Carissimi amici e lettori, ben trovati! Ho avuto bisogno di un lungo periodo di pausa forzata dal computer ma nel frattempo non ho smesso di raccogliere e di valutare tutte le eresie che quotidianamente si trovano sotto gli occhi dei fedeli cattolici. Riprendiamo oggi la nostra rubrica che, come sicuramente ricorderete, si era attestata al II appuntamento. Oggi parleremo delle eresie legate alla Pasqua ma partendo da un punto di vista particolare, vale a dire quello liturgico. Perché dobbiamo parlare di liturgia e non di teologia? Perché parlando di liturgia si parla – eccome! – di teologia e quindi sbagliare liturgia significa avere idee sbagliate in teologia. E questo per almeno due motivi: il primo è che la liturgia «è fonte e culmine della vita cristiana» (da essa tutto parte, e ad essa tutto torna); il secondo è cristallizzato in una legge antichissima della Chiesa, ribadita anche nell’ultima edizione del Catechismo, «Lex Orandi, Lex Credendi», per cui i fedeli sono tenuti a credere e professare tutto ciò che la Chiesa celebra in tutte le sue pratiche liturgiche. Con uno slogan, potremmo correttamente dire che chi sbaglia teologia, sbaglierà liturgia ma anche il contrario visto che, soprattutto dal punto di vista dei fedeli laici, la liturgia ha un carattere profondamente pedagogico nonché mistagogico (che ci introduce/conduce al mistero).
Cosa c’entra però tutto questo con la Pasqua? Un discorso del genere non si può applicare a tutte le celebrazioni liturgiche, siano esse celebrate in Tempi Forti come in Tempo Ordinario? In linea di principio l’obiezione è corretta, giacché ogni singolo mistero celebrato racchiude in sé tutta la Rivelazione (in una Messa votiva per la Madonna, ad esempio, si celebreranno anche i misteri di Cristo e della Chiesa e non solamente i misteri della Vergine) tuttavia, sempre secondo l’insegnamento bimillenario della Chiesa, proclamato solennemente nell’Annuncio del Giorno di Pasqua nel giorno dell’Epifania, il Triduo Pasquale è «il centro dell’anno liturgico»: valutare quindi la qualità liturgica delle celebrazioni pasquali significa conoscere il grado di ortodossia e di amore per le anime delle persone che le celebrano, siano essi sacerdoti come laici (i quali, ad esempio, potrebbero recitare quotidianamente, senza sacerdote, comunitariamente quanto singolarmente, la Liturgia delle Ore).
Ma a questo punto, penso siano necessarie due precisazioni: 1) non è in discussione la devozione delle celebrazioni, nonché del celebrante, poiché essa può dipendere anche da circostanze contingenti (un sacerdote che celebra una messa con un mal di testa atroce non potrà avere la stessa condizione psicofisica di un novello sacerdote che celebra la sua Prima Messa) e pertanto parliamo di cose che cisembrano oggettive in quanto pubbliche, reiterate ed anche giustificate da chi le pratica; 2) facciamo riferimento essenzialmente al Rito Romano Nuovo (NO), che seguo abitualmente ancora oggi, dopo cioè la restaurazione del Rito Romano Antico (VO): non ho nulla contro il VO, semplicemente preferisco(mi si passi il termine) il NO e non so, pertanto, se alcuni problemi riscontrati in alcuni passi della Liturgia del Triduo nelle rubriche (cioè le esplicazioni, scritte in rosso, da cui il nome, sul modo di celebrare la liturgia) siano presenti nel VO: fedele al Motu Proprio Summorum Pontificum non voglio metterli né in contrapposizione né a paragone (quasi fosse una gara) tra di essi, ma semplicemente parlare di alcune piccole cose che non tornano nella lettura delle rubriche del Messale di Paolo VI (la cui validità – attenzione! – non intendo minimamente mettere in discussione neanche come ipotesi).
Perché sottolineo il fatto che mi riferisco alle rubriche? Perché esse sono spesso percepite come semplici annotazioni a margine ma invece, dovendo esplicitare la corretta celebrazione, sono di capitale importanza. Il Messale di Paolo VI ne presenta poche, spesso uguali ad altre presenti già esplicitate, ed a volte non riguardano – ahimé – la completa celebrazione ma solamente alcuni momenti particolari: le formule su cui è bene riflettere, e che sono ripetute fino allo sfinimento nella lettura del Messale, rientrano tra i permessi e le eccezioni. In pratica le rubriche del Messale di Paolo VI rendono, nei fatti, moltissime cose sempre omettibili oppure a discrezione del sacerdote e della comunità in cui i misteri si celebrano. Basta una lettura delle rubriche generali per toccare con mano che le forme verbali «si può / si possono» sono usate a iosa, lasciando il lettore abbastanza sorpreso in quanto da almeno 500 anni, cioè dal Concilio di Trento, ma anche da molto prima, la Chiesa aveva intrapreso la strada dell’uniformità liturgica (con obbligo di praticare le rubriche) per poter meglio sottolineare il carattere dell’unico sacrificio di Cristo, evitando prassi liturgiche discutibili e permettendo anche ai fedeli di nazionalità diverse, ma appartenenti tutti al medesimo rito latino, di poter individuare facilmente la medesima celebrazione eucaristica in ogni parte del mondo. Il Messale attuale fa a volte riferimento alle usanze locali, come anche alla prassi e pochissime volte alla tradizione: non si tratta di problemi di traduzione in quanto la forma tipica latina usa spesso e volentieri il termine mos che, per quanto lo si voglia ancorare ad un concetto di patrimonio antico da conservare, è essenzialmente diverso dalla traditio di cui parla il Catechismo.
