ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 28 febbraio 2017

Una società di disperati

DJ FABO – I COMMESSI VIAGGIATORI DELLA MORTE                                                di Roberto PECCHIOLI

Ai tempi in cui esisteva la religione, c’era la Compagnia della Buona Morte, il cui compito era assistere i morenti, accompagnarli con la preghiera, la presenza e l’aiuto concreto nell’ora del trapasso. Oggi, abolita l’immagine della Fredda Sorella, abbiamo dei nuovi missionari, anzi, laicamente, i commessi viaggiatori della morte. La loro congregazione deriva dal Partito Radicale, l’esponente più in vista è Andrea Cappato, colui che ha accompagnato in Svizzera per l’ultimo viaggio il povero DJ Fabo. Diciottomila euro, pare, per morire in un ambiente sterilizzato e batteriologicamente puro, con un veleno da pochi euro. Di fronte al mistero della morte, credenti o atei, dovremmo osservare un silenzio rispettoso, e chinare il capo dinanzi al Mistero. Al contrario, la morte del giovane Fabrizio Antoniani, ex disc jockey divenuto cieco e tetraplegico a seguito di un incidente, è stata accompagnata dal baccano sguaiato di cui il mondo radicale, emulo di Marco Pannella, circonda le sue battaglie.





























Non vi è nulla di più terribile che prendere posizione di fronte alla vita altrui, allo strazio ed alla sofferenza. Non è questione di dire sì o no ad una pratica, quella della morte assistita, che attiene a quanto di più profondo ed indicibile esiste nel cuore umano. Invece, ancora una volta, urla scomposte, prese di posizione gridate, intransigenti.
Ciascuno di noi spera di non trovarsi mai nella condizione di quel giovane di 39 anni, né di vedervi uno dei suoi cari. Quel che disturba ed indigna, una volta di più, è il cinismo rivoltante di chi, dinanzi alla tragedia di una vita, conduce senza vergogna le sue battaglie. Il caso di Fabo è stato portato all’attenzione del pubblico solo in quanto si discute, in parlamento e nella coscienza nazionale, di cose terribili come il testamento biologico, l’eutanasia e tutto ciò che viene chiamato “fine vita”.
Anzi no, non se ne può discutere: quelli del progresso e della civiltà conoscono già ogni risposta, hanno rimosso o escluso qualunque obiezione. Morire è un diritto. Credevamo che fosse una tragedia, e che la risposta, tremante e racchiusa nella speranza, fosse eventualmente il senso religioso. Oppure, la titanica accettazione del destino di chi sa di essere creatura. Non più. Adesso crediamo di sapere quando e se una vita valga la pena di essere vissuta, quindi conservata o cancellata. Abbiamo rovesciato, nella civilizzazione invertita di cui siamo testimoni, perfino il senso della medicina e della cura. Il giuramento di Ippocrate impone(va) di curare, alleviare il dolore, mantenere in vita sin quando possibile. La post modernità la pensa in maniera opposta: la vita può essere soppressa al suo sbocciare, l’aborto è divenuto un diritto della donna, sua è quell’escrescenza, il grumo destinato a diventare un uomo o una donna. Va estirpato a semplice richiesta ed a carico della sanità pubblica.
Ancora più facile è uccidere (non temiamo il significato delle parole) i malati, gli invalidi, i deboli. Qui sta il caso drammatico di Fabrizio Antoniani, lo scarto logico ed il salto ideologico compiuto da chi propaganda la Morte. Fabrizio non era un malato terminale, o qualcuno ridotto a vita vegetativa. Era un invalido grave, uno che la sfortuna o il caso avevano inchiodato ad una vita difficilissima. Non siamo davanti ad un caso di eutanasia, qualunque giudizio possiamo dare di questa pratica, ma di soppressione della vita. Non stupisce il chiasso mediatico, quasi unanimemente schierato dalla parte del bizzarro diritto alla morte. Colpisce, spezza il cuore una società che straparla ogni giorno di solidarietà e che reagisce dinanzi all’irrimediabile in due soli modi. Il primo è la negazione: il Male, la Morte non devono essere alla vista, vanno affidati ad appositi operatori, gli esperti, la postmoderna Compagnia della Buona Morte. L’altro è quello dell’intervento diretto, la soppressione delle vite ritenute indegne. Domani saranno quelle inutili, o improduttive, o quelle di chi ha idee “cattive”. E’ una china terribile, che dall’eutanasia passa al suicidio assistito e conduce all’eugenetica e al transumanesimo.
Fino a pochi anni fa, almeno una voce si levava a favore della vita, o almeno ad esprimere pietà, speranza ed umana comprensione: era quella della Chiesa, per la quale valeva il principio che la vita va difesa sempre, dal grembo materno alla sua naturale conclusione. Ora, tutto quello che sa esprimere una sapienza che viene dai millenni è la conclusione di Famiglia Cristiana sul caso del povero Fabo: perdonaci per non aver saputo darti ragioni per vivere. Un po’ poco davvero, per tutti coloro che soffrono, la reazione rassegnata di chi ha perso la partita e non vuole neppure più giocarla.
Più coerente, lo spirito del tempo canta vittoria. Dagli anni 70 in Svezia si misero al lavoro per rendere indipendenti gli esseri umani: i figli dai padri e viceversa, gli uomini dalle donne, gli sposi dal loro stesso amore. Il risultato è quello di un disinfettato obitorio a cielo aperto, in cui i più vivono e muoiono da soli, lasciando sul tavolo i soldi per le spese. E’ l’esito naturale della società individualista, in cui l’unico amore è Io, finché dura ed è forte.  Il disgraziato Fabrizio aveva una compagna (una moglie no, troppo impegnativo, o definitivo, o burocratico), che ne ha condiviso la scelta. Povera donna anche lei, condoglianze dal cuore, ma siamo convinti che se amava davvero il suo uomo stia piangendo perché non c’è più, e non sia invece sollevata per essersi tolta un peso. Se amiamo qualcuno, vogliamo sempre, disperatamente, anche contro ogni evidenza, che viva, che sia lì. Volere il contrario è contro natura, anche se capita, davanti alla tragicità della vita. Ecco, questo probabilmente è andato perduto per sempre da noi, il sentimento tragico della vita di cui scrisse Miguel de Umanumo e di cui la storia spirituale dell’uomo è il controcanto.
Tutto cancellato. Le leggi sull’eutanasia e sulla morte assistita già in vigore in diversi paesi dell’Occidente più disperato che sazio hanno dimostrato che dopo un iniziale scarsità di casi, aumenta la richiesta. Sì, perché curare è durissimo, soffrire, in prima persona o accanto ad un familiare lo è ancora di più, lo Stato, le assicurazioni contro le malattie premono, con la calcolatrice in mano. Il denaro, Dio di Tutto e del Nulla, comanda e dirige, ordina, campagne di stampa che convincono i più che se non si vive al massimo, la morte è la soluzione. Vado al massimo, canta Vasco Rossi, voglio una vita spericolata e piena di guai. Quelli arrivano senza chiamarli, ma possibile che la soluzione sia la morte? Sì, se siamo immersi in una società dove tutto è partita doppia, dare ed avere, calcolo. Chi trascina la vita da solo, sia pure tra piaceri e successi, non potrà che spegnersi da solo, e basterà una malattia meno severa di quella toccata a DJ Fabo per trascinarci nella depressione, anticamera del desiderio di morte.
Fu Sigmund Freud, gran sacerdote del nostro tempo, maestro del sospetto, a riprendere e dare una vernice scientifica al mito greco di Amore e Morte, Eros e Thanatos, l’eccesso di pulsione che si trasforma in ansia di morte. Vivere costa, e costa amare, avere cura “nonostante”. E’ difficile e scagli la prima pietra chi è certo che saprebbe reggere in drammi simili a quello da cui prende spunto la presente riflessione. Ma come non si vive a cuore leggero, non si può, non si deve morire o dare la morte con altrettanta leggerezza. Si vergognino quanti disprezzano i dubbi e le lacerazioni su temi tanto sensibili, affidando la soluzione alla freddezza dei codici ed alle possibilità della tecnologia. Massimo Fini scrisse una volta che morire è facile, tanto è vero che ci riescono tutti. Anche uccidere è facile, purtroppo, e la storia dell’umanità è lì a dimostrarlo. Uccidere al riparo delle leggi, però, è davvero troppo, specie se le creature da sopprimere sono fragili, sole, disperate.
Le forzature imposte dalla prassi dei necrofori radicali, poi, sono davvero odiose. Non si può decidere di cose enormi, come la vita o la morte, le cure o la loro interruzione, sull’onda emotiva di casi pietosi. Ricordiamo il caso Welby e quello di Eluana Englaro. L’individualismo estremista, unito con i corposi interessi di troppi soggetti forti (assicurazioni, fondi pensione, Big Pharma e simili) diventa l’ultimo urlo di una civiltà che odia talmente se stessa da farsi propagandista della Morte.
Padroni di se stessi, signori della scienza, della volontà di potenza e della dismisura, ci siamo ridotti a signori di quel pauroso Nulla che è la morte senza la speranza, senza la trascendenza, senza quel Dio a cui abbiamo asportato la D.
Un credente prega per l’anima dello sfortunato Fabrizio Antoniani. Un ateo china la testa dinanzi al totalmente Altro. Ma l’addio alla vita di un giovane non è, non può essere lo scatenamento bestiale di un’ideologia di dominio sulla vita e della vita, o una convulsione in più di un mondo in frantumi, che non riusciamo a definire altro che morgue society, l’obitorio più lindo della storia.
 Roberto PECCHIOLI

