stesso riconosce la nostra unità, l'unità dei battezzati. Il Nemico, in questo, non sbaglia. E queste sono tutte espressioni di unità visibile. Pregare insieme è visibile. Compiere opere di carità insieme è visibile. Il martirio condiviso nel nome di Cristo è visibile».
Il «cancro» nella Chiesa
«Continuo a pensare che il cancro nella Chiesa è il darsi gloria l'un l'altro. Se uno non sa chi è Gesù, o non lo ha mai incontrato, lo può sempre incontrare; ma se uno sta nella Chiesa, e si muove in essa perché proprio nell'ambito della Chiesa coltiva e alimenta la sua fame di dominio e affermazione di sé, ha una malattia spirituale, crede che la Chiesa sia una realtà umana autosufficiente, dove tutto si muove secondo logiche di ambizione e potere. Nella reazione di Lutero c'era anche questo: il rifiuto di un'immagine di Chiesa come un'organizzazione che poteva andare avanti facendo a meno della grazia del Signore, o considerandola come un possesso scontato, garantito a priori. E questa tentazione di costruire una Chiesa autoreferenziale, che porta alla contrapposizione e quindi alla divisione, ritorna sempre».
Gli ortodossi e l'unità del primo millennio
«Dobbiamo guardare al primo millennio, può sempre ispirarci. Non si tratta di tornare indietro in maniera meccanica, non è semplicemente fare "retromarcia": lì ci sono tesori validi anche oggi (...). I Padri della Chiesa dei primi secoli avevano chiaro che la Chiesa vive istante per istante della grazia di Cristo. Per questo - l'ho già detto altre volte - dicevano che la Chiesa non ha luce propria, e la chiamavano "mysterium lunae", il mistero della luna. Perché la Chiesa dà luce ma non brilla di luce propria. E quando la Chiesa, invece di guardare Cristo, guarda troppo se stessa vengono anche le divisioni. È quello che è successo dopo il primo millennio. Guardare Cristo ci libera da questa abitudine, e anche dalla tentazione del trionfalismo e del rigorismo. E ci fa camminare insieme nella strada della docilità allo Spirito Santo, che ci porta all'unità».
Papa ad Avvenire: “Giubileo? Ispirato dallo Spirito. Ecumenismo? Non è protestantizzare la Chiesa”
In una lunga intervista a Stefania Falasca, Francesco traccia un bilancio del Giubileo e spiega perché, in un mondo lacerato da conflitti, sia necessaria l’unità dei cristiani. Nonostante certe “posizioni rigide” nella Chiesa
Risponde ex imo corde, Papa Bergoglio, alle 23 domande che la prestigiosa giornalista Stefania Falasca gli rivolge nell’intervista pubblicata oggi dal quotidiano Avvenire. Non la prima e, probabilmente, neppure l’ultima intervista del Pontefice, ma indubbiamente quella che più di ogni altra rivela il pensiero profondo del Papa, troppo spesso svilito a semplici slogan, su temi fondamentali come ecumenismo, misericordia, eredità del Concilio.
Nel colloquio, Francesco traccia un primo bilancio del Giubileo che si conclude domenica, per cui – dice – “non ho fatto un piano, mi sono lasciato andare allo Spirito”. Poi spiega il suo afflato ecumenico e il motivo della costante ricerca dell’unità fra i cristiani – necessaria per il mondo di oggi lacerato dai conflitti – che “si fa camminando, seguendo Cristo” non progetti o accordi. Replica, quindi, alle critiche di quelle frange chiuse alla novità di Dio di una “protestantizzazione” della Chiesa, le stesse che esprimono ‘dubbi’ sulla Amoris Laetitia: “Non mi toglie il sonno – afferma – io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto. Quanto alle opinioni, bisogna sempre distinguere lo spirito col quale vengono dette”.
A dare valore aggiunto al colloquio è l’amicizia che lega il Papa alla sua interlocutrice iniziata dai tempi del cardinalato a Buenos Aires e rinsaldata negli anni, poi resa pubblica dallo stesso Pontefice con quella prima celebre telefonata fatta “ad una coppia di amici di Roma” (Stefania e il marito Gianni Valente, anch’egli giornalista) pochi minuti dopo la sua elezione sul Soglio di Pietro.
