ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 25 gennaio 2017

E domani?

Lettera di un giovane cattolico perplesso


Mons-Lefebvre_Mons-de-Castro-Mayer
 di Cristiano Lugli
Carissimi amici di Radio Spada,
I pregi dell’essere giovani sono tanti e siamo soliti affermarlo accoratamente. Ancor meglio è essere giovani e cattolici, cosa che, in epoca pre-illuminista, poteva considerarsi cosa normale e tipica di ogni famiglia.
Certo oggi si evidenzia un terzo aspetto nell’essere giovani e perlopiù cattolici, ovvero essere giovani cattolici al giorno d’oggi. Il giochetto di parole derivante da questo terzo aspetto non è casuale, tanto meno irrisorio, ma è segno di una realtà tangibile a tutti. Penso che la differenza di età conti senza dubbio poco, tuttavia essere giovani cattolici al giorno d’oggi ha un non so che di difficile, commisto ad un non so che di altrettanto stimolante. Intanto limitiamoci al primo aspetto.
Penso non sia sbagliato asserire che una persona di vent’anni e poco più, quale il sottoscritto, è nato al cospetto del peggio: una società degradata all’ennesima potenza, una generazione cresciuta senza arte né parte, un’educazione generale soggetta in quasi totale parte allo spirito del mondo ed infine, non per importanza, una Chiesa scarnata della Sua essenza principale.
C’è però poi un fattore molto rilevante nella vita di ogni uomo, e altro non è che il disegno ascosto che il Buon Dio ha impresso sopra ognuno: “Non est occultátum os meum a te quod fecísti in occúlto, et substántia mea in inferióribus terræ. Imperféctum meum vidérunt óculi tui, et in libro tuo omnes scribéntur; dies formabúntur, et nemo in eis.”
La Provvidenza, agendo, porta anche allo scoperta –  così tanto semplice quanto però nascosta agli occhi del mondo – di ciò che sempre è stato e di ciò che un giorno, per una legge superiore, tornerà brillantemente ad essere. La Tradizione della Chiesa come d’incanto è comparsa innanzi ai miei occhi sbigottiti. Ricomparsa con la sua forma di manifestazione più grande che è il Santo Sacrifico della Messa, compiuto allo stesso modo sopra l’Altare, quell’Altare che non è tavola, non è mensa, ma è Cristo: “Altare est Christus” viene detto dal Vescovo durante l’ordinazione di nuovi sacerdoti.
Trattasi dunque di grande Grazia, quella di essere reindirizzati sulla strada retta, quella dove certamente si possono trovare i mezzi e non esistono più scuse per deviare rotta senza personale responsabilità.
Ma, fatto questo preambolo essenziale, entro nel cuore e nel contenuto vero della mia lettera, lettera di un giovane cattolico molto perplesso per quello che sta avvenendo. Se all’inizio è tutto rose e fiori, come spesso in tutte le cose, va detto che anche il mondo del cosiddetto tradizionalismo ha i suoi archetipi particolarmente spinosi, epperò certamente dettati dai tempi: tempi bui, di discordia, tempi di cuori freddi e di fedi tiepide, già predisposte a crollare al primo e  minimo moto.
Il rammarico principale cresce nel vedere gli sviluppi all’interno della Fraternità Sacerdotale San Pio X, nella quale posso dire di aver conosciuto la Tradizione, oltre che a un gran numero di santi sacerdoti pronti a spendersi per ogni anima incontrata nel percorso, come ad esempio la sottoscritta. Non sono ignoti a nessuno i clamori e i grandi rumors convogliati ancor più negli ultimi due mesi e nella dipartita di don Pierpaolo Petrucci.
Vorrei qui tornare per un attimo su tutta la questione, portata alla frustrazione dai fatti accaduti con l’ultimo articolo apparso sul sito della Fraternità, di cui già mi sono trovato a parlare – io come altri, ognuno con le proprie vedute – qualche giorno fa.
Ciò che rattrista in tutto questo, mi ripeto, è la mancanza di chiarezza e di trasparenza, più che nei contenuti di quanto scritto e da una parte e dall’altra. Mancanza che si nota sopratutto nei riguardi dei tanti bravi sacerdoti del Distretto italiano che, molto spesso, nemmeno sanno che risposte dare ai fedeli, certamente un po’ per prudenza, ma in alcuni casi anche per vera e propria mancanza di dati su cui basarsi.
Francamente la grande perplessità è quella di vedere un istituto che tanto ha dato alla Chiesa, tanto ha dato alle anime, ridottosi ora a questo stato di tensioni generali, apparentemente senza uscita e senza linea ben definita dai vertici stessi.
Se, come voci dicono da un pezzo per stesse ammissioni fatte all’interno di interviste o quant’altro, si vuole ottenere qualcosa sotto questo pontificato “perché vista l’imprevedibilità di Bergoglio è più facile ottenere qualcosa“, allora chi dice che qualcosa all’interno della Fraternità è cambiato ha ragione. Allora ha ragione Alessandro Gnocchi, sostenendo che così facendo la Fraternità stessa non diverrà tanto diversa da chi all'”interno” c’è da un pezzo, depauperando in definitiva così il ruolo che si pensava potesse avere in questi tempi ultimi.
