IN ATTESA DELL'ALBA
Qualcuno deve vegliare in questa lunga notte per dare la mano ai figli del mattino. Cavalcare la tigre con Julius Evola? Sono i valori umani del Cristianesimo che salveranno il mondo e che danno speranza per il futuro
di Francesco Lamendola
Nella lunga notte che stiamo vivendo, in cui valori, certezze, identità, tutto sembra che si stia dissolvendo sotto i nostri occhi, è necessario che alcuni, anche pochi, anche pochissimi, rimangano ben desti e tengano accesa la fiaccola, fino allo spuntare del nuovo giorno, quando, con la luce, verranno i figli di un nuovo ciclo storico, di una nuova civiltà, e possano avvalersi dei semi incorrotti della Tradizione, senza i quali non potranno che costruire un mondo nuovo, sì, ma senz’anima, destinato a una vita ancor più breve e disordinata dell’attuale.
D’altra parte, la tentazione più forte in cui si può cadere è quella di sopravvalutare l’irresistibilità e la durevolezza di quelle forze che, ora, paiono trionfanti; di quelle tendenze, di quella psicologia, di quella cultura, di quei modi di vita che dettano le regole e la fanno da padroni, relegando ai margini coloro i quali non si adeguano, e perseguitandoli anche negli angoli ove si sono rifugiati, paghi di starsene in disparte. Non bisogna pensare, infatti, che tali forze siano così forti come appaiono, né che imporranno a lungo i loro valori, o piuttosto contro-valori: perché si tratta di forze effimere, che della vera forza hanno solo l’apparenza.
La vera forza è sempre di natura spirituale: se lo spirito è forte, anche la carne lo sarà;
se una grande idea, o un grande ideale, o dei grandi ideali, infiammano una persona, o un gruppo, o una società, difficilmente troveranno chi sappia resistere loro, a meno che quella persona, quel gruppo o quella società non commettano una serie di errori madornali, o a meno che si lascino contagiare anch’essi dal desiderio dell’utile, di ciò che è comodo, di ciò che è facile.
se una grande idea, o un grande ideale, o dei grandi ideali, infiammano una persona, o un gruppo, o una società, difficilmente troveranno chi sappia resistere loro, a meno che quella persona, quel gruppo o quella società non commettano una serie di errori madornali, o a meno che si lascino contagiare anch’essi dal desiderio dell’utile, di ciò che è comodo, di ciò che è facile.
Ogni grande idea richiede grandi sacrifici; ogni autentico valore richiede molto lavoro perché possa realizzarsi. Chi cerca la comodità e la facilità non costruirà mai nulla di durevole, nulla di solido: costruirà, forse, qualche cosa di appariscente, ma senza basi robuste e soggetto, perciò, a crollare alla prima raffica di vento. Una civiltà puramente materialista, per quanto possa essere sofisticata dal punto di vista tecnologico, non è destinata a durare a lungo; in effetti non si tratta neanche di una vera civiltà, ma di una contro-civiltà, di una anti-civiltà, in quanto la civiltà è sempre civiltà di valori, di idee, di spirito, e una civiltà fondata sul denaro, sul benessere, sulle comodità, non è realmente tale, ma piuttosto una forma di barbarie più o meno tecnologica, più o meno raffinata.
Si pone allora il problema del che fare, del come sopravvivere, di come organizzare la propria vita e di dove attingere un orizzonte di speranza nel futuro, se non per se stessi, almeno per i propri figli o i propri nipoti. Noi viviamo comunque qui e ora; e il sapere che la contro-civiltà in cui viviamo non durerà ancora a lungo, non ci è di conforto sul piano pratico: la durata di vita di una civiltà è comunque enormemente maggiore di quella delle singole generazioni.
Queste domande se le era poste anche Julius Evola, un pensatore sommamente scomodo e frettolosamente liquidato dalla cultura dominante come un “fascista” o peggio, un “nazista”. Ora, pur rimarcando una decisiva distanza fra la sua concezione di fondo – neopagana, supero mista, e, in qualche misura, razzista – e la nostra, resta il fatto che la sua diagnosi di fondo sulla crisi della civiltà moderna è sostanzialmente condivisibile, e che anche taluni aspetti della parte propositiva della sua concezione, come quello di “cavalcare la tigre”, possono presentare, se opportunamente filtrati e depurati da certo determinismo storicista e da certa zavorra pseudo yoga (come il “tao della potenza”, niente di meno: che è un autentico ossimoro), spunti validi o comunque interessanti, e suscettibili di ulteriori riflessioni e sviluppi.