Le Iene, l’Unar e l’inferno gaio 

di Elisabetta Frezza

Ci voleva una guerra intestina tra fazioni di sodomiti praticanti per scoperchiare la gigantesca cloaca, rimpinzata di finanziamenti statali (ovvero di soldi di noi contribuenti), davanti agli occhi del grande pubblico da prima serata. Quello che, ammaestrato a suon di fiction, Sanremi e speciali della Bignardi, era stato convinto a pensare che alle unioni contronatura fosse estensibile d’ufficio il cliché del mulinobianco, visto che love is love e non si discute. Il verbo obamiano, nonostante il vento in America abbia cambiato direzione, in Italia ha la fortuna di contare su testimonial di spessore, come Vendola, la Cirinnà, monsignor Mogavero e tanti altri personaggi e interpreti della laetitia dell’amore omosessuale.
Improvvisamente, e inaspettatamente, è apparsa in TV la vera faccia – e la vera ragione sociale – delle omo-associazioni militanti che – dietro il paravento della promozione della cultura del rispetto e della lotta alle discriminazioni – di fatto promuovono prostituzione, orge gaychem-sex, serate naked, con l’edificante contorno di dark roomglory holecruising bar, labirinti e sling room, saune promiscue e sale massaggi, battuage e perversioni limitrofe, tutte regolarmente condite con cocaina, popper, MDMA, crack, cloruro di etile (ghiaccio spray) e droghe assortite. In un dionisismo sfrenato, alienante e necrofilo.
clicca sull’immagine per ascoltare l’intervista delle Iene

