NEOCHIESA: SILENZIO SUL GIUDIZIO
La neochiesa ha steso il silenzio sul Giudizio. E' assente nei discorsi dei cattolici. Fino a ieri c'era ben presente per non dire centrale ora non c'è più: sparito e pressoché dimenticato. Il nuovo cristianesimo "zeffirelliano"
di Francesco Lamendola
C'è un grande assente nei discorsi dei cattolici e, spessissimo, nella stessa pastorale del clero, a cominciare dai vescovi: il giudizio. Si direbbe che la dottrina cattolica sul giudizio di Dio - sia il giudizio particolare, di ogni singola anima, sia quello universale, che avverrà alla fine dei tempi, sia stato fatto sparire, come il coniglio da sotto il cappello del prestigiatore. Fino a ieri c'era, ben presente, per non dire centrale; ora non c'è più. Sparito e pressoché dimenticato.
Qualunque manuale di teologia, fino al Concilio Vaticano II, e, per un certo tempo, anche dopo (le malattie non fanno sentire subito i loro effetti, specie se il corpo è fondamentalmente sano) dedicava un capitolo alla trattazione dei Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Nel Cantico delle Creature - così volentieri sbandierato e così mal compreso da certi "ammiratori" odierni di san Francesco, che in lui vedono quasi solo un ecologista ante litteram -, dopo aver lodato Dio per tutte le meraviglie della creazione (e non della "natura", che è un concetto ben diverso), san Francesco ricorda la morte e il giudizio e lo fa con parole estremamente severe e accorate: Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; dunque, alla fine ci sarà un giudizio: le anime saranno giudicate per come avranno vissuto. Tutta la Divina Commedia di Dante vuol essere un memento agli uomini sul fatto che moriranno e che saranno giudicati, per l'eternità: il loro destino finale sarà l'eterna dannazione o l'eterna beatitudine. Anche ne I promessi sposi il tema del giudizio è costantemente presente: ad esempio, quando padre Cristoforo ammonisce don Rodrigo che il giudizio di Dio incombe su di lui; o quando lo stesso padre Cristoforo, nel Lazzaretto, ammonisce Renzo che non agli uomini, ma a Dio solo tocca il giudicare, riferendosi a don Rodrigo che è, a sua volta, ricoverato fra gli appestati, in fin di vita. Questo, per citare solo alcune opere letterarie; in quelle teologiche e filosofiche, il discorso sul giudizio è ancora più costante e, se possibile, ancora più esplicito.
Eppure, certi cattolici post-conciliari (come se esistessero due cattolicesimi, o, peggio, due Chiese: una prima e una dopo il Concilio) hanno "scoperto" che, essendo Dio amore misericordioso, il che è verissimo, Egli non giudica e non condanna nessuno, il che è falsissimo ed eretico; ragion per cui hanno smesso di parlare, puramente e semplicemente, di questo aspetto della giustizia divina, che è inseparabile da quello dell'amore misericordioso e che, se non ci fosse, incrinerebbe irreparabilmente anche l'altro. Il perché di questo silenzio è facilmente intuibile: l'idea dell'inferno disturba profondamente l'immaginario del cattolico progressista, in quanto sa troppo di Medioevo (senza contare che il cattolico progressista crede solo a metà nella vita eterna, e, quindi, ha comunque difficoltà nell'organizzare i suoi pensieri intorno a questo concetto, essendo il suo orizzonte quasi completamente laicizzato e immanentista), ma anche perché il giudizio presuppone il peccato, e parlare di "peccato", per lui, è diventato quasi impossibile. Egli ha sviluppato una vera e propria sindrome allergica nei confronti dell'idea e della realtà del peccato; ha introiettato a tal punto il modo di ragionare della cultura laicista, razionalista e materialista, magari senza avvedersene, da non poter più pensare al peccato come peccato, ma, semmai, come "errore", come "sbaglio", come "incoerenza": insomma, qualcosa di molto soft e, soprattutto, di molto, troppo umano, che nasce dall'uomo e finisce con l'uomo, senza che Dio c'entri per niente.
Anche la ragione di questa rimozione è facilmente intuibile: il cristiano moderno ha la sindrome freudiana della rivolta contro il Padre, e qualunque accenno alla sua insufficienza e alla sua fragilità gli riesce molesto, perché indebolisce la stima che vorrebbe avere di sé, mentre avvalora la concezione "tradizionalista" (da lui aborrita, anche se è perfettamente ortodossa) secondo la quale l'uomo, da solo, non può fare nulla di buono, e solo da Dio può attingere la forza necessaria (vedi la similitudine giovannea della vite e dei tralci). Ma l'uomo moderno, e anche il cristiano moderno, non vogliono sentire questa musica: non vogliono doversi ricordare che l'uomo è solo creatura e, quindi, fragile e fallibile; d'altra parte, non hanno abbastanza fegato per accettare la logica conseguenza della libertà donata loro da Dio: il fatto che la scelta del bene o quella del male non sono equivalenti e ininfluenti, ma comportano una differenza nel destino finale dell'anima: differenza in cui consiste, appunto, il giudizio di Dio, e che ha una portata infinita (eternità).