Partendo da queste rubriche, in particolare dai permessi per le omissioni, buona parte del clero che ha vissuto l’immediato post-Concilio Vaticano II ha stravolto e continua a stravolgere le usanze locali e la medesima liturgica. Che cosa è successo e succede tutt’ora infatti? Essendo i ministri ordinati coloro che presiedono ogni assemblea liturgica, cominciando dal Vescovo, il quale è «il liturgo della Diocesi», ancora oggi è ovvio che siano essi ad occuparsi della preparazione e dello svolgimento delle celebrazioni: questa cosa, tuttavia, la dobbiamo immaginare ancor più ingigantita se rapportata agli anni ’60 e ’70 quando, cioè, il Messale di Paolo VI si andò diffondendo in tutta la Chiesa latina. All’epoca, come è facile sia sapere dai protagonisti che intuire dai risultati che sono sotto i nostri occhi, il clero applicò in lungo e largo il concetto «si può omettere» andando a modificare e far morire quelle che erano «le usanze locali», vero e proprio patrimonio della Chiesa e, dunque, parte della tradizione in quanto, benché si trattasse solo di elementi fattuali e pratici, avevano la loro ragione ultima in verità di fede.
Facciamo un esempio: se si chiedesse al fedele della strada qual è il colore dei paramenti liturgici per la celebrazione del rito delle esequie – sono sicuro – quello risponderebbe senza problemi: il viola! Ma così in verità non è poiché né il Concilio né il Papa hanno abrogato (cioè dichiarato non più applicabile né valido) il colore nero: la rubrica del Messale infatti dice che «il colore nero si può usare, dove è prassi consueta, nelle Messe per i defunti». Cosa ha fatto, e continua a fare, il clero degli anni post-conciliari invece? Ha buttato nelle cassapanche delle sacrestie (o nei cassonetti nei peggiori casi) i paramenti neri comprandone viola anche dove la prassi concreta era il nero: i musei diocesani e parrocchiali sono testimonianze inequivocabili di questa prassi che è stata calpestata in favore di una non ben chiara innovazione liturgica.
Con questo piccolo esempio è facile capire come, partendo dalla lettura fantasiosa di una rubrica (di per sé problematica – non lo nego – come detto poc'anzi in quanto utilizza il termine prassi e non tradizione che rimanderebbe invece al patrimonio secolare della fede trasmessa dagli Apostoli) si è instaurata una nuova usanza che i fedeli hanno tuttavia percepito come una nuova prassi seguita all’abrogazione della legge precedente, cioè l’utilizzo del colore nero. E questo solo per un colore liturgico che, benché importante (tutto il patrimonio della Chiesa è importante in quanto nemmeno uno iota passerà) non è di fondamentale importanza in quanto non intacca, almeno apertamente, nessuna verità di fede. Il medesimo discorso si può fare per l’uso e la presenza delle balaustre, dei paliotti, del baldacchino vescovile posto sopra le Cattedre, e vale anche per l’esposizione e l’uso delle basiliche (grandi ombrelli indicanti il carattere basilicale di una determinata chiesa), per l’utilizzo del pulpito per la proclamazione della Parola di Dio e dell’omelia, etc.
