E costoro hanno dettato legge per sessant’anni
Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932-Milano, 19 febbraio 2016) pubblica il suo primo libro, Il problema estetico in San Tommaso, a ventitré anni, nel 1956, mentre gli ultimi due, Pape Satàn Aleppe e Come viaggiare con un salmone, vedono la luce subito dopo la sua morte, avvenuta a 83 anni, nel 2016. Nel mezzo, la bellezza di centoventi libri fra saggi, romanzi e raccolte di articoli di giornale, e sessant’anni giusti della nostra storia. Nemmeno Emilio Salgari, che scriveva per la fame e non per la fama, riesce a star dietro a un simile record; eppure Umberto Eco non scriveva per la fame, ma per diffonde le idee dell’Aspen Institute, vale a dire per favorire l’affermazione mondiale di un potere “illuminato”, laico, laicista, razionale, ragionevole, e quanto mai politically correct. Non si pensi che abbiamo l’abitudine di litigare con i morti; in molte occasioni abbiamo espresso le nostre convinzioni riguardo a parecchi intellettuali progressisti, vivi e in ottima salute, da Umberto Galimberti a Massimo Cacciari; ma il fatto è che Umberto Eco li riassume tutti, li compendia tutti, e non solo li sintetizza, ma li esalta, come un bicchier di vino di una certa qualità esalta l’aroma di un certo piatto. Eco non è un caso letterario, è la summa della letteratura e della filosofia italiane negli ultimi sessanta anni. O, per essere più esatti, dell’estrema decadenza della letteratura e della filosofia italiane negli ultimi sessanta anni.
Nella sua produzione sterminata, si trovano sempre le stesse due o tre idee, striminziate e presentate da numerosi punti di vista, ma senza mai una vera originalità, ossia senza mai porre in discussione il punto d’osservazione prescelto. Anche in questo Eco è stato un maestro, nell’arroganza intellettuale spinta fino al punto di non avere più la percezione di se stessa: lui, che ha trascorso la vita nel fare le pulci agli altri, non le ha mai fatte a se stesso; lui, che ha trasformato in un gioco narcisista l’analisi semiologica di qualsiasi cosa, per smontare la realtà pezzo a pezzo e far vedere a tutti quanto sono infantili, banali e poco interessanti gli esseri umani (gli altri, non lui), mai una sola volta si è sognato di assaggiare la stessa medicina. O meglio, lo ha fatto, ma sempre e solo in chiave ironica e quasi farsesca: i suoi romanzi di successo, in particolare, sono costruiti con questa tecnica, estremamente noiosa e ripetitiva: portare una certa idea – sempre la stessa, il più delle volte – fino all’ossessione, al delirio, alla follia, e mostrare come degli elementi di per sé “normali” possono formare un quadro, alla fine, assolutamente folle. Della serie: il sonno della ragione genera mostri. Non molto originale e un po’ vecchiotta, ma sempre buona, in un Paese dove i neoilluministi, in ritardo di almeno cinquant’anni sul resto del mondo, la fanno ancora da padroni con una iattanza talmente becera, talmente sfrontata e talmente cialtrona, da far venire voglia anche all’ometto più dolce e mansueto di veder giungere in piazza san Pietro non i cavalli dei cosacchi quali araldi del Sol dell’Avvenire, ma i contadini sanfedisti del cardinale Ruffo, o, se si preferisce, i rozzi contadini messicani di Emiliano Zapata: perché, vale la pena di ricordarlo, questi ultimi marciavamo dietro l’immagine della Vergine di Guadalupe e non, come hanno cercato di raccontarci quei signori illuministi e illuminati, dietro l’Encyclopédie di Diderot, o sventolando Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau.