Necrofilo al punto che, nell’abisso della depravazione, si gioca letteralmente con la morte. Come riporta (vedi sotto) un pezzo del Corriere della Sera di sabato 25 febbraio – persino dalle parti della stampa libertaria si scandalizzano, e lo scandalo sommo per loro, guarda un po’, è il sesso non protetto – i frequentatori di questi ambienti cercano il bareback, in gergo bb, sesso praticato alla cieca con soggetti sieropositivi, detti poz, come dentro una roulette russa a effetto differito. Lo stordimento da stupefacenti fa da “facilitatore” delle pratiche più sordide e masochiste. Clicca sulle immagini per ingrandirle.


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Tra loro gli adepti si rintracciano attraverso Grind, Hornet e Scruff, applicazioni da installare sul telefonino per procacciarsi rapporti di gruppo e prestazioni collaterali tra soli maschi, e comunicano con un idioma in codice fatto di inglesismi, francesismi, acronimi, emoticon.
Che il rischio di infezione venga volutamente inseguito, nel vortice buio della bulimia sessuale, mostra tutta la patologia fisica, psichica, morale, di cui questo mondo è intriso. Al fondo, aleggia una voluttà di morte non soltanto simbolica.
Ne riparla lunedì 27 lo stesso Corriere (vedi sotto) e, nel goffo tentativo di smussare l’impatto dirompente dell’inchiesta di due giorni prima, affida allo psico-sessuologo Gaetano Gambino la spiegazione del perché i frequentatori di questi luoghi di omoerotismo promiscuo accettino di ammalarsi sfidando la sorte con incontri non protetti. Nella stessa pagina tale Stefano Taralli, cofondatore di PLUS, associazione omosessuale di sieropositivi, parla di come bloccare la “pandemia”. Proprio così, il Corriere se lo lascia scappare per interposta persona: c’è una pandemia, e questa pandemia viene alimentata dallo Stato, che la sovvenziona con le sue casse e la promuove tra la sua gioventù. Clicca sull’immagine per ingrandirla.
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Il 19 febbraio 2017, come sappiamo, il servizio delle Iene a cura di Filippo Roma fa esplodere il caso UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, operante nell’ambito del Dipartimento Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri) e fa – letteralmente – scappare a gambette levate davanti alle telecamere il direttore dell’Ufficio Francesco Spano, di lì a poco costretto alle dimissioni dalla sua superiora Maria Elena Boschi.
Nel registro delle associazioni accreditate presso l’ente, e beneficiarie di cospicui finanziamenti pubblici, spuntano infatti sigle di circoli dediti alle suddette attività ricreative, di cui lo stesso Spano risulta essere cultore tesserato. Interessante il dettaglio che Spano abbia frequentato università cattoliche e facoltà teologiche, sia reduce da studi di diritto canonico e diritto ecclesiastico, con specializzazioni in liturgia e sacramenti. Insomma, il fuggitivo in redingote arancione si rivela un vero pozzo di scienza religiosa.
D’altra parte, ricordiamolo, chi ha dato decisivo impulso alle attività dell’UNAR con la Strategia Nazionale LGBT è stata Elsa Fornero sotto la guida del cattolicissimo Mario Monti, intorno al quale gravitavano le sigle dell’associazionismo paracattolico, da CL a Sant’Egidio, col sostegno dei vescovi suggellato a Todi. Non per nulla, sorpresa sorpresa, la prima nella lista delle beneficiarie di fondi pubblici a mezzo UNAR (vedi sotto) è proprio la Comunità di Andrea Riccardi, fu ministro della cooperazione internazionale del governo Monti. E tutto si tiene.
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Le Iene dunque mettono sotto i riflettori il bando datato 4 novembre 2016, che assegna complessivi 999.274 euro (sotto il tetto del milione per non far scattare oneri fiscali) a soggetti come Anddos, Arcigay, Arcigay Roma, Lista Lesbica italiana e via dicendo.
L’Anddos, in particolare – che sta per Associazione Nazionale contro le Discriminazioni Da Orientamento Sessuale – riceve oltre 55mila euro di denaro pubblico per la “promozione di azioni positive”. La positività è, beninteso, in re ipsa. Come si legge infatti nel sito della associazione: «I circoli Anddos sono luoghi sicuri, pensati per il tuo benessere, dove potrai condividere esperienze, trovare accoglienza, manifestare appieno la tua sessualità». Nei modi sopra illustrati.
Bastano pochi minuti di video per scalfire, nell’immaginario collettivo, la calotta coriacea che era stata eretta attorno a un mondo disperato, fatto di abbrutimento e perversione, ma accuratamente blindato dalle belle parole delle belle persone, e reso intoccabile dalla propaganda a senso unico. Lo schifo organolettico riesce finalmente ad aprire gli occhi a qualcuno e a re-innescare, in questo qualcuno, la facoltà di ragionamento.
Infatti l’Anddos – l’associazione scissionista dell’Arcigay oggetto diretto dell’inchiesta delle Iene – oltre a organizzare serate fisting nei suoi locali, prepara anche, al contempo, corsi di educazione sessuale per le scuole sotto l’ombrello del MIUR. E altri edificanti progetti.
Come si legge al riguardo su “Il Giornale” (clicca qui): «basta guardare ad una delle ultime iniziative lanciate sul sito dell’Anddos, dal titolo accattivante “Parlami d’Amore”. Il 16 dicembre scorso si è svolto un incontro “nell’ambito del progetto Sessualità e Differenze” con l’obiettivo di produrre una “nuova proposta sull’educazione sessuale e di genere nelle scuole”. Cosa significa? Basta andare sul sito: “Sessualità e differenze” promuove il “monitoraggio delle infezioni sessualmente trasmesse”, vorrebbe la distribuzione di preservativi nelle classi scolastiche, chiede “nuovi incentivi per le cattedre universitarie sugli studi di genere” e sponsorizza libri scolastici con “una lingua sessuata che riconosca le professioni al femminile”. Per la gioia della Boldrini». E delle sue compagne.
Tra queste, l’inossidabile Boschi, sempre più a galla nel suo vuoto a perdere marchiato Etruria, non manca mai di sponsorizzare il mondo arcobaleno, che è perennemente in cima ai suoi pensieri, parole, opere e omissioni. Nell’estate del 2016, da ministra, snobbando ogni altro impegno istituzionale, la futura sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio (da cui l’UNAR dipende) si materializzava a Padova come baldanzosa madrina del Pride Village (clicca qui). Indossava per l’occasione una maglietta dal pregnante aforisma (copyright Alda Merini) «chi ama è genio dell’amore» e si faceva fotografare con gli organizzatori della manifestazione, che ricambiavano vestendo la stampa «stesso amore stessi diritti» (che, tradotto, significa: dateci uteri da affittare, ne abbiamo il diritto), frequentatori di locali esclusivi della zona come il “Brief Encounter”, il “Tropicana Club”, il “Block”, il “Flexo videobar”.
Il giro, o girone, è sempre lo stesso, quello apparso d’improvviso alle Iene.
Il reclutamento della clientela avviene nel vivaio delle scuole di ogni ordine e grado.
Oltre ai corsi di educazione alla sessualità ed affettività organizzati per le scuole inferiori, per le scuole superiori il MIUR e l’UNAR promuovono la visione di film di amore omosessuale, associati a dibattiti con cultori della materia e a lezioni sul tema guidate da kit didattici, sempre sotto l’etichetta del contrasto alle discriminazioni, dell’educazione alla cittadinanza, all’inclusione sociale, al rispetto.
Così è per la tournée della pellicola di Ivan Cotroneo “Un bacio”, che ha battuto in lungo e in largo l’intera penisola, oppure per “Nè Giulietta nè Romeo” di Veronica Pivetti (clicca qui), che – come si legge nella scheda di Cinemagay – si presenta apertis verbis come «un manifesto LGBT, cioè una storia che affronta praticamente tutte le tematiche gay d’attualità nel nostro Paese», e infatti contiene tutti i tòpoi della propaganda omosessualista. Nella stessa scheda si legge ad esempio: «Molto eloquente la scena di quando Rocco viene aggredito dal tipo sotto la doccia, che diventa quasi un amplesso (a ricordarci che spesso gli omofobi sono solo dei gay repressi)»; o ancora: «Esilarante la scenetta di quando la madre lo trova che sta facendo sesso con uno sconosciuto e lui avrà la determinatezza di spiegarle che nel mondo gay funziona così, cioè prima si scopa poi ci si conosce». Appunto: prima si scopa poi ci si conosce. A conferma del principio che regge la filosofia invertita.
Ma non è finita.
Sempre nelle scuole superiori, viene presentato un allettante pacchetto valido per l’alternanza scuola-lavoro (ovvero la pratica resa obbligatoria dalla c.d. buona scuola anche per i licei: 200 ore di lavoro coatto, non retribuito, oltre a decine di ore di tirocinio “formativo” sottratte alle materie curricolari): si tratta di istruttivi stage di volontariato da praticare presso i circoli di cultura omosessuale, dove i volenterosi alunni possono occuparsi della gestione degli spazi del Pride Village e della promozione delle attività e servizi ivi erogati oppure, a scelta, possono lavorare alla creazione di gruppi LGBTI tra i propri coetanei, nelle rispettive scuole di appartenenza. Clicca sulle immagini per ingrandirle.