Si osservi che questo non muterebbe la santità dei sacerdoti – anche quelli che rimanessero sotto il fatidico accordo -, non per questo sarebbero da considerarsi in qualsivoglia modo negativi. Chi va alla Messa della FSSPX oggi non avrebbe a mio avviso ragioni per non andarci un domani. Questo principio vale per ogni sacerdote, e non solo per quelli della Fraternità.
Il senso di appartenenza assoluta è la rovina, il rischio più grande per i fedeli i quali, in realtà, hanno come obbligo quello di salvaguardare la propria Fede integralmente cattolica e assolvere al precetto domenicale, non recandosi dunque ad un rito ambiguo e pericolo ma assistendo alla Messa di sempre. Le dispute interne riguardano tuttalpiù i sacerdoti e non i fedeli, ricordando a tal proposito quanto insegna ancora San Tommaso, ovverosia che “Dio non abbandona mai la sua Chiesa al punto da non poter trovare ministri sufficienti per le necessità del popolo” (S. Th., Suppl., q. 36, a. 4, ad 1), e questo pone tutti i prodromi per i quali la Messa di sempre non sia mai scomparsa del tutto, pur vivendo vari ostracismi e corrotti tentativi di soppressione.
Ma veniamo ora alle già menzionate perplessità che muovono l’animo di un giovane (e in generale credo di tanti fedeli), riguardanti un possibile ed imminente “accordo bilaterale” – l’uniteralità di un accordo non potendo esistere, tanto meno con Bergoglio – che offrirebbe una prelatura personale alla Fraternità. Aldilà della portata di questa possibilità che ora in tanti plaudono, l’aspetto più fastidioso è quello del “tirare Monsignore per la talare“, come ha giustamente affermato in questo bell’articolo Andrea Giacobazzi (http://www.riscossacristiana.it/tirare-monsignore-per-la-talare-di-andrea-giacobazzi/).
Niente che non sia già stato detto punto, ma qualche rafforzativo non fa mai male ad opporre un po’ di riflessioni a coloro i quali ora tacciano di “radiospadismo” estremo, gridano al tradimento e urlano “Giuda!” dai pulpiti dei loro scranni a chi tenta di mettere in guardia dal trappolone modernista, peraltro citando sempre e ripetutamente Monsignor Lefebvre.
“Lefebvre non ha mai smesso di andare a Roma, non ha mai smesso di incontrare il Papa o i Cardinali”. Questo il cavallo di battaglia di chi sostiene che un’intesa sia possibile: vero, verissimo, questo Monsignore lo ha sempre detto. Vero è però pure che, nonostante il Suo grande carisma che sempre lo ha spinto a dialogare con Roma, Egli abbia sempre ricevuto queste risposte alle lettere che spesso indirizzava:
“Lei sarà accolto, i suoi consigli accettati dalla curia e dal Santo Padre se Lei accetta tutto l’orientamento attuale della Chiesa. Sin quando Lei non accetta il Concilio e tutte le sue riforme, tutto l’orientamento dato da Roma, la riconciliazione è impossibile.”
Forse che qualcosa è cambiato, se non inteso verso il peggio? Forse c’è veramente qualcuno che potrebbe presumere della certezza di qualche cambiamento rispetto alla situazione di allora, sotto Paolo VI e sotto Giovanni Paolo II? Nient’affatto: solo uno sciocco potrebbe veramente pensarlo.
Poi c’è chi pesta il piede su “l’esperienza della Tradizione“, a cui Monsignore fa particolare riferimento in  “La Chiesa dopo il Concilio – Roma, 6 giugno 1977”. Parlando al Papa Lefebvre così si pronunciò: “[ in Francia ] C’è l’apostasia, l’apostasia generale; forse è lo stesso anche in Italia, non lo so. Io faccio una sola richiesta: lasciateci fare l’esperimento della tradizione.”
Ancora una volta nulla di più vero, ma in tutto questo c’è un piccolo particolare che forse qualcuno, nelle fretta di scrivere per tirare acqua al proprio mulino, omette.
Gli anni in cui Mons. Lefebvre chiedeva queste cose erano certamente anni terribili, di grande cambiamento e rivoluzione ecclesiastica ancor prima che sociale: cambiavano i sacramenti, cambiava la dottrina, cambiava la Messa. Tuttavia la tradizione non era andata già dimenticata in molte persone, in tanti fedeli come in tanti sacerdoti che avevano subìto un indecente attacco alla Fede, rimanendo però ben strutturati dalla formazione che era stata loro data nei seminari pre-conciliari, seppur già la macchina modernista avesse cominciato a stritolare le menti e le anime. Ecco perché l’ipotesi dell'”esperienza della tradizione” avrebbe potuto portare ancora frutti anche solo tramite la Messa di sempre, cosa che invece, oggi, andrebbe un attimo riformulata a causa del pragmatismo venutosi a formare in tanti buoni istituti, e a quanto pare anche nella Fraternità, o più precisamente nell’idea che qualcuno al suo interno ha di essa. Si vorrebbe ottenere un nulla osta ecclesiastico a rinnovare questa “esperienza” legata prettamente alla Liturgia, senza far caso alla disputa teologico-filosofica che si intramezza fra tradizione e modernismo.