E sempre una telefonata è stata lo stimolo a realizzare questa intervista. La giornalista chiedeva a “padre Bergoglio” una sua chiosa sullo storico viaggio ecumenico a Lund, rimasta inevasa durante la conferenza stampa nel volo di ritorno dalla Svezia. “Mi prese in contropiede dicendomi che avrebbe potuto rispondere subito. ‘Ma adesso?’ gli chiesi, e mi accordò un bonario rinvio”, racconta Falasca in un’appassionata introduzione.
Riporta quindi le risposte del Pontefice che entra subito nelle dinamiche di un periodo ecclesiale intenso quale il Giubileo e si sofferma sui passi ecumenici che hanno costellato i viaggi apostolici in questo Anno Santo straordinario. “La Chiesa è il Vangelo, non è un cammino di idee”, afferma il Santo Padre nella prima risposta, “questo Anno sulla Misericordia è un processo maturato nel tempo, dal Concilio… Anche in campo ecumenico il cammino viene da lontano, con i passi dei miei predecessori. Questo è il cammino della Chiesa. Non sono io. Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti, il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior“.
Nessun obiettivo né progetti prestabiliti dietro questo Giubileo, dunque, ma solo la speranza “che tante persone abbiano scoperto di essere molto amate da Gesù e si siano lasciate abbracciare da Lui”. Perché, spiega il Papa, “chi scopre di essere molto amato comincia a uscire dalla solitudine cattiva, dalla separazione che porta a odiare gli altri e se stessi”. “La misericordia è il nome di Dio ed è anche la sua debolezza, il suo punto debole”, rimarca Francesco. “La sua misericordia lo porta sempre al perdono, a dimenticarsi dei nostri peccati. A me piace pensare che l’Onnipotente ha una cattiva memoria. Una volta che ti perdona, si dimentica. Perché è felice di perdonare. Per me questo basta”.
“La Chiesa esiste solo come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio”, soggiunge il Pontefice. Alcuni, tuttavia, “continuano a non comprendere” rimanendo bloccati nella logica del “bianco o nero”; invece “è nel flusso della vita che si deve discernere”, afferma il Santo Padre. Lo ha detto il Concilio ma, come dicono gli storici, “un Concilio, per essere assorbito bene dal corpo della Chiesa, ha bisogno di un secolo”. “Siamo a metà”.
Nell’intervista, il Papa riflette poi sugli incontri ecumenici degli ultimi mesi: “Non sono il frutto dell’Anno della Misericordia” precisa, ma “parte di un percorso che viene da lontano. Non è una cosa nuova. Sono solo passi in più lungo un cammino iniziato da tempo”. Allo stesso modo i dialoghi con i primati e i responsabili delle Chiese cristiane che attraversano il suo pontificato non sono altro che “il cammino che dal Concilio va avanti, s’intensifica”. In questi incontri, “la fratellanza si sente” evidenzia Bergoglio, “c’è Gesù in mezzo. Per me sono tutti fratelli. Ci benediciamo l’un l’altro, un fratello benedice l’altro”.
Tutti, nessuno escluso: Kirill, Hieronymos, Tawadros, Daniele di Romania, Ilia e, naturalmente, Bartolomeo, l’amato fratello ortodosso con il quale Francesco condivide la maggiore “sintonia spirituale”. Con lui il Papa ha compiuto l’indimenticabile viaggio a Lesbo in mezzo agli “scartati” d’Europa, i rifugiati. Nell’isola greca, racconta, “mentre insieme salutavamo tutti, c’era un bambino verso il quale mi ero chinato. Ma al bambino non interessavo, guardava dietro di me. Mi volto e vedo perché: Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le stava dando a dei bambini, tutto contento. Questo è Bartolomeo, un uomo capace di portare avanti tra tante difficoltà il Grande Concilio ortodosso, di parlare di teologia ad alto livello, e di stare semplicemente con i bambini. Quando veniva a Roma occupava a Santa Marta la stanza in cui io sto ora. L’unico rimprovero che mi ha fatto è… che ha dovuto cambiarla”.
