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venerdì 18 novembre 2016

"Come per un referendum su papa Francesco"?

Elezioni americane, quelle dei vescovi. I numeri e i retroscena


Il nuovo presidente è uno dei tredici cardinali della famosa lettera che fece infuriare il papa. Il nuovo vicepresidente è un membro dell'Opus Dei. La disfatta dei vescovi prediletti da Bergoglio


ROMA, 18 novembre 2016 – Sette giorni dopo l'elezione di Donald Trump alla presidenza, anche gli oltre duecento vescovi degli Stati Uniti sono andati al voto. Per eleggere chi li presiederà nei prossimi tre anni.

Un voto a cui sono arrivati "come per un referendum su papa Francesco", ha detto chiaro John L. Allen, il numero uno dei vaticanisti degli States.

E un po' è stato davvero così, anche se il neoeletto alla presidenza, il cardinale Daniel N. DiNardo, ha subito tenuto a dire che "è una pazzia" il solo pensare che egli non stia "con questo papa, che fa cose meravigliose per la Chiesa".


Sta di fatto che quando Francesco visitò gli Stati Uniti, nel settembre del 2015, ordinò ai vescovi di cambiare rotta e di mettersi al passo con lui.

Basta con la "predicazione di complesse dottrine", con il "linguaggio aspro e bellicoso della divisione", col "fare della croce un vessillo di lotte mondane".

Sì invece alla "cultura dell’incontro", la sola capace di trasformare la Chiesa degli Stati Uniti in "un focolare umile che attira gli uomini mediante il fascino della luce e il calore dell’amore".

A queste indicazioni perentorie Jorge Mario Bergoglio ha fatto corrispondere una serie di nomine di vescovi vicini al suo sentire, in primo luogo quella di Blase J. Cupich ad arcivescovo di Chicago, che il 19 novembre sarà anche fatto cardinale. 

Quando però, come è prassi nei mesi che precedono il rinnovo dei vertici della conferenza episcopale, ciascun vescovo scrisse su una scheda i cinque nomi da lui preferiti, andò a finire che tra i dieci più votati – e di conseguenza designati come candidati ufficiali alla presidenza e alla vicepresidenza – ne entrò solo uno di quelli cari a Bergoglio, l'arcivescovo di Santa Fe John C. Wester.

Gli altri nove, in ordine alfabetico, erano i seguenti:

Gregory M. Aymond, arcivescovo di New Orleans;
Charles J. Chaput, arcivescovo di Philadelphia;
Paul S. Coakley, arcivescovo di Oklahoma City;
Daniel N. DiNardo, cardinale arcivescovo di Galveston-Houston;
Daniel E. Flores, vescovo di Brownsville;
José H. Gómez, arcivescovo di Los Angeles;
William E. Lori, arcivescovo di Baltimora;
Allen H. Vigneron, arcivescovo di Detroit;
Thomas G. Wenski, arcivescovo di Miami.

Ma vediamo con ordine come sono andate le votazioni.

Quella per il presidente è stata la prima e la più prevedibile, perché quasi sempre ad essere eletto a tale carica è il vicepresidente del precedente triennio, con la sola eccezione del 2010, quando a sorpresa l'arcivescovo di New York cardinale Timothy M. Dolan batté per 128 voti contro 111 il candidato dei progressisti Gerald F. Kicanas, allora vescovo di Spokane e vicepresidente uscente, già ausiliare a Chicago negli anni Novanta del cardinale Joseph Bernardin.

Ed è andata secondo tradizione anche questa volta. Nominato vicepresidente nel 2013, il cardinale DiNardo è stato promosso al grado superiore al primo colpo, con 113 voti su 206, distanziando di netto gli altri candidati, tutti dai 30 voti in giù.

DiNardo fu uno firmatari della famosa lettera "dei tredici cardinali" che fece infuriare papa Francesco all'inizio del sinodo dell'ottobre 2015. E come lui Dolan.

Ma non risulta che ciò gli abbia nuociuto al momento del voto. Anzi.

Più incerta e nevralgica è stata invece la successiva elezione del nuovo vicepresidente, cioè di colui che secondo tradizione diventa anche il presidente "in pectore" per il triennio successivo.

Qui l'eletto è stato l'arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, nato e cresciuto in Messico, membro dell'Opus Dei, robusta tempra di difensore della vita, della famiglia e della libertà religiosa, cioè dei principali campi di battaglia tra l'episcopato americano e i poteri civili, ma anche appassionato paladino della causa dei migranti, molti dei quali ispanici come lui e parte crescente dei cattolici degli Stati Uniti.

Los Angeles è la diocesi più grande di tutti gli States, ma papa Francesco ha finora rifiutato di fare cardinale il suo titolare. E forse nell'elezione di Gómez c'è stata una punta di rivincita per questo rifiuto.

Gómez è uscito sempre in testa, nelle tre votazioni con la quali è stato eletto.

Al primo turno ha avuto 60 voti, seguito da Aymond con 56, dal bergogliano Wester con 31 e da Chaput con 21, quest'ultimo maestro dello stesso Gómez, che fu suo ausiliare nella precedente diocesi di Denver.

Al secondo turno Gómez ha avuto 105 voti, Aymond 81, Chaput 17, Wester 14.

E nel ballottaggio finale Gómez ha prevalso con 131 voti contro gli 84 di Aymond.