Secondo questo criterio pragmatista, non si dovrebbe badare alla rivoluzione devastante ertasi nella Chiesa negli ultimi 40 anni (per prendere un tempo che si distanzi da quello in cui Monsignore chiedeva di poter fare “l’esperienza della tradizione”), sulla morale piuttosto che sulla filosofia, sulla dogmatica, sul diritto canonico, e potremmo avanzare all’infinito. Appare infatti che l’unica volontà sia quella di abbattere i cavilli che impediscono uno stato giuridico “regolare”, dopo del quale l’unica richiesta sarebbe quella di “liberalizzare” la Messa di sempre. Ovviamente non è mio intento (e spero quello di nessuno) sminuire la portata della Santa Messa, fulcro della spiritualità cattolica, ma ciò detto non si può nemmeno pensare di fare a meno di tutto ciò che spiega il Cattolicesimo. Ancora follia sarebbe congetturare di risolvere il problema che separa sideralmente la liturgia nuova da quella di sempre senza prima anteporre quello dottrinale teologico che separa la Chiesa dalla neo-chiesa, scaturito dai 16 documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II per i quali Bergoglio e tutti i predecessori hanno cantato con grande gaudio.
Questo arcano problema può essere scavalcato solo da chi inverte il principio di realtà con quello di convenienza, giuridica o canonica che sia, pregna dei propri soggettivismi. È, di fatto, la “veritas est adæquatio vitæ et intellectus“, in antitesi con il primato della “rei et intellectus” di tomistica e perciò retta misura.
Se le intenzioni non fossero legate a convenienza, allora ci sarebbe un ulteriore rischio legato al mutamento di pensiero, che in Monsignor Lefebvre non è mai cambiato poiché Egli ben conosceva i tempi ed i prospetti, seppur mai abbia smesso di sperare e pregare. Nel giorno in cui venne inaugurato il Priorato Madonna di Loreto a Rimini (7 luglio 1984) non esitò a definire gli attuali tempi come tempi di “dissacrazione e distruzione della Chiesa“; che – repetita juvant – qualcosa è cambiato? D’altronde, come sempre diceva il fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, “se la nostra situazione sembra anormale, è perché coloro che oggi hanno l’autorità nella Chiesa bruciano ciò che adoravano un tempo, e adorano ciò che un tempo era bruciato.”
Eppure questa idea di “fare esperienza” all’interno di un contesto in cui la Tradizione è odiata sarebbe come pensare di camminare continuamente con uno zoppo pretendendo di non prendere mai il suo passo, il che rientra nei grandi rischi di cui è detto “nemo repente fit pessimus“. 
Non occorre ribadire quale fine abbia fatto chi ha deciso di scendere a compromessi, di dialogare con Roma nel tentativo di far rifiorire la Tradizione “dall’interno”: i risultati si sentono da tutti quelli che sono finiti a parlare di grandi progetti, ma attuabili solo credendo nella “riforma della riforma” di ratzingeriana specie.
Giustamente vi è chi ricorda volentieri l’esempio di Antioco Epifane, potenziale corruttore della Rivelazione e del Culto Divino vetero-testamentario, che si trovò però a dover fare i conti con i sette fratelli Maccabei che impugnarono le armi e lottarono per la difesa della Fede, senza compromessi o smancerie con chi è nemico all’integrità di essa, preferendo di morire martiri piuttosto che cedere.
Difficile è sapere quel che sarà prima che sia, e per questo attendiamo di vedere. La perplessità però si palesa dal momento che sembra vacillare quella certezza e quella fermezza che sempre hanno rappresentato un Istituto a cui certamente tutti dobbiamo tanto. Proprio per questo allora è opportuno serrare le fila per non cedere al rischio, come mi diceva un buon sacerdote, di baciare la mano al “padrino” pensando di avere un’offerta di protezione, senza al contempo rendersi conto di essere entrati a far parte di un’associazione da cui non si può più uscire, se non morti.
Un vecchio Vescovo di Campos aveva a dire ciò che sento di far mio con tutto il cuore in questo particolare momento di generale insicurezza, anche per rendere testimonianza tangibile ai contestatori di questo pensiero, confermando che esso non è votato ad un anarchico senso di protesta fine a se stesso, quanto invece all’amore per la Chiesa e quindi alla Verità tutta intera:
“Non c’è nessuna opposizione fra noi e la Roma degli Apostoli. Basterebbe che le autorità della Chiesa si riconcilino con la Tradizione infallibile di Roma, che condannino le deviazioni del Concilio Vaticano II e le follie del cosiddetto ‘spirito del Concilio’ e la riconciliazione sarà automatica.”
di  il Nessun commento