Ineffabili, incredibili, immarcescibili intellettuali illuminati, araldi del politicamente corretto, alfieri del Nuovo Ordine Mondiale in chiave gnostica, massonica e globalista: per sessant’anni ci hanno intronato gli orecchi, fino all’incretinimento e all’abbrutimento totale delle masse (il popolo bue di Maurizio Blondet, che ogni tanto si scatena in una stampede, come a Torino il 3 giugno scorso, poi ritorna a brucare l’erba); per sessant’anni hanno pontificato, imperversato su tutti i giornali, affollato tutti i salotti televisivi, occupato tutti gli spazi, senza lasciarne neanche una briciola agli altri, e specialmente ai giovani: sbrodolandosi fra di loro, scambiandosi complimenti avvelenati e veleni complimentosi, ma sempre solidali nella prevaricazione culturale, nell’instaurazione del totalitarismo illuminato, nella derisione sistematica di qualsiasi paradigma “altro”, ad onta del loro sbandierato pluralismo e dalla loro proclamata, mai però dimostrata, tolleranza, e della loro totale assenza di pregiudizi. E il popolo bue, per sessant’anni, ha fatto ressa nelle librerie per comperare l’ultimo romanzo di Umberto Eco, gran venditore del nulla, o nelle sale per conferenze, ad ascoltare l’ultima esternazione di Umberto Eco e dei suoi equivalenti, dalle cui bocche mai è uscito qualche cosa che assomigliasse, e sia pur vagamente, ad un pensiero davvero controcorrente, un pensiero, anche piccolo così, appena un poco politicamente scorretto. Tronfio e corazzato nel suo razionalismo illuminista, e convinto di aver scoperto, con la semiotica, la clavis universalis per smontare e decostruire qualunque rappresentazione “mitica” del reale, compito al quale ha dedicato la sua intera vita, trasformandola in una crociata laica, peraltro ben remunerata e decisamente gratificante, Umberto Eco, per sessant’anni, non ha fatto altro che scagliarsi contro qualsiasi cosa avesse anche solo vagamente l’aria di non rientrare nel paradigma scientista e politicamente corretto, dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion alle dichiarazioni del cardinale Ruini sui P.A.C.S. (allora si chiamavano così), peraltro non senza fare soldi a palate sfornando romanzi su romanzi che sfruttavano il filone complottista, oh, ma per “decostruirlo”, cosa credete, mica perché ci credesse! Comodo: ridicolizzare l’avversario in maniera sistematica, e, nel frattempo, realizzare generosi dividendi, sfruttando la “domanda” popolare italiota, soprattutto di matrice cinematografica, di quei temi e di quegli argomenti.
Prendiamo un esempio a caso fra le migliaia che ci si offrono (c’è solo l’imbarazzo della scelta; il Nostro non si è risparmiato e praticamente non esiste un coriandolo dello scibile umano o della realtà storica passata, presente e futura, sul quale non abbia voluto dir la sua): il Terzo Segreto di Fatima. Nell’articolo Chi non crede più in Dio crede a tutto, pubblicato su L’Espresso del gennaio 2000, opera tarda, quindi, della sua saggezza di uomo arrivato al vertice della Cultura e della Popolarità (un binomio che non dovrebbe andare d’accordo, secondo logica e secondo buon senso; ma che importa, l’intellettuale illuminato non cura simili meschine obiezioni), Eco ha spiegato ai suoi lettori come suor Lucia dosa Santos non abbia visto la Madonna, e tanto meno l’Aldilà, ma sia stata semmai suggestionata da successive letture della Bibbia e da immagini sacre viste in qualche chiesa o su qualche libro illustrato. Il Nostro, per la verità, in quel capitolo, non parla solo del Terzo Segreto di Fatima, ma di parecchie altre cose, tutte insieme: nell’ordine, parla di quanto siano sprovveduti e sciocchi coloro i quali credono all’Anno Zero, poi di coloro che credono all’alchimia, poi di quanti prendono sul serio gli esorcismi di padre Amorth, poi di quelli che credono ai sensitivi, poi di quelli che credono alla mitologia dei Cavalieri Templari, poi dei lettori di Dan Brown che prendono sul serio le sue tesi, poi sui seguaci della Tradizione (sì, con la maiuscola: la sacra Tradizione, tutta quanta!), poi sui seguaci di Ermete Trismegisto, e finalmente sui cattolici così ridicoli da credere alle profezie del Terzo Segreto di Fatima. Non male, vero, come ammucchiata di cose alle quali è ridicolo e puerile prestare attenzione? La tecnica, peraltro, è vecchia, e tipicamente giacobina: si manda alla ghigliottina Danton e gli “indulgenti” insieme a Hébert e agli “arrabbiati”: si chiama “infornata” o anche “amalgama”, e consente nel gettare il discredito su cose diversissime, anzi, opposte, ma bilanciando gli effetti di fronte al pubblico, sì da tener la barra del timone sempre al centro: via gli estremisti di destra e di sinistra, viva il potere. Ed ecco gli ingegnosi e coltissimi argomenti per mezzo dei quali il Nostro smonta, nello spazio di una striminzita paginetta, le “visioni” della povera suor Lucia (da: U. Eco, A passo di gambero, Milano, Bompiani, 2006, pp. 227-228):
Leggendo nei giorni scorsi il documento di suor Lucia sul terzo segreto di Fatima avvertivo un’aria di famiglia. Poi ho capito: quel testo, che la buona suora scriveva non da piccina analfabeta, ma nel 1944, ormai monaca adulta, è intessuto di citazioni riconoscibilissime dall’Apocalisse di San Giovanni.