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Sono solo alcuni spunti, si potrebbe continuare.
Ma basta questo per dire che l’abisso di depravazione finalmente emerso dalle recenti inchieste giornalistiche non è “affar loro” e facciano quello che vogliono in nome del “diritto” all’autodeterminazione. È un buco nero che vuole attirare e inghiottire i nostri figli, per disintegrarli nel corpo e nell’anima. E ha invaso tutti gli spazi lasciati liberi dal vuoto culturale, morale, religioso scavato negli ultimi decenni dal tarlo vorace della libertà fine a se stessa.
Lo strapotere accumulato nel tempo dai rapaci organismi tossici che proliferano nel corpo molle di uno Stato putrescente, votato all’autodistruzione, si maschera dietro gli abiti di scena e le battute di un copione ormai noto, e dietro la folle tracotanza dei suoi tristissimi attori: i becchini della politica, della burocrazia e dell’accademia, forti del concorso esterno delle gerarchie ecclesiali.
Che l’orrido squarcio aperto da una cinepresa monella, sfuggita di mano al gran manovratore, non si richiuda anch’esso sul tran tran annoiato e rassegnato di un popolo rimasto senza più onore nè virilità. Almeno lo schifo allo stato puro deve provocare uno scatto di orgoglio.
Siamo corresponsabili di quello schifo finché stiamo a guardarlo con le mani in mano.
Dobbiamo armarci fino ai denti in difesa di quei ragazzi cui abbiamo dato la vita senza saper insegnare loro il senso di quel dono.