Quanti equivoci e malintesi sono stati alimentati, non sempre in buona fede, sulla raccomandazione cristiana del "non giudicare". Abbiamo sentito il papa stesso affermare enfaticamente: Chi sono io per giudicare?, fraintendendo completamente quella raccomandazione. Quando Gesù afferma: Non giudicate, e non sarete giudicati, non intende dire che il giudizio è stato abolito, ma che spetta a Lui solo, perché Lui solo sa leggere nel mistero abissale del cuore umano, e vedere ciò che sfugge allo sguardo degli uomini. I cattolici progressisti e buonisti amano citare continuamente l'episodio di Gesù e l'adultera, come se fosse la dimostrazione lampante della loro tesi, assurda e anticristiana: che non c'è giudizio, perché ciascuno è giudice del bene e del male quanto a se stesso. In realtà, basta leggere quel brano evangelico con un minimo di attenzione per rendersi conto che Gesù esercita la misericordia e la clemenza, ma non abolisce né il peccato, né, tanto meno, il giudizio. Infatti, alla donna che è rimasta sola, dopo che tutti i suoi accusatori se ne sono andati, non dice: Nemmeno io ti giudico, bensì: Nemmeno io ti condanno, distinguendo fra la condanna e il giudizio; e le raccomanda, subito dopo: Va', e non peccare più. Dunque, la donna aveva peccato, e Gesù le rimette il peccato, ma non lo nega e non lo abolisce; esercita la clemenza, ma non sopprime la gravità del peccato, con tutte le sue conseguenze per la vita dell'anima. Gesù non toglie il peccato, ma lo rimette al peccatore pentito, che, proprio pentendosi, si è riconosciuto peccatore: come ha fatto con il buon ladrone, sulla croce, negli ultimi istanti della Sua vita terrena.
Ai cattolici modernisti e progressisti dà fastidio l'idea di Cristo giudice (così come, del resto, non riescono proprio a mandar giù l'idea di Cristo re, tutti impregnati di democraticismo a prova di bomba). Peggio per loro: non hanno compreso il Vangelo. In tutte le chiese medievali, anzi, in tutte le chiese di prima del Concilio, l'immagine visiva del Giudizio finale campeggiava nel luogo più in vista, di solito nel catino dell'abside, oppure nella controfacciata (come nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, affrescata da Giotto; o nella Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello, nella laguna veneziana). Cristo Pantocratore, Cristo Giudice: non si può separare l'immagine di Cristo onnipotente e benedicente dall'immagine di Cristo sovrano e giudicante. Se costoro leggessero meglio il Vangelo e gli altri libri del Nuovo Testamento, si accorgerebbero che gli ammonimenti e gli insegnamenti relativi al giudizio sono costanti. Forse che il ricco Epulone non viene giudicato e mandato all'inferno? Forse che non gli viene negato il benché minimo sollievo, e perfino la richiesta che i suoi fratelli siano ammoniti, affinché non facciano la sua stessa fine? Seccamente, Abramo gli risponde: Se non hanno ascoltato né Mosè, né i profeti, non crederebbero neanche ad uno che resuscitasse dai morti. E quante volte Gesù ha descritto la sorte di coloro i quali verranno giudicati e condannati, indi gettati nelle tenebre, dove sono pianto e stridore di denti?
Osservava il cardinale Giacomo Biffi nel volume Esplorando il disegno (Torino, Elle Di Ci, 1995; da cui è stato ricavato l’estratto Che cosa c’è dopo? Di là? Alla fine?, idem, 1996, pp. 22-24):
C‘è una caratteristica fondamentale del nostro incontro con Cristo, che è importante sottolineare. Questo incontro sarà anche un giudizio. “Ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio” (At 10, 42). Pietro enuncia con questa frase una verità essenziale del messaggio cristiano: on solo sappiamo che il Signore Gesù verrà a concludere la storia del mondo e la storia di ogni singolo uomo, ma sappiamo anche che la sua “parusia” sarà un GIUDIZIO ed egli verrà come un giudice. Al termine di tutto, ciascuno di noi si imbatterà inevitabilmente nel Risorto, e in questo incontro sarà valutato e manifestato per quel che vale. Si noti che il tema del giudizio viene incontro a un’aspirazione profonda dell’uomo. Infatti una delle cause più determinanti del malessere che affligge l’esistenza umana, è l’assenza di un giudizio trascendente. L’uomo può agire bene o male; può essere generoso o crudele, pietoso o egoista, rispettoso della verità e della giustizia, o cinico e bugiardo: ebbene, non pare che il diverso comportamento abbia conseguenze apprezzabilmente diverse. Direi che tutte le rappresentazioni moralistiche, laicamente moralistiche, non persuadono, perché sono smentite. Fare il bene e fare il male pare non abbia conseguenze diverse in questo mondo.