Nel suo ormai classico Cavalcare la tigre, Evola, dunque, scriveva (Milano, Scheiwiller, 1961, 1973, pp. 9-17 passim):
[…] una civiltà o società è “tradizionale” quando è retta da principi trascendenti ciò che è soltanto umano e individuale, quando ogni suo dominio è formato e ordinato dall’alto e verso l’alto. […]
Tutti ciò che è venuto a predominare nel mondo moderno rappresenta l’antitesi precisa di ogni topo tradizionale di civiltà. E le circostanze stanno a mostrarci in modo sempre più evidente che partendo dai valori della Tradizione (ammesso anche che qualcuno sappia ancora riconoscerli e assumerli) è estremamente improbabile che si possa provocare una qualche modificazione di rilievo nello stato attuale generale delle cose attraverso azioni o reazioni efficaci di un certo raggio. Dopo gli ultimi sconvolgimenti mondiali, a tanto oggi sembra mancare ogni punto di presa sia nelle nazioni che nella stragrande maggioranza degli individui, sia nelle istituzioni e nelle condizioni generali della società che nelle idee, negli interessi e nelle forze predominanti dell’epoca.
Purtuttavia esistono alcuni uomini che sono per così dire in piedi fra le rovine e fra la dissoluzione, i quali, più o meno consapevolmente, è a quell’altro mondo che appartengono. […]
È bene recidere ogni legame con tutto ciò che, a più o meno breve scadenza, è destinato a finire. Il problema sarà, allora, di mantenere una direzione essenziale senza appoggiarsi a nessuna forma data o tramandata, includendo in essa anche forme autenticamente tradizionali, ma storiche, del passato. A tale riguardo la continuità non potrà essere mantenuta che su di un piano, per così dire, essenziale, appunto come un intimo orientamento dell’essere, presso alla massima libertà esterna. […]
Per il resto, data l’impossibilità di agire positivamente nel senso di un ritorno reale e generale al sistema normale, tradizionale, data l’impossibilità di formare ORGANICAMENTE e unitariamente tutta la propria essenza nel clima della società, della cultura e del costume moderni, resta da vedere in che termini si possano accettare in pieno situazioni di dissoluzione senza esserne toccati interiormente. […]
Il significato della crisi e delle dissoluzioni oggi da tanti deprecate, deve essere precisato indicando l’oggetto reale e diretto dei processi distruttivi: la civiltà e la società borghese. Misurate coi valori tradizionali, queste hanno però già avuto il senso di una prima negazione di un mondo a loro anteriore e superiore. Ne segue che la crisi del mondo moderno potrebbe eventualmente rappresentare hegelianamente, una “negazione della negazione”, epperò significare, per un lato, un fenomeno a suo modo positivo. L’alternativa è che questa “negazione della negazione” sbocchi nel nulla – nel nulla che prorompe da forme molteplici del caos, della dispersione, della ribellione e della “contestazione” caratterizzanti non poche correnti delle ultime generazioni, o in quell’altro nulla che mal si cela dietro il sistema organizzato della civiltà materiale – ovvero che essa, per gli uomini qui in discorso [cioè “tradizionalisti”], crei un nuovo spazio libero, il quale potrebbe eventualmente essere la premessa per una successiva azione formatrice. […]
[…] quando un ciclo di civiltà volge alla fine, è difficile poter giungere a qualcosa resistendo, contrastando direttamente le forze in moto. La corrente è troppo forte, si sarebbe travolti. L’essenziale è di non lasciarsi impressionare dall’onnipotenza e dal trionfo apparente delle forze dell’epoca. Tali forze, per essere prive di connessione con qualsiasi principio superiore, hanno, in fondo, la catena misurata. Non bisogna dunque fissarsi al presente, ma aver anche di vista le condizioni che potranno delinearsi in un tempo futuro. […]
Secondo una immagine dell’Hofmannsthal la soluzione positiva sarebbe quella dell’incontro fra coloro che hanno saputo vegliare durante la lunga notte e coloro che forse appariranno nel nuovo mattino. Ma questo esito non lo si può tenere per certo: non si può assolutamente prevedere in che modo e su quale piano potrà aversi una certa continuità fra il ciclo che volge al termine e quello successivo.
Per Evola, la civiltà che sta oggi vivendo la sua decadenza è, essenzialmente, la civiltà borghese: quella civiltà mercantile, materialista, utilitarista, che si è pienamente affermata dopo la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese, e che domina ora da protagonista in tutti e cinque i continenti, coinvolgendo l’intera umanità nei suoi sviluppi sempre più nichilisti e auto-distruttivi. Nella concezione ciclica del tempo che caratterizza questo filosofo (concezione che è tipica degli etruschi, dei greci, degli antichi indiani, e quindi prettamente neopagana), la “tradizione” che è stata spezzata dal sorgere della civiltà borghese non è, tuttavia, quella cristiana medievale, quanto quella antica, classica, greca e romana; secondo lui, infatti, vi è un eterno ricorrere della civiltà tradizionale, sotto spoglie diverse nel corso dei secoli, ma accomunate dallo stesso motivo di fondo: l’impostazione verticale e la tensione verso l’alto.
