Nell’attuale clima ecclesiastico l’iniziativa del Comitato “Beata Giovanna Scopelli” di Reggio Emilia in occasione del gay-pride non poteva che risultare urticante, soprattutto per l’insopportabile presunzione (perché di questo si tratta) di sostenere che Dio «E’». E se affermiamo l’Essere di Dio, non possiamo che confrontarci con la nostra creaturalità di uomini e con il primo dei nostri peccati: ‘the pride’, l’orgoglio.
di Giuseppe Fausto Balbo
.
Nel 1514, in un celebre affresco nella stanza di Eliodoro in Vaticano, Raffaello Sanzio dipinse l’incontro tra san Leone Magno e il re Attila. Si può discutere sulla precisione storica dell’avvenimento, quello che è certo è che c’è stato un tempo in cui, nell’immaginario ecclesiale, si è potuto ritenere possibile che un Vescovo andasse incontro ad un nemico temibile (e letale) con la Croce e le insegne episcopali.
Oggi a noi, se va bene, può darsi di incontrare un vescovo, la cui nomina si suppone sia tra quelle di buon gusto[1] perché gli è stato chiesto di non cambiare mai[2], che con i suoi paramenti gira in bicicletta invitandoci ad andare da lui, dove un giorno sì e l’altro anche, si fa festa.
Del resto l’ “Eucarestia” non è una festa?
In questo clima ecclesiastico l’iniziativa del Comitato “Beata Giovanna Scopelli” di Reggio Emilia in occasione del gay-pride non poteva che risultare urticante.
Urticante non tanto per il suo “essere contro” (fatto comunque che ai tempi nostri è “un peccato mortale”).
Urticante non tanto perché propone “un atto di devozione pubblica in riparazione ad una gravissima offesa al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria” (del resto siamo preparati e disponibili a comprendere cosa possa essere la riparazione?).
Urticante soprattutto per l’insopportabile presunzione (perché di questo si tratta) di sostenere che Dio «E’».
E se affermiamo l’Essere di Dio, non possiamo che confrontarci con la nostra creaturalità di uomini e con il primo dei nostri peccati: ‘the pride’, l’orgoglio.
Il cammino ascetico più arduo è di lasciare essere l’Essere.
Se Dio è l’Essere, noi non possiamo che essere-su-di-Lui e, costantemente, ogni volta che occorra, rivolgersi a Lui e riprendere pazientemente il nostro equilibrio.
Ma appunto, Dio, l’abbiamo rimosso e tra le mani ci è rimasto l’orgoglio. A Lui è rimasto il ruolo di un imbarazzante convitato di pietra la cui Presenza è assai disdicevole reclamare: politically uncorrect.
Figuriamoci la ‘riparazione’!
Non si può comprendere la riparazione se non si parte dalla gratitudine: “ho visto che i fiori erano belli e ho capito che dovevo ringraziare Qualcuno” diceva un monaco tanto sapiente quanto nascosto rendendo in questo modo ragione di una vocazione monastica lunga diversi decenni[3]; l’uomo deve ringraziare per la meraviglia della bontà della creazione (Gn 1,31).
La riparazione è un po’ come il negativo del rendere grazie: là dove mi rendo conto che l’ordo amoris è ferito, sento la necessità di rivolgermi a Dio per domandare perdono per aver intaccato qualcosa di cui sono il beneficiario, non il possessore, e affidarmi alla Sua opera redentiva.
Però guardando all’attuale situazione ecclesiale sembrano assai sensate le parole che l’antropologo Marc Augé mette in bocca al papa nella Pasqua del 2018: «Dio non è morto!». I fedeli esultano, il Papa prosegue: «No, non è morto, perché non è mai esistito»[4].
Questa sembra la prossima tappa di approdo per i cattolici?
Si parte da lontano: dal quel terribile giorno del 25 gennaio 1959 in cui fu indetto il Concilio Vaticani II; da quel momento dentro l’anima dei cattolici è stato messo di tutto (non senza una loro precisa connivenza, purtroppo).