La morte è una catastrofe “che pareggia tutte l’erbe del prato” ma (per dirla col Manzoni), il che vuol dire che davanti all’evento “morte” l’essere stati buoni o cattivi è, umanamente parlando, irrilevante. Soprattutto se si è abbastanza astuti da non inciampare nelle maglie – larghe e spesso capricciose – della legge umana, troppe volte non ci sono gravi inconvenienti ad abbandonare la strada dell’onestà. È vero che i ladri vengono puniti (ma poco, perché stranamente la giustizia umana ha maturato alcune convinzioni autenticamente cristiane, come il rispetto del colpevole e il suo riscatto, ma manca di due tematiche essenziali: il rispetto del’innocente e soprattutto la solidarietà con la vittima. Nella nostra società non c’è alcuna solidarietà con le vittime, nessun meccanismo sociale che le compensi; questo è un discorso che esula dal tema di queste pagine); però i furbi in genere riescono a farla franca. E questo è già una cosa sconcertante; però sul piano religioso la cosa più sconcertante è che di fronte all’opposta condotta degli uomini, Dio il più delle volte tace, e il suo silenzio – che par indifferenza davanti al bene e al male, ci scandalizza: “perché, vedendo i malvagi, taci, mentre l’empio ingoia il giusto?” (Ab 1, 13).
C’è poi l’aspetto truffaldino del mondo, per cui le creature raramente sono prese per quello che sono e i valori sono come travestiti, sicché è difficile dire dove stia davvero il bene e dove stia il male. Ci sono persone eccellenti che sembrano miserabili. O delle persone che cerchiamo di scansare, che magari sono dei principi nel Regno dei Cieli. Ma perché? Perché questa truffa?
Diceva Simonide: “L’aspetto esteriore delle cose violenta anche la verità”.
Per tutto ciò, in un mondo dove parrebbe vano distinguere il bene e il male, il vero e il falso, il consistente e il vuoto, la condizione dell’uomo appare un assurdo. […]
La Rivelazione dissolve questo assurdo opprimente e ce ne libera, parlando appunto di un “giudizio”, per il quale la verità e l’equità saranno ristabilite. Un giudizio che ovviamente non può essere immanente alla realtà mondana, la quale considerata in se stessa è sena speranza, ma che le sarà dato dall’alto. Chi cerca la giustizia in questo mondo è destinato a restare deluso. Bisogna cercarla, certamente ma già con la consapevolezza che in questo mondo non la troveremo.
Quella che si sta diffondendo è una concezione (e una pratica!) che potremmo definire zeffirelliana del cristianesimo: vale a dire un cristianesimo tutto amore e misericordia, tutto perdono e buoni sentimenti, senza lotta, senza sacrifico, senza croce, e, soprattutto, senza la terribile possibilità del peccato, che è il rifiuto dell'amore di Dio e l'arrogante affermazione dell'uomo che non vuole riconoscere i suoi limiti di creatura. Un cristianesimo tutto rose e fiorellini, facile come bere un bicchier d'acqua, dove niente fa problema, perché Gesù è sempre lì, pronto ad offrire un paracadute, in modo che nessuno si faccia troppo male. Ma questo è fare un torto non solo alla serietà del cristianesimo, ma anche alla serietà della vita. Questi cattolici buonisti e modernisti si sono dimenticati, o fanno finta di non sapere, che la vita è lotta, è dramma, è una battaglia continua; e che per tutti, atei compresi, arriva il momento della prova, arriva l'ora, nella quale si vede di che stoffa siamo fatti, senza sconti e senza paracadute. Nella vita, chi sbaglia paga, e a volte paga in maniera pesantissima: una banale, fugace distrazione, mentre si guida in autostrada, può significare la morte, o una mutilazione permanente; e come potrebbe la vita dell'anima essere più semplice, più facile della vita fisica? Nossignori: se la vita è una cosa seria, allora anche la posta in gioco lo è; e la posta in gioco, per il cristiano, è la vita eterna, cioè l'eterna beatitudine o l'eterna dannazione. Ora, è vero che, in passato, qualche pastore ha abusato di una teologia della paura, per imprimere bene questi concetti nella mente delle pecorelle; adesso, però, stiamo scivolando nell'eccesso opposto: è giusto avere un po' di timore della morte, un po' di timore del peccato, un po' di timor di Dio: non solo è giusto, ma doveroso e sacrosanto. Proprio perché la vita non è un gioco, e Dio non ci ha creati - non ci ha voluti fin da prima che il mondo fosse creato - per una specie di gioco. La beatitudine e la dannazione eterne non sono cose su cui si possa scherzare; sono cose estremamente serie, come ben sanno quei mistici - ad esempio, suor Maria Faustina Kowalska o suor Lucia dos Santos - che hanno avuto la visione soprannaturale dell'aldilà. E che le fiamme dell’inferno, loro, le hanno viste bene...
La neochiesa ha steso il silenzio sul Giudizio
di Francesco Lamendola
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