– di Elisabetta Frezza

https://www.riscossacristiana.it/le-iene-lunar-e-linferno-gaio-di-elisabetta-frezza/


Il suicidio di “DJ Fabo” non mi ispira alcuna commozione – di Paolo Deotto

In un’orgia di melensaggini, non si dice l’unica cosa che si dovrebbe dire: una società di disperati, avendo rifiutato Dio, ormai non sa fare altro che condurre alla morte. Gli squallidi profittatori radicali fanno del “diritto al suicidio” un’altra delle loro battaglie (in)civili. Siamo quasi al fondo della fogna, con una coerenza folle. E perché non suicidarsi anche solo per taedium vitae? Anch’esso può diventare una sofferenza terribile…
di Paolo Deotto
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Diversi anni fa vissi molto da vicino una storia di grande sofferenza. La moglie di un cari amico, affetta da una gravissima forma di tumore, passò gli ultimi due anni della sua vita immobilizzata in letto, tra dolori incessanti. Quando Dio volle, morì. Il marito non si staccava un attimo da lei e mai avrebbe pensato di “liberare” sua moglie. Si affidava al Signore, ben consapevole che comunque, dal punto di vista medico, la battaglia era persa.
Le esequie furono celebrate da un prete cattolico (ve lo dicevo prima, sono ricordi tanti anni fa e ancora c’erano preti cattolici). Ricordo che quel sacerdote parlò della Grazia che la defunta aveva avuto: quei due anni di sofferenze l’avevano finalmente riavvicinata al Signore, da cui si era allontanata tanti anni prima.
Lei stessa, a un certo punto del suo doloroso cammino, aveva chiesto l’assistenza del sacerdote. Aveva ricominciato ad accostarsi a quei Sacramenti che da tanti anni aveva dimenticato ed era morta in pace, dopo una serena confessione e dopo aver ricevuto l’Estrema Unzione.
Già, proprio così: la malattia, la sofferenza, erano Grazie che permettevano a un’anima persa di ritrovarsi e di comprendere di nuovo il motivo per cui nasciamo, viviamo, moriamo.
E così per altri – quanti esempi abbiamo nelle vite dei Santi – la sofferenza può essere invece l’offerta in espiazione, per i nostri peccati e per quelli del mondo, l’avvicinarsi sempre di più alle sofferenze patite dal Signore per riscattare le nostre colpe.
La sofferenza ha un senso e un valore, come ogni istante della vita che il Signore ci dona. Siamo noi a costruire tanti, troppi istanti della nostra vita senza senso, quando cadiamo nel peccato. Ma Cristo si è fatto uomo e ha patito per noi per darci la possibilità di guadagnare la vita eterna.
Fuori da queste poche nozioni, che i nostri nonni conoscevano benissimo, anche se illetterati, non c’è assolutamente alcuna speranza. Niente di niente. E i fatti ce lo dimostrano.
La società “laica”, fieramente orgogliosa della sua disperata e disperante libertà, non sa dare una risposta alla sofferenza e alla morte. Finché può, fa finta che non esistano e infatti ormai non si pronuncia quasi mai la parola “morte”. “Fine vita” è più soft.
La società “laica” è intrisa di morte, perché tutti i suoi neo-diritti puzzano di cadavere. Una società che autorizza la madre ad ammazzare il bambino che porta nel suo seno, e le fornisce il servizio gratis, è una società già morta, schiacciata dalla sua demoniaca disperazione.
E allora, per favore, piantiamola di far retorica su questo ennesimo vergognoso episodio. Un uomo di quarant’anni, evidentemente ingannato dai cattivi insegnamenti che aveva avuto da finti amici, cade nell’abisso della disperazione. I suoi parenti (ma che bei parenti), i suoi amici (?), lo appoggiano nei suoi desideri malsani. Certo, è molto ma molto più difficile condividere la sofferenza, vedere una persona amata (?) star male e sapere che non si può più fare nulla.
Quell’amico di cui parlavo in apertura visse due anni al capezzale della moglie, e Dio sa quanto l’amava. Soffrì con lei fino all’ultimo. Aveva, guarda caso, sempre il Rosario tra le dita.
In più, a rendere ancora più squallido il quadro, ecco il solito radicale che deve prendere il posto di primo attore. Questa volta è di turno tale Marco Cappato: “Spero di essere incriminato”. Ma a che punti si può arrivare per soddisfare la propria libidine di essere sotto i riflettori?
Comunque, non manca di aggiungere che lui non ha “istigato” DJ Fabo al suicidio, ma lo ha “aiutato”. Sottigliezze giuridiche, già, perché l’importante è essere a posto con la legge, il nuovo idolo di chi, non credendo più in Dio, arriva a credere a tutto: anche che una legge sia sufficiente a rendere bella e buona quella che è solo una porcheria. La “legge” che deve essere fatta dallo “stato”, il nuovo deus ex machina che tutto può e la cui parola è “verbo”.
No, non riesco a commuovermi per tutta questa vicenda. Siamo solo di fronte all’ennesimo trionfo del diavolo e quindi non c’è proprio nulla di commovente. Il diavolo puzza, va scacciato con le dovute preghiere e digiuni.
Comunque si voglia girare la frittata, il risultato è sempre uno solo: la società scristianizzata si sta uccidendo da sola, giorno per giorno. Con l’aborto, con la distruzione della famiglia, con le droghe, con l’omosessualità. E di qui a breve, con l’eutanasia e con il nuovo diritto, il “diritto al suicidio”. Né può avvenire altrimenti, perché la vita, senza un riferimento trascendente, è una corsa senza senso. Quando si esauriscono tutti i piaceri che se ne possono ricavare, la vita diventa comunque un fardello. E allora, perché non fare una bella legge che garantisca comunque il diritto al suicidio? Perché chi soffre di taedium vitae non dovrebbe essere libero di suicidarsi? Basterebbe una piccola liberalizzazione al commercio delle armi, così severamente regolato in Italia: “E’ libero l’acquisto di un’arma corta, pistola o rivoltella, per solo uso personale. Su sé stessi”. Certo, bisognerebbe stabilire con cura anche il numero massimo di cartucce acquistabili, perché il primo colpo magari può scappare a vuoto. L’importante è che tutto avvenga nella legalità. O no?
In questa festa di morte, in questo sbarazzarsi del malato grave negandogli quell’amore totale che sa condividere il dolore fino in fondo, non abbiamo finora sentito la voce della CEI. Ma in una neochiesa il cui CEO ebbe già a dire che lui non sapeva dare una spiegazione al dolore, forse è meglio così.