Questo giudizio non può trovarci d’accordo. Anche se è vero che la civiltà moderna è essenzialmente quella borghese – dei cui aspetti economici e tecnologici Evola poco si interessa, considerandoli solamente epifenomeni dello spirito: errore speculare ed opposto rispetto a quello del marxismo, e che tradisce la comune origine idealista ed hegeliana di entrambi i sistemi, quello spiritualista e quello materialista – ed è vero, quindi, che vano sarebbe lottare contro la degenerazione moderna, senza averne prima riconosciuto le radici borghesi, dissentiamo dalla concezione ciclica e nietzschiana dell’eterno ritorno, perché riconosciamo la verità e l’irreversibilità della nuova concezione della storia introdotta dal cristianesimo: quella di uno sviluppo lineare, con un principio e una (più o meno prossima) fine, non già dominato dalle cieche forze del destino, ma caratterizzato dalla libertà umana, che, pur non essendo libertà assoluta, nondimeno è sufficiente ad imprimere svolte non “necessarie” ai processi storici.
Di conseguenza, anche il concetto di “cavalcare la tigre”, come lo espone Evola, ci lascia piuttosto perplessi. Si tenta di cavalcare la tigre in attesa che la belva (della modernità) si stanchi e che, a quel punto, sia possibile domarla, o perfino ucciderla; intanto, però, bisogna assecondarla, perché, quando essa è nel pieno delle sue forze, sarebbe impossibile affrontarla a viso aperto. Ebbene, questa strategia è comprensibile nel contesto di una filosofia sostanzialmente deterministica, come lo è lo storicismo paganeggiante di Evola, dominato dai cicli perenni di una storia chiusa in se stessa, ed eternamente prigioniera del tempo. La concezione cristiana, invece – che, a nostro avviso, è la sola suscettibile di aprire un orizzonte di speranza in questa nostra epoca di tenebre - ritiene che vi siano sempre spazi di manovra e di libertà per il singolo, perfino all’interno di una civiltà che sembra negare i suoi valori più importanti: vuoi come rifugio nella propria interiorità, e, al limite, in uno spazio separato anche in senso fisico (eremi, conventi, luoghi marginali), vuoi come capacità di vivere i valori autenticamente umani in contrasto con le forze dominanti; certo, mettendo in conto anche la possibilità di affrontare i più grandi sacrifici, e perfino, se necessario, il sacrificio della vita, per testimoniarli apertamente. Il pagano Evola non vede altro aiuto, al quale affidarsi, che l’intelligenza e la volontà dell’individuo eccezionale, che ha saputo tenersi puro e incontaminato dalla barbarie dei tempi: significativa contraddizione nel contesto di una filosofia che ha proclamato la perennità e la vitalità indistruttibile della tradizione, e che ha individuato nell’ordinamento “dall’alto e verso l’alto” il tratto distintivo delle società tradizionali Tale orientamento verticale, dunque, a nulla servirebbe, allorché gli uomini hanno bisogno di aiuto? Quanto a noi, pensiamo che la vera Tradizione sia, sempre, di origine soprannaturale; e che essa discenda dall’azione di Dio nella storia, culminata nel mistero dell’Incarnazione e proseguita con la diffusione dello Spirito Santo, che continua ogni giorno, sotto le specie dei Sacramenti. In tal modo, per il cristiano, l’uomo non è mai abbandonato alla violenza delle forze cieche della storia; e quel che può fare, quando esse appaiono più avverse alla instaurazione del regno di Dio, non è “cavalcare la tigre”, ma vivere e annunciare apertamente, con la parola e l’azione, il modello alternativo rappresentato dal Vangelo. È chiaro che ciò non assicura, di per sé, un risultato efficace che sia anche immediato: il sangue dei martiri e la stessa azione redentrice di Cristo fruttificano sui tempi lunghi. Ma non ha ammesso, anche Evola, che non si può sperare di contrastare e vincere in tempi brevi la forza d’inerzia d’una civiltà materialistica, per quanto in piena decadenza? È scontato che i risultati verranno dopo: Serit arbores, quae alteri saeclo prosint: (gli anziani) piantano alberi, che gioveranno in un altro tempo...
Qualcuno deve vegliare in questa lunga notte per dare la mano ai figli del mattino
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