Da ultimo a questi cattolici, insieme al caffè del mattino, ogni giorno viene servita loro una piccola misericordina per spegnerne ‘dolcemente’ la vita (spirituale) non senza, precedentemente, averne estirpato le radici della fede e resi, questi cattolici, come ceneri galleggianti.
Il cattolicesimo non deve essere altro che un divertissement narrativo: questo lo vuole il mondo e una larga parte del ceto ecclesiastico; l’abbiamo visto con chiarezza a Fatima dove i fatti sono stati stravolti sotto gli occhi passivi di ‘quasi’ tutti.
Quello che ci viene predicato ogni giorno non è più la lode a Dio Padre attraverso Gesù Cristo suo Figlio nello Spirito Santo, ma il culto dell’io trascendentale e delle sue possibilità esistenziali (diritti dell’uomo, solidarietà ed etica mondiale ecc.)[5].
A questo si vuol portare la fede cattolica?
E tutti plaudono un establishment clericale che, a ben guardarlo, ricorda quelle parole di Bernanos a proposito della monaca mediocre: “la religiosa mediocre non ha più da nascere, è già nata: ha fallito la sua nascita e a meno di un miracolo, rimarrà sempre un aborto”[6].
A un certo punto a Reggio Emilia qualcuno ha preso una tromba e l’ha suonata: “Svegliatevi cristiani”!
Che dire?
Anche se si dovesse far partire la processione dalla distanza di tre metri dal primo gradino della cattedrale e arrivare a tre metri dal primo gradino del santuario della Beata Vergine della Ghiara: che importa?
Che il passo sia lieve e accompagnato dal pensiero “Da nobis animas, cetera eis[7]” dove il ‘cetera’ è il ‘potere’ e la ‘roba’, a partire dall’8×1000.
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Nel 1514, in un celebre affresco nella stanza di Eliodoro in Vaticano, Raffaello Sanzio dipinse l’incontro tra san Leone Magno e il re Attila. Si può discutere sulla precisione storica dell’avvenimento, quello che è certo è che c’è stato un tempo in cui, nell’immaginario ecclesiale, si è potuto ritenere possibile che un Vescovo andasse incontro ad un nemico temibile (e letale) con la Croce e le insegne episcopali.
Oggi a noi, se va bene, può darsi di incontrare un vescovo, la cui nomina si suppone sia tra quelle di buon gusto[1] perché gli è stato chiesto di non cambiare mai[2], che con i suoi paramenti gira in bicicletta invitandoci ad andare da lui, dove un giorno sì e l’altro anche, si fa festa.
Del resto l’ “Eucarestia” non è una festa?
In questo clima ecclesiastico l’iniziativa del Comitato “Beata Giovanna Scopelli” di Reggio Emilia in occasione del gay-pride non poteva che risultare urticante.
Urticante non tanto per il suo “essere contro” (fatto comunque che ai tempi nostri è “un peccato mortale”).
Urticante non tanto perché propone “un atto di devozione pubblica in riparazione ad una gravissima offesa al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria” (del resto siamo preparati e disponibili a comprendere cosa possa essere la riparazione?).
Urticante soprattutto per l’insopportabile presunzione (perché di questo si tratta) di sostenere che Dio «E’».
E se affermiamo l’Essere di Dio, non possiamo che confrontarci con la nostra creaturalità di uomini e con il primo dei nostri peccati: ‘the pride’, l’orgoglio.
Il cammino ascetico più arduo è di lasciare essere l’Essere.
Se Dio è l’Essere, noi non possiamo che essere-su-di-Lui e, costantemente, ogni volta che occorra, rivolgersi a Lui e riprendere pazientemente il nostro equilibrio.
Ma appunto, Dio, l’abbiamo rimosso e tra le mani ci è rimasto l’orgoglio. A Lui è rimasto il ruolo di un imbarazzante convitato di pietra la cui Presenza è assai disdicevole reclamare: politically uncorrect.
Figuriamoci la ‘riparazione’!