Ma ci sono casi ancora più gravi che rimandano a delle vere e proprie verità di fede presenti in particolare nel Triduo Pasquale tra cui, secondo il sottoscritto, spicca il caso del Preconio Pasquale, vale a dire l’inno di esultanza da proclamare/cantare a conclusione della liturgia del fuoco nella Veglia Pasquale, madre di tutte le Veglie, e della proclamazione della Sequenza di Pasqua nella Messa del Giorno e dell’Ottava. Secondo le norme attuali, alcuni passaggi del Preconio, riportati tra parentesi quadre di colore rosso nelle edizioni dei Messali, possono essere omessi anche se non viene riportato il motivo: cosa cambia infatti se la Veglia Pasquale dura 3 minuti in più o di meno a seconda se si canta tutto il Preconio? E perché mai dovremmo avere la pretesa di accorciare ciò che i Santi hanno scritto e la Tradizione trasmesso? Che potere si ha dinanzi a secoli di storia che ci stanno a guardare (giacché abbiamo più passato alle spalle di quanto futuro pensiamo di avere dinanzi a noi)? Ed inoltre, siamo sicuri che i passi che si possono omettere non siano di capitale importanza e di alto livello mistagogico? Una delle strofe incriminate infatti è quella dove si afferma il fatto che non c’è «nessun vantaggio per noi ad essere nati se Cristo non ci avesse redenti»: siamo proprio sicuri che si tratta di un passaggio secondario e non, invece, una profondissima riflessione di teologia benché composta da si e no 15 parole? Eppure è facoltativa, come lo sono alcune strofe del Te Deum ma – addirittura! – anche la recita completa dei nomi dei santi (tra cui gli Apostoli) e delle sante nel Canone Romano.
Un’altra assurdità, riportata nel Lezionario Festivo per i Tempi Forti (cosa che mi porta a pensare/sperare che si tratti solo di un’anomalia italiana, in quanto i Lezionari sono curati ed approvati dalle Conferenze Episcopali Nazionali) riguarda la Sequenza di Pasqua, il celebre Victimae Paschali Laudes. Sarà bene spendere qualche parolina di più su questo particolare inno perché se celebrato adeguatamente potrebbe essere fonte di profondo rinnovamento e di approfondimenti teologici inimmaginabili: d’altro canto come potrebbe essere diversamente, trattandosi del patrimonio e della tradizione della Chiesa? Orbene: stando alla rubrica del Lezionario1, il povero Victimae Paschali – udite udite! – è obbligatorio solo la Domenica di Pasqua (alla cosiddetta Messa del Giorno in quanto la Veglia ha una struttura liturgica differente) ed è facoltativo nell’Ottava che, com’è noto, presenta la stessa-identica-medesima (è bene sottolinearlo) liturgia della Messa del Giorno di Pasqua in quanto prosecuzione del giorno festivo per eccellenza, tant’è che è presente sia a Natale che a Pasqua. Attenzione, però: la Messa dell’Ottava è identica a quella di Pasqua in tutto tranne nella proclamazione della Sequenza. Per i Vescovi italiani, come anche per molti parroci, infatti, questa cosa è logica ma per il sottoscritto tutto il contrario almeno per due motivi: 1) come è possibile celebrare il mistero pasquale senza la proclamazione della lode alla Vittima Pasquale? 2) che senso ha parlare di celebrazione della stessa-identica-medesima liturgia per 8 giorni se si può omettere una parte di essa? Questa cosa è sconvolgente e la si può capire, ahimè!, solamente se partiamo da una profonda quanto orribile eresia: non è più chiaro cosa sia la Resurrezione di Cristo. E penso di poter trovare le ragioni di questa mia forte affermazione nella lettura della traduzione ufficiale della medesima sequenza su cui è bene riflettere.
I problemi, neanche a dirlo, nascono fin dalla prima strofa, in quanto la traduzione italiana compie un volo che avrebbe fatto impallidire anche Pindaro: anziché, come dovrebbe essere, tradurre con «Alla Vittima Pasquale i cristiani immolino / innalzino la propria lode»2, il Lezionario presenta la seguente traduzione: «Alla Vittima Pasquale si innalzi oggi il sacrificio di lode» spostando il soggetto da tutti i cristiani che devono celebrare il sacrificio di Cristo (e quindi tutta la Chiesa, militante-purgante-trionfante, presente interamente quanto misteriosamente in ogni singola celebrazione liturgica della Chiesa, in particolare nella Santa Messa) ai singoli fedeli riuniti in un determinato momento, vale a dire l’assemblea per la celebrazione pasquale, cosa che giustifica la presenza dell’oggi nella traduzione. Si tratta di qualcosa di sconcertante in quanto, nella prassi, passa l’idea che la lode sia solo dei viventi e, vieppiù, solamente dei presenti a quella determinata Messa, cosa che, però, è smentita categoricamente dall’Apostolo che afferma che «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e sottoterra». Ma i nostri Vescovi sbagliano anche nella successiva strofe in quanto, anziché tradurre con «l’Agnello ha redento le pecore, Cristo l’Innocente / l’Innocente Cristo ha riconciliato al Padre i peccatori»3 traducono con «l'Agnello ha redento il suo gregge, l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre». Vedendole così non sembra nulla di fondamentale, in quanto manca solamente il nome Cristo ma così non è in quanto non è chiaro chi sia la Vittima Pasquale né tanto meno chi è l’Agnello o l’Innocente: in pratica ci si vergogna di chiamare per nome proprio il nostro Salvatore, cioè Cristo. Una dimenticanza del genere non è cosa di poco conto in quanto intacca un punto cardine della nostra fede: Cristo, e solo lui, ha redento l’umanità riconducendola la Padre. Le altre strofe non presentano nessun problema finché non si arriva alla fine in quanto, misteriosamente, non si vuol dire che Cristo è risorto dai morti4 dal momento che ci si è rifiutati di tradurre il «a mortuis» e lasciando un generico «risorto»: ma per affermare la corretta traduzione dobbiamo essere sicuri che Cristo sia risorto, ma come possiamo esserne certi se la resurrezione di Cristo è reale ma non storica, come vuole la teologia contemporanea?