Dunque Lucia vede un angelo con una spada di fuoco che sembra voler incendiare il mondo. L’Apocalisse di angeli che spargono fuoco nel mondo parla per esempio in 9,8, a proposito dell’angelo della seconda tromba. È vero che questo angelo non ha una spada fiammeggiante, ma vedremo dopo da dove viene forse la spada (a parte il fatto che di arcangeli con la spada infocata l’iconografia tradizionale è abbastanza ricca).
Poi Lucia vede la luce divina come in uno specchio: qui il suggerimento non viene dall’Apocalisse, ma dalla prima epistola di San Paolo ai Corinzi (le cose celesti le vediamo ora “per speculum” e solo dopo le vedremo faccia a faccia).
Dopo di che ecco un vescovo vestito di bianco: è uno solo, mentre nell’Apocalisse di servi del signore biancovestiti, votati al martirio, ne appaiono a varie riprese (in 6,11, in 7,9, e in 7,14), ma pazienza.
Quindi si vedono vescovi e sacerdoti salire una montagna ripida, e siamo ad Apocalisse 6,12, dove sono i potenti della Terra che si nascondono tra le spelonche e i masi di un monte. Quindi il santo padre arriva in una città “mezzo in rovina”, e incontra sul suo cammino le anime dei cadaveri: la città è menzionata in Apocalisse 11,8, cadaveri compresi, mentre crolla e cade in rovina in 11,13 e ancora,sotto forma di Babilonia, in 18,19.
Andiamo avanti: il vescovo e molti altri fedeli vengono uccisi da soldati con frecce e armi da fuoco e, se per le armi da fuoco suor Lucia innova, massacri con armi puntute sono compiuti da cavallette con corazza di guerriero in 9,7, al suonare della quinta tromba.
Sui arriva finalmente ai due angeli che versano sangue con un innaffiatoio (in portoghese un “regador”) di cristallo. Ora di angeli che spargono sangue l’Apocalisse abbonda, ma in 8,5 lo fanno con un turibolo, in 14,20 il sangue trabocca da un tino, in 16,3 viene versato da un calice.
Perché un innaffiatoio? Ho pensato che Fatima non è tanto lontana da quelle Asturie dive nel Medioevo sono nate le splendide miniature mozarabiche dell’Apocalisse, più volte riprodotte. E quivi appaiono angeli che lasciano cadere sangue a zampilli da coppe di fattura imprecisa, proprio come se innaffiassero il mondo. Che abbia giocato nella memoria di Lucia anche la tradizione iconografica è suggerito da quell’angelo con la spada di fuoco dell’inizio, perché un quelle miniature talora le trombe che gli angeli impugnano appaiono come lame scarlatte.
La cosa interessante è che (se non ci si limitava ai riassunti dei giornali e si leggeva tutto il contenuto teologico del cardinal Ratzinger) si poteva vedere che questo onest’uomo, mentre si adoperava a ricordare che una visione privata non è materia di fede, e che u’allegoria non è un vaticinio da prendere alla lettera, ricorda esplicitamente le analogie con l’Apocalisse.