Un ecumenismo, dunque, fatto di piccoli gesti ma che è sempre un dono di Dio, sottolinea Papa Francesco. “Sappiamo anche che le ferite delle nostre divisioni, che lacerano il corpo di Cristo, non possiamo guarirle da noi stessi. Quindi non si possono imporre progetti o sistemi per tornare uniti”, dice con particolare riferimento all’incontro in Svezia del 31 ottobre per il 500° della Riforma.
Grazie ad esso c’è stata una “purificazione della memoria” di Lutero che “voleva fare una riforma che doveva essere come una medicina”, poi, però, “le cose si sono cristallizzate, si sono mescolati gli interessi politici del tempo, e si è finiti nel cuius regio eius religio, per cui si doveva seguire la confessione religiosa di chi aveva il potere”. Con i luterani, annota il Santo Padre, c’è un lavoro concreto di servizio ai poveri da svolgere, in attesa che vengano chiarite le questioni teologiche. “Non si tratta di mettere da parte qualcosa. Servire i poveri vuol dire servire Cristo, perché i poveri sono la carne di Cristo. E se serviamo i poveri insieme, vuol dire che noi cristiani ci ritroviamo uniti nel toccare le piaghe di Cristo”.
Solo “camminando, per opera di Colui che seguiamo, possiamo scoprirci uniti”, “scopriamo di trovarci uniti anche nella nostra comune missione di annunciare il Vangelo”, aggiunge il Papa. E ribadisce che “ogni proselitismo tra cristiani è peccaminoso”; come diceva infatti Benedetto XVI: “La Chiesa non cresce mai per proselitismo ma ‘per attrazione’”. “Il proselitismo tra cristiani quindi è in se stesso un peccato grave… La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi”.
D’altro canto, a chi teme l’intento di “protestantizzare la Chiesa” o “svendere la dottrina cattolica”, Bergoglio risponde: “Io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto, seguo il Concilio. Quanto alle opinioni, bisogna sempre distinguere lo spirito col quale vengono dette. Quando non c’è un cattivo spirito, aiutano anche a camminare. Altre volte si vede subito che le critiche prendono qua e là per giustificare una posizione già assunta, non sono oneste, sono fatte con spirito cattivo per fomentare divisione. Si vede subito che certi rigorismi nascono da una mancanza, dal voler nascondere dentro un’armatura la propria triste insoddisfazione. Se guardi il film Il pranzo di Babette c’è questo comportamento rigido”.
In un tempo così difficile come il nostro “lo scandalo va superato” perché la divisione è una contro-testimonianza. Questa unità si può realizzare “facendo le cose insieme con gesti di fratellanza” e ricordando il comune battesimo che libera “dalla tentazione del pelagianesimo, che vuole convincerci che ci salviamo per forza nostra, con i nostri attivismi”.
Per Francesco il vero “cancro” nella Chiesa è “il darsi gloria l’un l’altro”: “Se uno non sa chi è Gesù, o non lo ha mai incontrato, lo può sempre incontrare; ma se uno sta nella Chiesa, e si muove in essa perché proprio nell’ambito della Chiesa coltiva e alimenta la sua fame di dominio e affermazione di sé, ha una malattia spirituale, crede che la Chiesa sia una realtà umana autosufficiente, dove tutto si muove secondo logiche di ambizione e potere”.
“Questa tentazione di costruire una Chiesa autoreferenziale, che porta alla contrapposizione e quindi alla divisione, ritorna sempre”, osserva il Papa. È “l’abitudine peccatrice della Chiesa di guardare troppo se stessa, come se credesse di avere luce propria”. Perciò i Padri della Chiesa parlavano di un “mysterium lunae”, ovvero il fatto che la Chiesa, come la luna, “dà luce ma non brilla di luce propria”. “Quando la Chiesa, invece di guardare Cristo, guarda troppo se stessa vengono anche le divisioni”, chiosa il Papa. “È quello che è successo dopo il primo millennio. Guardare Cristo ci libera da questa abitudine, e anche dalla tentazione del trionfalismo e del rigorismo. E ci fa camminare insieme nella strada della docilità allo Spirito Santo, che ci porta all’unità”. Non bisogna però essere “impazienti, sfiduciati, ansiosi”: è un cammino “che richiede pazienza nel custodire e migliorare quanto già esiste, che è molto di più di ciò che divide”.
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