1 commento:

  1. Lefebvre è morto scomunicato quindi l'eredità di Lefebvre è mantenere il distacco da Roma. Questo è il sillogismo "fattuale" da applicare alla S.Pio X secondo i dettami sedevacantisti. Chiunque osi affermare il contrario compie un'operazione illecita.

    Che siano i dettami sedevacantisti a porre certe condizioni è rivendicato nell'articolo citato , secondo cui il Monsignore avrebbe dato credito più volte a questa linea, altra cosa mai dimostrata. Se vi sono stati contatti con esponenti del sedevacantismo va detto che questi non hanno mai segnato davvero la rotta scelta dalla Fraternità, per il semplice motivo che non hanno mai rispecchiato la linea del fondatore. Tante volte Lefebvre ha avuto la possibilità di ampliare il solco con Roma dopo la rottura iniziale, ma ha rifiutato. Le indicazioni di De Castro Mayer non sono state recepite formalmente nemmeno all'epoca (hanno solo dato vita all'ennesimo filone autonomo).
    Non l'hanno costituita nemmeno in epoca recente , quando il paladino dei sedevacantisti è diventato per un certo tempo Mons. Williamson (fin quando poi
    egli stesso non ha preso le distanze).

    Evidentemente il tentativo di ipotecare e di mettere cappello a una sana resistenza cattolica a certe derive postconciliari fa data almeno al 1970 come ricordato Pucci Cipriani.

    L'avvicinamento (di fatto ma mai dichiarato) di esponenti critici della stagione post conciliare come A.Gnocchi con la variopinta galassia sedevacantista è un fatto ancora più recente.

    Sull'onda della "revolussione" bergogliana è nata infatti la tentazione speculare da parte del mondo cattolico "non addomesticato" di buttare dentro al pastone editoriale anche l'ambiguo concetto di "neochiesa". Concetto mai definito nel suo fine ultimo , perchè per un cattolico non può esistere un'altra chiesa. (Il sedevacantismo risolve la questione dicendo che la "neochiesa" NON è la chiesa di Cristo, però poi non spiega che fine abbia fatto per oltre mezzo secolo, con preti non validi , sacramenti non validi ecc.)





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