Giulietto Chiesa: “Gioventù italiana sotto vuoto spinto. Chi ricomincerà a ricostruire i cervelli? “

Giulietto Chiesa introduce un video sconcertante, circolato insistentemente nei giorni scorsi. La demolizione sistema...


IL SEGRETO DELLA PACE

    Il segreto della pace è rimettersi alla volontà di Dio e non dalla soddisfazione dei desideri umani. E' il segreto che tante persone cercano in mille direzioni senza mai riuscire ad afferrarlo, senza mai arrivare a intravederlo 
di Francesco Lamendola  






Fare sempre la volontà di Dio; anteporla ad ogni altro ragionamento e ad ogni calcolo di umana convenienza; spogliarsi della propria volontà per accogliere interamente quella divina; accettare e ringraziare sempre Dio di tutto ciò che ci manda, sia le prove che le gioie, conservando inalterata e incrollabile l’assoluta certezza che nulla viene dal caso, nulla è ingiusto, nulla è assurdo, se noi lo viviamo come parte di un disegno perfetto e provvidenziale, che non possiamo comprendere sino in fondo con la nostra intelligenza, ma del quale possiamo e dobbiamo fidarci: questo è il segreto della pace del cuore, che tante persone cercano invano in mille direzioni, ma senza mai riuscire ad afferrarlo, senza neanche arrivare a intravederlo.
Per quale ragione ci inquietiamo, se qualcosa non va secondo i nostri desideri? Perché crediamo di saperne più di Dio riguardo a ciò che è bene per noi. Per quale ragione imprechiamo contro la sorte, se veniamo colpiti da un’avversità, da una prova, da una malattia? Perché il nostro ego vorrebbe sempre e solo piaceri e soddisfazioni, e mai contrarietà o affanni: come un bimbo viziato che pretende di non trovare mai una mela con il verme nel cesto della frutta, né una noce guasta, né un grappolo d’uva un po’ appassito. E per quale ragione arrotiamo i denti e stringiamo i pugni se altri ricevono cose migliori di noi o se ottengono riconoscimenti che a noi non sono dati? Perché ci divora l’invidia, ed essa nasce dall’ego, e questo da un impulso cieco e insaziabile, che non sa mai dire “tu”, né riconoscere i meriti altrui, e che giudica come un affronto personale e come fossero rubate a lui stesso le cose che vorrebbe per sé, ma che non gli è dato raggiungere.
La pace del cuore viene dalla piena accettazione della volontà di Dio e non dalla soddisfazione dei desideri umani; i quali, abbandonati a se stessi, tendono ad essere sempre più disordinati, e, di conseguenza, sempre più grandi, sempre più avidi, e tali da moltiplicarsi e crescere a dismisura, mano a mano che i primi vengono soddisfatti. La maggior parte dei cosiddetti credenti dicono di aver fede in Dio, ma, in realtà, non appena vengono messi alla prova, mostrano di fidarsi solo di se stessi: si aggrappano alle cose, alle loro brame, alle loro aspettative, fanno resistenza all’azione di Dio, alla grazia dello Spirito Santo: se avessero davvero un po’ di fede, si lascerebbero andare e si renderebbero docili strumento della mano di Dio, permetterebbero a Lui di operare attraverso di loro e ne sarebbero felici, appagati, pienamente realizzati. Siamo soliti dire: quell’uomo è ben fortunato, perché ha potuto realizzarsi interamente; ma quale realizzazione potrebbe mai esistere, al di fuori o, magari, contro la volontà di Dio? Assolutamente nessuna. O l’uomo si fida di Dio e si lascia condurre da Lui, oppure non è che un povero essere mancato, un bruco che non è mai riuscito a diventare farfalla, un fallito.
Un grande mistico medioevale, il domenicano Giovanni Taulero (Strasburgo, 1302 ca-ivi, 1361), discepolo di Meister Eckhart, sosteneva che solo l’intima unione con Dio permette la vera conoscenza, e non lo studio della teologia; cita infatti più volte san Tommaso d’Aquino, ma non in quanto teologo neo-aristotelico, bensì in quanto uomo che ha saputo realizzare in sé l’unione mistica con Dio. I grandi teologi di Parigi leggono i grossi volumi e ne voltano i fogli. Ciò è molto buono. Ma queste persone (interiori) leggono il libro della vota dove tutto è vivente, voltano il cielo e la terra e vi leggono la meravigliosa opera di Dio. […] E tutti gli eruditissimi maestri di Parigi, con tutta la loro sottigliezza, non potrebbero giungervi. E se volessero parlarne, dovrebbero ammutolire, e più volessero parlarne, meno lo potrebbero e meno lo comprenderebbero. E non solo naturalmente, ma neppure tutta la ricchezza della grazia né tutti gli angeli e santi potrebbero concedere loro di parlarne. Solo un uomo semplice, che si è abbandonato a Dio ed è umile, sperimenta e sente questa unione con Dio nel suo fondo interiore (Louise Gnädinger, Giovanni Taulero. Ambiente di vita e dottrina mistica Ed. Paoline, Torino, 1997, pp. 69-70).
Nella sua vita c’è stato un episodio che permette di comprendere, con limpida chiarezza, cosa intendono i mistici quando parlano dell’abbandono totale e fiducioso alla volontà di Dio. Lo riportiamo così com’è stato narrato da un religioso che è vissuto nel nascondimento, coerentemente con la sua dottrina di vita, e infatti ci ha lasciato un paio di volumi firmati solo con il suo nome da monaco passionista, padre Cristoforo dell’Addolorata. Il primo, Il gigante della Croce, è una biografia del fondatore dell’ordine dei passionisti, san Paolo della Croce (1694-1775); il secondo, intitolato Il Crocifisso nella vita spirituale, è costituito da una ricca serie di meditazioni e di esempi storici sul valore del Crocifisso nella vita degli uomini. Da esso riportiamo questo episodio della vita di Giovanni Taulero, illustrante l’importanza di uniformare sempre la propria vita alla volontà di Dio  (op. cit., Basella, Bergamo, 1949, 1964, pp. 212-214):