Non si può comprendere la riparazione se non si parte dalla gratitudine: “ho visto che i fiori erano belli e ho capito che dovevo ringraziare Qualcuno” diceva un monaco tanto sapiente quanto nascosto rendendo in questo modo ragione di una vocazione monastica lunga diversi decenni[3]; l’uomo deve ringraziare per la meraviglia della bontà della creazione (Gn 1,31).
La riparazione è un po’ come il negativo del rendere grazie: là dove mi rendo conto che l’ordo amoris è ferito, sento la necessità di rivolgermi a Dio per domandare perdono per aver intaccato qualcosa di cui sono il beneficiario, non il possessore, e affidarmi alla Sua opera redentiva.
Però guardando all’attuale situazione ecclesiale sembrano assai sensate le parole che l’antropologo Marc Augé mette in bocca al papa nella Pasqua del 2018: «Dio non è morto!». I fedeli esultano, il Papa prosegue: «No, non è morto, perché non è mai esistito»[4].
Questa sembra la prossima tappa di approdo per i cattolici?
Si parte da lontano: dal quel terribile giorno del 25 gennaio 1959 in cui fu indetto il Concilio Vaticani II; da quel momento dentro l’anima dei cattolici è stato messo di tutto (non senza una loro precisa connivenza, purtroppo).
Da ultimo a questi cattolici, insieme al caffè del mattino, ogni giorno viene servita loro una piccola misericordina per spegnerne ‘dolcemente’ la vita (spirituale) non senza, precedentemente, averne estirpato le radici della fede e resi, questi cattolici, come ceneri galleggianti.
Il cattolicesimo non deve essere altro che un divertissement narrativo: questo lo vuole il mondo e una larga parte del ceto ecclesiastico; l’abbiamo visto con chiarezza a Fatima dove i fatti sono stati stravolti sotto gli occhi passivi di ‘quasi’ tutti.
Quello che ci viene predicato ogni giorno non è più la lode a Dio Padre attraverso Gesù Cristo suo Figlio nello Spirito Santo, ma il culto dell’io trascendentale e delle sue possibilità esistenziali (diritti dell’uomo, solidarietà ed etica mondiale ecc.)[5].
A questo si vuol portare la fede cattolica?
E tutti plaudono un establishment clericale che, a ben guardarlo, ricorda quelle parole di Bernanos a proposito della monaca mediocre: “la religiosa mediocre non ha più da nascere, è già nata: ha fallito la sua nascita e a meno di un miracolo, rimarrà sempre un aborto”[6].
A un certo punto a Reggio Emilia qualcuno ha preso una tromba e l’ha suonata: “Svegliatevi cristiani”!
Che dire?
Anche se si dovesse far partire la processione dalla distanza di tre metri dal primo gradino della cattedrale e arrivare a tre metri dal primo gradino del santuario della Beata Vergine della Ghiara: che importa?
Che il passo sia lieve e accompagnato dal pensiero “Da nobis animas, cetera eis[7]” dove il ‘cetera’ è il ‘potere’ e la ‘roba’, a partire dall’8×1000.
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[1] http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/05/18/quando-la-nomina-di-un-vescovo-scatena-una-guerra-tribale/
[2] Intervista Lorefice http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/11/07/chi-sta-con-i-poveri-non-abita-in-un-castello18.html
[3] Emonet P.M., Philosphie de l’ȇtre et vie contemplative, Nova et Vetara (Reveu fondée en 1926 par le cardinal Charles Journet) 63 (1988/2), p. 149-154.
[4] Augé M., Le tre parole che cambiarono il mondo, Milano Cortina 2016
[5] http://vigiliaealexandrinae.blogspot.it/2016/11/lutero-francesco-e-gli-altri-alcune.html
[6] Bernanos, G., Romanzi e Dialoghi delle Carmelitane, Milano, Mondadori 2006, pag. 1188.,
[7] a noi da le anime, agli altri tutto il resto
– di Giuseppe Fausto Balbo
23/5/2017
Svegliatevi...ormai certo tradizionalismo ha le stesse parole dei testimoni di geova. Dopo di loro il diluvio (sic) e il bello è che vorrebbero la benedizione della Curia
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