Non solo, precisa che in una visione il soggetto vede le cose “con le modalità a lui accessibili di rappresentazione e conoscenza”, per cui “l’immagine può arrivare solo secondo le sue misure e possibilità”.
Il che, detto un poco più laicamente (ma Ratzinger intitola il paragrafo alla “struttura antropologica” della rivelazione), significa che, se non esistono archetipi junghiani, ciascun veggente vede ciò che la sua cultura gli ha insegnato.
Crediamo che questa pagine di prosa offra uno spaccato sufficiente per comprendere tutto il vuoto assoluto e la disinvolta ciarlataneria che sono alla base del “metodo” caratteristico di codesto semiologo/tuttologo/filosofio/fililogo/biblista/storico delle religioni, che si ripete, con monotonia esasperante, di qualunque cosa egli parli. Il metodo consiste nel trovare una associazione con qualche altro testo, illustrazione, manifesto pubblicitario, programma televisivo, ecc. e nel sostenere che le perone hanno rielaborato “inconsciamente” (ah, Freud, Freud, quando smetterai di far danni?) quei messaggi, e il gioco è fatto. Basta dire, davanti a qualsiasi affermazione: Aspetta, mi ricorda qualcosa, e tirar fuori la prima immagine che passa per la mente, e tutto è spiegato: suor Lucia non ha “visto” gli angeli, l’inferno, i dannati, ha solo ricordato le immagini viste nelle miniature mozarabiche o i brani letti nell’Apocalisse. Semplice ed elegante, no? Sì, certo: la spada non era una spada, ma una tromba; l’angelo non era uno; il papa vestito di bianco non era da solo: ma per tutto c’è una spiegazione, quel che conta è aver trovato il materiale originario. E poi, le Asturie non sono vicine a Fatima? Come dire: Postumia non è “vicina” a Milano? Quindi se io sogno, a Milano, una grotta, è perché devo aver visto una cartolina di Postumia. Logico, non fa una grinza. E avanti di questo passo, senza mai un dubbio, una perplessità, un’incertezza: beata la fede dei semiologi.
Peccato solo che, di questo passo, non si spieghi proprio nulla. Il metodo di Eco somiglia terribilmente alla psicanalisi freudiana: la quale, come osservava Popper – che non era un bieco spiritualista, ma un positivista, vale a dire un neoilluminista pure lui, ma serio: ed ecco il ritardo cinquantennale dei neoilluministi italiani – non è falsificabile, dunque, puramente e semplicemente, non è scientifica. Ma Eco, come Piero Angela e come Margherita Hack (buonanima), non ha tempo per simili quisquilie: ciò che si può spiegare in termini di associazioni d’immagini, non ammette altra spiegazione possibile. E chi stabilisce la giusta interpretazione nella catena dei collegamenti? Ma lui, ovvio: Umberto Eco, il principe dei semiologi. Come Benedetto Croce è stato il sultano del neoidealismo italiano per mezzo secolo, Eco lo è stato del pensiero debole per sessant’anni buoni: uno a zero per lui e i suoi seguaci.