Il celebre Taulero aveva un grande desiderio di farsi santo; ma siccome non si fidava della sua scienza, pregò Dio per ben otto anni a volergli inviare un maestro che gli insegnasse la via più sicura e più breve per diventare santo. Un giorno pregando con più fervore per ottenere questa grazia, sentì una voce ce gli disse: “Esci e troverai sulla gradinata della Chiesa quello che cerchi”.
Corse subito fuori di Chiesa, ma trovò solo un mendicante, sporco, scalzo, malissimo vestito da stracci… Quello era il maestro di vita spirituale chiesto da lui?... Proprio quello!
“Buon giorno”, gli disse Taulero.
“Ti ringrazio del salute, ripose il medicane, benché non mi ricordi d’aver mai avuto un cattivo giorno”.
“Sono contento, continuò Taulero, e desidero che Dio ai buoni giorni passati aggiunga ogni possibile felicità”.
“Ti ringrazio ancora, rispose il cencioso, sappi però che non sono mai stato infelice, e che in tutta la mia vita non ho mai incontrato una disgrazia”.
Stupito Taulero proseguì:
“Voglia Dio che oltre alla presente felicità, possa conseguire anche l’eterna. Devo però confessare che le tue parole mi sono un po’ oscure”.
“Ma la tua meraviglia sarà maggiore se ti assicuro che fui sempre felice e lo sono ancora adesso”.
“Son proprio sorpreso delle tue parole, però ti prego di parlarmi con maggior chiarezza”.
Allora il povero straccione disse:
“Io ti dissi di non aver mai avuto un giorno cattivo, perché i nostri giorni sono cattivi, solo se non s’impegnano a dare a Dio, mercé la nostra sottomissione, la dovuta gloria; sono sempre buoni se li spendiamo ad adorare e lodare Dio; questo ci è sempre possibile qualunque cosa avvenga. Come vedi io sono un povero mendicante, ammalato, senza aiuto né patria, costretto a girare il mondo e a sostenere privazioni grandi. Ebbene se io patisco la fame, perché nessuno mi dà da mangiare, lodo Iddio. Se sono all’aperto, esposto alla pioggia, alla grandine, al vento, e le mie membra s’irrigidiscono perché i miei poveri cenci non mi possono riparare dal freddo, ne ringrazio Dio. Se gli uomini mi disprezzano perché sono povero e miserabile, lodo ed esalto la divina maestà. In una parola, tutto mi dà occasione di lodare il Signore. La mia volontà è sempre unita perfettamente a quella di Dio, ed esalto il suo santo Nome in tutte le cose. A questo modo ogni giorno è buono per me, perché NON SONO LE AVVERSITÀ CHE RENDONO CATTIVE LE NOSTRE GIORNATE MA LA NOSTRA IMPAZIENZA. Ora perché siamo noi impazienti se non perché la nostra volontà si ribella invece di piegarsi, com’è suo dovere, a lodare Dio? Ti ho detto che in tutta la mia vita non ho mai incontrato un’avversità. Difatti se tutti gli uomini si stimano sommamente felici quando i loro affari vanno bene, tanto che non potrebbero sperare di meglio: io come vedi, sono sempre felice, perché siccome non accade mai nulla contro il volere di Dio e quanto Lui dispone a nostro riguardo è sempre il meglio per noi, perciò io sono sempre felice, mi mandi o permetta Dio ciò che vuole. E come non dovrei essere felice se penso che qualunque cosa accada per me è la più utile e la più adatta al mio maggior bene. La volontà di Dio costituisce la mia perfetta beatitudine. Ogni disposizione del Signore mi rende così contento che ne godo mille volte di più di quanto possa un altro godere soddisfacendo alle proprie inclinazioni naturali”.
Taulero ammirò la profonda sapienza di questo povero mendicante, e capì che la via più breve e più sicura per divenire santo è fare sempre la volontà di Dio.