Va notato che Aymond è arrivato secondo anche nella votazione che ha eletto presidente DiNardo. Con 30 voti, seguito da Wester con 20 e da Gómez con 15. Tra i vescovi, è l'astro in ascesa. Gode di estesi apprezzamenti per la sua capacità di affrontare le questioni in modo diretto e con parole chiare e per la sua capacità di creare consenso senza mai cedere sui principi. Fu tra gli oppositori della laurea honoris causa data dall'università cattolica di Notre Dame all'abortista Barack Obama. 

Ma è degna di nota anche la similarità tra queste votazioni del 2016 e le precedenti del 2013.

Nelle elezioni del 2013 i più votati per la presidenza, dopo l'eletto Joseph E. Kurtz, arcivescovo di Louisville, furono nell'ordine DiNardo, Chaput, Gómez, Lori e Aymond.

Mentre per la vicepresidenza, dopo l'eletto DiNardo, comparvero di nuovo i nomi di Chaput, Gómez e Aymond.

Nel 2013, però, c'era tra i dieci candidati anche un nome che tre anni dopo è sparito, quello dell'allora vescovo di Spokane Cupich, il prediletto di Bergoglio, che poi lo promosse a Chicago.

Nella votazione per la presidenza Cupich arrivò settimo, con 10 voti, e in quelle per la vicepresidenza arrivò quinto in entrambi i turni, nel primo con 24 voti e nel secondo con 17.

Quest'anno niente. Cupich non è entrato neppure tra i dieci candidati. E forse anche per questo Francesco lo ha fatto cardinale.

Il ricambio avviato da Bergoglio nell'episcopato degli Stati Uniti, dunque, è ancora lontano dal produrre un cambiamento nella leadership e nella direzione di marcia.

Ma questo non deve sorprendere, perché è avvenuto così anche con Giovanni Paolo II, anche lui promotore nel suo lungo pontificato di un massiccio ricambio dei vescovi statunitensi, che però si manifestò con forza solo durante il regno del suo successore Benedetto XVI.

Al vertice della conferenza episcopale, infatti, la prima vera svolta avvenne nel 2004, quando il cardinale Francis E. George, arcivescovo di Chicago, fu eletto vicepresidente superando d'un soffio, con 118 voti contro 114, l'allora vescovo di Pittsburgh Donald W. Wuerl, oggi cardinale e grande sostenitore di papa Bergoglio.

Nel 2007 George divenne presidente e Kicanas vicepresidente, quest'ultimo battendo nel ballottaggio Dolan per 128 voti a 106.

Ma nel 2010 a sorpresa Dolan fu eletto lui presidente, superando Kicanas nel ballottaggio per 128 a 111. Con Kurtz che al ballottaggio per la vicepresidenza superò Chaput per 147 a 91.

E nel 2013 tutto andò secondo tradizione, con Kurtz eletto presidente al primo turno, con 125 voti su 236, e DiNardo eletto vicepresidente battendo Chaput per 147 a 87.

Tornando alle votazioni di quest'anno, vanno segnalate anche quelle dei presidenti di cinque commissioni.

Il vescovo di Portland Robert P. Deeley è stato eletto capo della commissione per le questioni canoniche e di governo della Chiesa, con 111 voti contro gli 89 del vescovo di Rockford David M. Malloy.

Il vescovo di Scranton Joseph C. Bambera è stato eletto capo della commissione per le questioni ecumeniche e interreligiose, con 115 voti contro i 90 del vescovo di Oakland Michael C. Barber, gesuita.

Il vescovo ausiliare di Los Angeles Robert E. Barron è stato eletto capo della commissione per l'evangelizzazione e la catechesi, con 122 voti contro i 90 del vescovo di Bridgeport Frank J. Caggiano.

L'ordinario militare, l'arcivescovo Timothy P. Broglio, è stato eletto capo della commissione per la giustizia e la pace, con 127 voti contro gli 88 del vescovo di San Diego Robert W. McElroy.

Il vescovo di Lafayette Timothy L. Doherty è stato eletto capo della commissione per la protezione dei bambini e degli adolescenti, con 128 voti contro gli 86 del vescovo di Yakima Joseph J. Tyson.

Tra questi, vanno segnalati un vincitore e uno sconfitto.

Lo sconfitto è McElroy, che assieme a Cupich è l'altro dioscuro degli ultrabergogliani ed è figlio spirituale di John Raphael Quinn, arcivescovo di San Francisco dal 1977 al 1995 e teorico di una riforma radicale del papato. Di Quinn, McElroy fu segretario e fu da lui consacrato vescovo quando nel 2010 fu nominato ausiliare di San Francisco, con Wester come conconsacrante.

Il vincitore è Barron, pupillo del cardinale George a Chicago e da un anno a Los Angeles come vescovo ausiliare di Gómez.

Quanto a Gómez, l'elezione a vicepresidente della conferenza episcopale ha comportato la sua decadenza dalla carica di presidente della commissione per le migrazioni, alla quale era stato nominato nel 2015.

Al suo posto è stato eletto presidente della commissione per le migrazioni il vescovo di Austin Joe S. Vasquez, con 109 voti contro i 91 del bergogliano Wester.

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Il sito ufficiale della conferenza episcopale degli Stati Uniti:

> USCCB

di Sandro Magister
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351417

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