Infatti io non vedo altra spiegazione che la seguente: i traduttori, con evidenti problemi di ortodossia, approfittano di una parte mobile della Celebrazione Eucaristica (in quanto non è presente tutto l’anno) per poter insinuare dei piccoli dubbi rispetto al mistero pasquale contraddicendo invece ciò che il Messale ripete in continuazione nello stesso giorno, vale a dire il fatto che «in questo giorno […] Cristo è risorto nel suo vero corpo».
Ma le cose da dire sul triduo sarebbero ancora di più, e riguardano sia le rubriche che la prassi di alcuni sacerdoti che, ad esempio, il Venerdì Santo si rifiutano di suonare le campane a morto mantenendole accese e funzionanti come se fosse un giorno qualsiasi per tutto Sabato Santo; che durante la Veglia di Pasqua si rifiutano categoricamente di inserire i grani di incenso nel cero, o di proclamare tutte le letture previste come se ci si trovasse sotto un bombardamento; ma ci sono anche parroci che benedicono un cero pasquale che poi, dopo Pentecoste, verrà tagliato per farne candele per l’altare andando a ripescare, in caso di battesimi o funerali, qualche vecchio cero con il contenitore per la cera liquida (facendo respirare le traballanti risorse economiche della Chiesa); ci sono Vescovi (tra cui il mio) che il Giovedì Santo arrivano tardi per la Celebrazione, predicano eresie per 25 minuti ma poi non utilizzano il Canone Romano durante la Consacrazione per poter velocizzare la celebrazione (in questo aiutati dal Messale che non ne vieta l’uso, neanche in quel giorno solenne); ci sono Vescovi che anticipano la Messa Crismale al mercoledì pomeriggio (togliendo ai fedeli di tutte le sue parrocchie la possibilità di andare a Messa quel pomeriggio) perché il Giovedì mattina i sacerdoti hanno da fare; ma c’è anche chi toglie i tappeti per la realizzazione di un Concerto ma li lascia per tutta la Quaresima; oppure chi organizza concerti di Pasqua (con tanto di canti di Alleluja, Regina Coeli, chi ne ha più ne metta) in Quaresima e finanche nella Domenica delle Palme; ho conosciuto un sacerdote, fresco di Licenza in Liturgia, che nelle diverse settimane della Quaresima ha fumigato la sua parrocchia una volta con aceto e incenso, un’altra volta con aloe e mirra, e così via, per poter continuare a rendere l’aula liturgica un luogo sano e adeguatamente idoneo a trasmettere un senso di pace e serenità; etc etc.
Il panorama delle aberrazioni liturgiche pasquali è molto ricco in quanto è altrettanto ricco il patrimonio della fede e della tradizione liturgica della Chiesa: e non potrebbe essere diversamente in quanto la Pasqua è la festa di Cristo, vincitore sul peccato e sulla morte, che ci ha aperto le porte del Paradiso benché non meritassimo neanche di poterlo chiamare Signore e Dio nostro.
Le rubriche del Messale presentano dei problemi, è vero, ma la fantasia liturgica dei sacerdoti e dei Vescovi non sembra avere freno: mi auguro che la nuova edizione del Messale, attesa da anni ed invocata a destra e a manca da tutti gli addetti ai lavori, curi maggiormente questi aspetti riconoscendo gli errori prodotti in 50 anni ed abbandonando il criterio della prassi in favore di quello della tradizione: in molti storceranno il naso, ma la Chiesa non dovrebbe curarsi di diventare mondana, bensì di evangelizzare il Mondo.
Il Cardinale del Sacco
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1 «Solo oggi [Messa del Giorno di Pasqua, n.d.r.] è obbligatoria; nei giorni fra l'ottava è facoltativa».
2 Victimae paschali laudes immolent Christiani»
3 «Agnus redémit oves:redémit oves: Christus innocens Patri reconciliávit peccatóres».
4 «Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére».
2 Victimae paschali laudes immolent Christiani»
3 «Agnus redémit oves:redémit oves: Christus innocens Patri reconciliávit peccatóres».
4 «Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére».
Firmaiolo: La Baionetta
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