Nei termini del pensiero stoico, potremmo dire, con Epitteto, che noi non soffriamo per le cose del mondo, ma per le nostre credenze sulle cose del mondo.
Ora, se la filosofia pagana era giunta a vedere con tanta chiarezza che non sono le cose in se stesse ad essere, per noi, belle o brutte, piacevoli o dolorose, ma il valore di bellezza e di bruttezza, di piacere o di dolore che noi attribuiamo loro, e dunque, in un certo senso, il potere che noi diano ad esse, perdendo il controllo su noi stessi, e trasferendolo alle cose esterne, tanto più dovrebbe essere chiaro, nei termini della visione cristiana, che la fede assoluta in Dio e nella sua bontà e sapienza infinite dovrebbe costituire, per noi, la differenza fra una vita felice e una vita infelice. Felice, infatti, per il cristiano, è la vita che riconosce in ogni cosa l’impronta della sapienza e della bontà del Creatore di tutte le cose; infelice, la vita di chi, non sapendo fare questo, si ostina a trovare che le cose sono belle o brutte, buone o cattive, a seconda che coincidano, oppure no, con i nostri umani desideri e con le nostre umane speranze.
Il cristiano dovrebbe allenarsi a ricordare a se stesso questa semplice verità: che noi siamo dei pessimi giudici di quel che è bene e di quel che è male per noi, e, di conseguenza, di quel che è auspicabile che ci accada. Se tutto dipendesse da noi, infatti; se noi fossimo come dei piccoli dei per noi stessi, e potessimo far sì che ci accada solo quel che vogliano e tutto quel che speriamo, allora, con assoluta certezza, noi non impareremmo mai quel che è necessario imparare dalla vita; non evolveremmo, non cercheremmo quel che è realmente il meglio per noi, dal momento che la natura umana è egoista, e il giudizio umano sulle cose è limitato, contingente, imperfetto, e, come se non bastasse, mutevole. Accade, infatti, anzi, è assai frequente, che noi non arriviamo a desiderare al sabato, quel che desideravamo sopra ogni altra cosa il lunedì: ci bastano pochi giorni per stancarci di quello che abbiamo, e, una volta raggiunta la nostra meta, subentrano la delusione, la noia e una rinnovata insoddisfazione. Siamo creature perennemente desideranti: non ci stanchiamo mai di desiderare qualcosa, qualsiasi cosa, purché si tratti di qualcosa che ancora non abbiamo; salvo poi, una volta avutala, provare rapidamente assuefazione, disincanto e indifferenza nei suoi confronti, e perciò ricominciare a desiderare ardentemente un nuovo oggetto. In altre parole, siamo delle creature in costante disaccordo con se stesse: c’è una parte di noi che vuole una cosa, un’altra parte che non vuole quella, ma ne desidera un’altra; sicché è impossibile che noi, qualsiasi cosa facciamo e comunque si risolva la nostra lotta per raggiungere le cose che, viste da lontano, ci apparivano così desiderabili, il risultato, presto o tardi, sarà sempre lo stesso: uno stato di cronica scontentezza e d’irrimediabile insoddisfazione. Nemmeno un dio che si ponesse interamente al nostro servizio, date le premesse, ci potrebbe aiutare, come illustra la favola della lampada di Aladino: perché, se noi non siamo capaci di vedere quel che realmente dovremmo desiderare, la possibilità di tradurre in atto i nostri desideri non potrà avvicinarci d’un passo alla meta della felicità.
C’è una sola maniera per non trovare deludenti le cose e per non disgustarci né di esse, né di noi stessi, che continuiamo a ingannarci nel giudicare quel che dovremmo volere e quel che dovremmo cercare: lasciare che sia fatta la volontà di Dio. Noi siamo come dei bambini, immaturi e capricciosi: non abbiamo sufficiente giudizio per sapere e per capire quel che è conveniente al caso nostro. Questa è la verità: e chi se ne persuade, è cristiano; mentre chi non ne è persuaso, pensa di poter sapere quel che sia bene meglio di quanto lo sappia Dio. Per il cristiano, infatti, nulla accade che Dio non lo voglia o non lo permetta: Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! (Mt., 10, 29-31). Pensare che noi siamo migliori giudici di Dio quanto al nostro bene, equivale a negare la sua sapienza e la sua provvidenza; equivale, cioè, a negare il Dio del Vangelo, il Verbo Incarnato. E, se si arriva a quel punto, ci si può chiamare come si preferisce, anche cristiani, se così fa piacer, ma la verità è che si è pagani: perché è proprio del paganesimo fabbricarsi un’idea tutta umana di Dio e pensare che Dio, per dimostrarci che esiste e ci ama, deve fare esattamente ciò che vorremmo noi… 

Il segreto della pace è rimettersi alla volontà di Dio

di 
Francesco Lamendola


1 commento:

  1. Gli stessi fetidi ch, in queste pseudo associazioni antidiscrimine del blabla', giocano alla roulette russa che ha come premio finale il contrarre l'AIDS, sono gli stessi che di giorno entrano nelle aule scolastiche a discettare di gender.

    Un particolare?
    Durante le ore di 'gender' gli insegnanti di classe, quelli veri, hanno l'ordine di restare fuori (della serie 'non impicciatevi!').

    Così la diuturna Campagna Acquisti Pedoomoerotica per l'inferno può proceder indisturbata (nonché lautamente foraggiata dal governo, per la benefica mano dell'arcobalenica signorina Boschi).

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