di Francesco Lamendola del 23-06-2017
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Abbiamo bisogno di coltivare la purezza
Nata da un progetto di opposizione contro Dio, la civiltà moderna si è messa, fin dal suo sorgere, sulla strada del male. Ora il ritmo della sua degenerazione morale sta accelerando, come se fosse smaniosa di arrivare alla fine: al rovesciamento completo, blasfemo, demoniaco, delle leggi divine e della natura stessa. Gli uomini contemporanei stanno lavorando a ritmo febbrile per costruire una contro-civiltà, fondata sul male anziché sul bene, sul peccato anziché sulla grazia, sulla ricerca dell’inferno anziché su quella del paradiso. Sono come presi da un furore autodistruttivo che li porta ai comportamenti più negativi, devastati, catastrofici, sia a livello individuale che collettivo. Ovunque si vedono esseri umani che non cercano il meglio per se stessi, ma il peggio: che si avviliscono, si degradano, si infliggono numerose umiliazioni, non nella ricerca del sacrificio e nell’offerta di sé, ma nell’acre voluttà della corruzione e della morte. Lo si vede nelle normali giornate lavorative, dove tutto parla di corsa al successo, alla carriera, ai piaceri, di oblio della dimensione spirituale, di disprezzo e rifiuto del sacro, di proiezione esclusiva nella dimensione orizzontale e immanente, nel dileggio di tutto ciò che è bene, giustizia, moralità. E lo si vede ancor meglio nelle giornate festive, che si trasformano in scorribande all’insegna del consumismo, all’inseguimento di vuoti divertimenti, allo stordimento con droghe, alcolici, musiche assordanti e danze sfrenate, lascive, che eccitano i sensi e proiettano l’uomo verso la sua parte inferiore, lo fanno regredire a livelli animaleschi.
Pertanto, una delle cose di cui si avverte il bisogno con maggiore urgenza è coltivare la purezza. Per reagire a tanta sporcizia, a tanta lordura, a tanto compiacimento di sprofondare nel fango, abbiamo bisogno di riscoprire le cose buone e belle che rendono l’anima pulita, che fanno star bene l’uomo con se stesso, che rendono il suo sguardo limpido e trasparente. Per stare bene con se stesso, l’uomo ha bisogno di due cose: di essere in pace con Dio e di avere rispetto e amore per se stesso e per i propri simili. Chi si degrada, si avvilisce, si prostituisce, chi mira unicamente a soddisfare gli appetiti del proprio ego e a concedere ogni vizio e ogni capriccio alla propria parte inferiore, non può trovarsi in pace con se stesso e diventa rabbioso, aggressivo, smanioso di rivalsa. Una delle radici psicologiche della odierna crociata contro il bene, da parte delle forze del male, è il desiderio di rivalsa da pare di coloro che sono fortemente a disagio con se stessi, perché non vivono come dovrebbero, hanno l’anima sporca e sprofondata nel male, e, invece di intraprende la via della purificazione, del pentimento, della conversione, sfogano la loro ira e la loro disperazione contro il mondo esterno, e tentano d’imporre per legge le loro abitudini sconce, le loro perversioni, la loro abominevole familiarità con tutto ciò che è turpe. Il loro scopo è di legalizzare e rendere normale il peccato, illudendosi, così, di alleggerire il fardello che grava loro sulle spalle, di attenuare l’angoscia che li soffoca: e non sanno, non vogliono vedere, che quel fardello non si alleggerirà mai, quel senso di soffocamento non li lascerà più, fino a quando seguiteranno a condurre una vita disordinata, all’insegna dell’abbrutimento e della cieca schiavitù nei confronti delle loro passioni più basse e degradanti.
Un aspetto caratteristico della attuale perversione morale consiste nel gusto di mettere in dubbio, di deridere, di banalizzare, di denigrare e di travisare deliberatamente, con malvagità diabolica, tutto ciò che di moralmente elevato ci capita d’incontrare nella nostra vita. I satanici maestri del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud – hanno insegnato che non esistono buone intenzioni, né anime belle, ma solo falsità, ipocrisia e opportunismo; e a noi, quanto più siamo sprofondati nella melma del pantano, non sembra vero di poter insozzare anche gli altri, di poter schizzare un po’ di quella stessa melma anche su chi è migliore di noi, sulle cose vere, buone e belle che potrebbero fungere da richiamo verso l’alto, e fungere da richiamo ad un nostro ravvedimento e alla nostra decisione di cambiar vita. Perciò, se c’imbattiamo nella purezza, nell’onestà, nella mitezza, subito ci scateniamo a rappresentarle come una maschera, dietro la quale si annidano orribili vizi: così, per partito preso, per il piacere maligno d’infangare ogni cosa e di rendere il mondo un po’ più brutto – e, se possibile, molto più brutto – di come l’abbiamo ricevuto.
di Francesco Lamendola del 23-06-2017
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